Una
lunga scia di oscuri delitti ad Aversa. Due delitti nel mondo dei gay. Il primo l’8 agosto del
1949 sulla strada Provinciale Aversa- Gricignano. Il secondo nel 1992 nel
centro della città. Il terzo ed il quarto al parco Pozzi
DOPO
UN RAPPORTO SESSUALE LO UCCISE CON UNA PIETRA E OCCULTO’ IL CADAVERE IN UNA
CUNETTA. ERA IL SUO GIOVANE AMANTE. UN ALTRO PSICOPATICO DOPO AVER UCCISO L’OMOSESSUALE UCCISE ANCHE AL
PARCO POZZI LA SUA FIDANZATA.
Il
primo delitto
In un primo momento – subito dopo la scoperta
del cadavere della vittima il
giovane - il barbiere Vincenzo Tammaro,
di anni 23, da Aversa, fu accusato di
omicidio volontario e occultamento di cadavere, per avere mediante colpi di grossa pietra inferti al
capo ed al fine di conseguire il delitto di rapina cagionato la morte di Nicola Di Santo, inoltre si
impossessava di un anello, di un orologio, e delle chiavi di casa del Di Santo
dalla quale asportava una bicicletta ed abiti della vittima. Il delitto era
avvenuto in Aversa l’8 agosto del 1949, ma
quando il giovane venne tratto in arresto ( due mesi dopo, il 5 ottobre del
1949), si capì subito che il delitto era maturato nel turpe mondo
dell’omosessualità. Ma fu legittima difesa, come sostenne l’assassino nei primi
interrogatori? Questa medesima tesi l’imputato ha sostenuto anche nel
dibattimento riecheggiata dai difensori nelle conclusioni finali. Il magistrato inquirente contestava, però, al Tammaro il delitto a fine di rapina. Poi il
movente venne modificato nel corso della complessa istruttoria formale. “Nella
mente ottenebrata – scrivono i giudici nelle loro motivazioni – il Tammaro non
uccise per rapina, perché gli oggetti da lui sottratti alla vittima li avrebbe
potuti ottenere facendo leva sulla incalzante passione di lui. Nella coscienza
ottenebrata del pederasta, allignavano severi e irrefrenabili appetiti; il
dinamismo psichico era integralmente orientato verso il Tammaro oggetto e
limite di ogni ambizione. Il tragico presagio dell’abbandono aveva – in molteplice contingenze –
annichilito il Di Santo che in vista di quella evenienza aveva anche formulato
biechi propositi. Ogni richiesta che portava come condizione lo svincolo dei
rapporti tra i due avrebbe pertanto incontrata la più larga accoglienza sul
paradigma dei comuni canoni logici che regolano la condotta umana”. Non fu
concessa l’aggravante del nesso teologico. Infatti, se il Di Santo era disposto
anche al delitto per conservare l’esclusività di quel possesso a maggior
ragione egli avrebbe profuso ogni sua risorsa per il pacifico godimento della
relazione amorosa che gli era indispensabile. Movente? Il giovane voleva
rompere la sua relazione, sia perché costui si era reso opprimente con la sua
gelosia, sia perché contratto la malattia venerea e temeva un aggravamento
delle sue condizioni. Egli attribuiva il contagio al rapporto con il Di Santo.
Sulla richiesta della legittima difesa (quantomeno putativa) i giudici
scrissero che non si poteva accettare che il Di Santo – già pronto al coito
epperò in stato di orgasmo nervoso – deviasse i suoi impulsi della libidine
all’aggressione, interrompere cioè senza motivo apprezzabile lo stato di
intensa voluttà precedente dall’aspettazione dell’imminente contatto per
attaccare e sopprimere chi quella felicità gli praticava. Il Di Santo non fece
alcun gesto! Quel volto di donna, finalmente, in tanto
marciume lo indusse e l’indice di un primo timido ravvedimento. Ma il Di Santo
incalzava. Messaggi di lui alla Nugnes perché rifiutasse la corte del Tammaro;
pedinamenti dell’uno e dell’altro perché la intesa non sbocci. Infine la
baruffa in casa del calzolaio che era
riuscito a porre la discordia tra i due giovani attribuendo al Tammaro frasi
offensive all’indirizzo dei genitori della ragazza. Ed ancora: gelosia anche
nei riguardi degli altri maschi macchiati della stessa impudicizia. Contro
questo regime di “asservimento” - dissero i
giudici - la relazione del Tammaro
integra attenuante. La difesa insistette per la provocazione del particolare
motivo di valore morale e sociale. La corte ritenne di rigettare perché il
Tammaro – che fu arrestato nel Bar Vitale – alla via Vittorio Veneto, abituale
ritrovo della zona di tutti i gay dell’epoca – anche dopo il delitto ha
continuato a frequentare l’ambiente corrotto e pervertito un covo di pederasti
nel cui luogo di ritrovo e di raduno venne arrestato. Sulla concessione delle
attenuanti generiche in considerazione del fatto che egli fu attratto in
quell’ambiante di dissolutezza, ancora sguarnito di quell’esperienza che fa l’uomo
tetragono alle insidie ed alle lusinghe. Quel primo errore alle soglie della
giovinezza decise indubbiamente dell’ulteriore corso della sua esistenza e lo
spinse al tragico gesto.
Il
secondo delitto
È una storia di ordinaria follia
quella che vide protagonista tra il 1992 e il 1993 ad Aversa un giovane sofferente
di disturbi psichici, Raffaele De
Stefano. Aveva 25 anni quando, nel giugno del 1992, dopo un’accesa
discussione tentò di ammazzare la madre e la sorella di 7 anni, aprendo il rubinetto del gas della
loro abitazione durante la notte. Uno dei familiari si era però svegliato in
tempo ed era riuscito a dare l’allarme . “Ho atteso invano il botto che doveva
far crepare mia madre e mia sorella”, raccontò agli inquirenti. Poi, alcuni
mesi più tardi, uccise selvaggiamente, colpendoli a coltellate, un uomo e una
ragazza. In tutti due i casi lasciò sulla scena del delitto tracce evidenti, a
conferma che si trattava di un serial killer disorganizzato, che agiva
d’impulso e senza attenzione, ma all’assassino si risalì anche grazie ad alcune
testimonianze e al diario di una delle vittime. Entrambi gli omicidi avevano
uno sfondo sessuale. Lello De Stefano, nato a Sant’Antimo, era figlio di una coppia che si era poi
separata. La madre viveva con l’altra figlia a Sant’Antimo, mentre il padre aveva
aperto ad Aversa un laboratorio d’arte,
nel quale lavorava anche Raffaele. Il giovane conduceva una vita sregolata, segnata dalla malattia mentale e
divisa tra le due località. Ma era ad Aversa che aveva il suo giro di
conoscenze. Due giorni prima di Natale, mercoledì 23 dicembre 1992, il primo omicidio. Raffaele De Stefano conobbe
Giovanni Brignola, 60 anni, un
omosessuale che abitava a poca distanza dal laboratorio dei De Stefano. L’uomo
invitò il giovane a casa sua, dove potrebbe aver tentato un approccio sessuale
nei suoi confronti. De Stefano lo uccise con quindici coltellate. Il cadavere
di Brignola fu trovato seminudo; sullo schermo del televisore nella stanza da
letto scorrevano le immagini di una videocassetta pornografica.
L’omicidio
rimase impunito le impronte trovate sul coltello da cucina impugnato
dall’assassino non coincisero con nessuna scheda degli archivi di polizia Ma appena due settimane dopo De
Stefano uccise di nuovo. La vittima, stavolta, fu la sua fidanzata Maria Russo, detta Mara, di 16 anni,
una bella ragazza bruna, alta un metro e 65,
lavorava in un’agenzia di pratiche automobilistiche e frequentava un
corso di ginnastica in una palestra. Aveva conosciuto De Stefano da pochi
giorni e tra i due era
nata una relazione. Il confidente della ragazza era un diario, nel quale
annotava ogni avvenimento personale. “Ora
sono passati già tre giorni, e mi sembra sempre un sogno invece è realtà, scrisse
Maria su quelle pagine - Non ci posso
ancora credere Lello: tu sei mio e io sono tua”. La sera dell’ 8 gennaio 1993,
un venerdì , “Lello” e “Mara” si incontrarono prima dell’ora di cena in una
zona appartata del parco Pozzi, alla periferia di Aversa. E probabile che tra di loro
sia sorto un contrasto: forse De Stefano ha preteso una prestazione sessuale,
ma la Russo si è rifiutata di sottostare alle sue richieste; fatto sta che,
agendo d’impulso, il giovane l’ha aggredita. Prima ha tentato di soffocarla,
stringendola alla gola, e poi l’ha colpita ripetutamente con un coltello da
cucina che avrebbe trovato occasionalmente nei dintorni, dove fino a poco tempo
prima c’era un campo profughi. Il giovane infierì con ferocia sul corpo della
ragazza, che morì per alcune gravi ferite in pieno petto. L’assassino la
trafisse diciannove volte. Poi lasciò lì, su un’aiuola del parco, il corpo
senza vita. Non si premurò di coprirlo, né di nascondere il guanto nero con cui
aveva impugnato il coltello: sia il guanto che il coltello furono trovati
l’indomani vicino al cadavere. Questo aveva il viso riverso sul terreno e il
capo coperto dal cappuccio del suo giubbino in jeans. L’omicida era poi
fuggito, raggiungendo la stazione ferroviaria di Napoli. Da qui aveva
telefonato a casa, ma la telefonata era stata intercettata dagli investigatori,
che erano già sulle sue tracce. La polizia aveva infatti raccolto testimonianze
preziose fra gli amici della ragazza uccisa, i quali avevano fatto riferimento
ai rapporti intercorsi tra Maria Russo e il giovane. De Stefano fu così
bloccato a poche ore dall’omicidio, sabato 9, nella stazione di Napoli e
condotto ad Aversa. Interrogato, si attribuì la responsabilità dell’omicidio
della ragazza, spiegando di aver agito in preda a un raptus di follia. Poi, al
sostituto procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Annalisa De Tollis, che
coordinava le indagini, confessò anche l’omicidio del Brignola: il raffronto
tra le sue impronte e quelle trovate sul coltello con il quale l’uomo era stato
colpito a morte confermò che il giovane diceva la verità. Contro di lui furono
raccolte numerose prove. Il padre riconobbe come appartenente al figlio il
guanto di colore nero trovato nel parco
di Aversa; nella sua abitazione, in un bidone dei rifiuti, la polizia trovò
anche il guanto dell’altra mano (pare tra l’altro che Raffaele De Stefano
usasse un solo guanto, per sfidare gli amici a “braccio di ferro”). Nella
camera da letto della ragazza furono poi trovati il diario in cui raccontava
della relazione con il giovane e alcune lettere, mai spedite, dall’identico
contenuto: Maria Russo aveva scritto molte fantasticherie, ma anche alcune
frasi su quel giovane che aveva conosciuto da poco e con il quale aveva
cominciato una relazione. Gli investigatori non risalirono invece ad
alcun collegamento tra De Stefano e un’altra donna, Cinzia Santulli, 30 anni, trovata uccisa ad Aversa il 24 novembre
1990, con ben 33 coltellate, nel proprio appartamento nel parco Coppola. Un
altro delitto, rimasto però insoluto: le analogie nel modus operandi dell’assassino
riscontrate dagli inquirenti non bastarono per attribuire a De Stefano anche
questo omicidio.
AVV. GIUSEPPE MARROCCO |
La Corte di Assise di
S. Maria C.V., (Presidente Giovanni
Morfino, giudice a latere Victor Ugo
De Donato, pubblico ministero Salvatore
Manzella) con sentenza del 27 ottobre 1952, condannava Vincenzo Tammaro, di anni
23, da Aversa (tratto in arresto il 5 ottobre del 1949), accusato di omicidio
volontario e occultamento di cadavere, per avere volontariamente mediante colpi
di grossa pietra inferti al capo ed al fine di conseguire il delitto di rapina
cagionato la morte di Nicola Di Santo,
si impossessava di un anello, un orologio, e delle chiavi di casa del Di Santo
dalla quale asportava una bicicletta ed abiti della vittima. con la concessione delle attenuanti generiche,
lo stato d’ira, e fatto ingiusto, lo condannava
alla pena di anni 18 di reclusione. Derubricato la rapina in furto e con
l’aggravante dell’occultamento di cadavere. Conteggio per l’omicidio anni 22,
con le attenuanti anni 16, con le aggravanti una pena definitiva di anni 18. “Sulla volontà omicida è lo tesso Tammaro
– scrissero i giudici nella loro motivazione – che ci ragguaglia: dopo il primo colpo il Di Santo ebbe un sussulto.
L’omicida allora vibrò un secondo colpo per finire la vittima. Lo sfondamento
della scatola cranica dimostra con quanta energica riluttanza quei colpi furono
vibrati”. Tuttavia l’imputato merita le attenuanti. Egli aveva tutto il
diritto di liberarsi di quella immonda relazione. In ciò era ostacolato dal Di
Santo che intendeva legarlo a sé in perpetua. Le varie testimonianze raccolte
nel corso del processo dimostrano l’evidenza con quanto attaccamento il Di
Santo coltivava quell’amicizia e come sbarrasse il passo al Tammaro sulla via
del recupero. La Corte di Assise di Appello di Napoli (Presidente Nicandro Siravo, giudice a latere, Gennaro Guadagno, pubblico ministero,
il Procuratore Generale Walter Del
Giudice) il 4 ottobre del 1954, giudicando sull’appello proposto
dall’imputato e dal pubblico ministero, in parziale riforma della sentenza di
primo grado, condannava il Tammaro alla pena di anni 12 e mesi 8 di reclusione.
Nel processo furono impegnati gli avvocati: Giuseppe Marrocco, Alfredo
De Marsico, Nicola Cariota Ferrara, Vittorio Diana. Per Raffaele De Stefano, invece, che sta scontando 16 anni di reclusione
nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, la Corte di Assise del
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere dovette prendere atto della perizia di
ufficio che aveva attribuito al giovane la seminfermità mentale e la mancanza
di capacità nell’atto di commettere i delitti. “Il Disturbo Borderline di
Personalità (DBP) – scrissero i periti della Corte di Assise - è condizione che genera un significativo
livello di instabilità emotiva ed è caratterizzato da una immagine distorta di
sé, da sensazioni di inutilità e dall’idea di essere fondamentalmente
difettati. Il paziente oscilla rapidamente lungo intensi stati di rabbia,
furia, dolore, vergogna, panico, terrore ed un feeling cronico di vuoto e solitudine. Si tratta di individui che
si differenziano dagli altri sia per l’elevata impulsività, sia per una
intollerabile condizione di dolore ed urgenza. Altra caratteristica è la
reattività umorale, contraddistinta da passaggi repentini che possono
realizzarsi anche nell’arco di una giornata tra uno stato dell’umore ad un
altro, stati disforici e periodi di eutimia. La sintomatologia cognitiva si
caratterizza per la presenza di stati mentali di natura non psicotica, come
l’idea pervasiva di essere cattivi, le esperienze di dissociazione
(depersonalizzazione e derealizzazione), la sospettosità e le idee di
riferimento. Tuttavia, è possibile la comparsa di sintomi quasi-psicotici o
psicotici transitori e, a volte, illusioni ed allucinazioni reality-based.
AVV. PROF. ALFREDO DE MARSICO |
L’impulsività
può essere di due tipi: l’autodistruttività (tentativi di suicidio, automutilazioni,
tentativi di omicidi) e una forma più generale di impulsività (abuso di sostanze,
disturbi alimentazione, scoppi verbali, guida spericolata). Le relazioni sono
intense ed instabili, accompagnate da una pervasiva e violenta paura
dell’abbandono, che si esplicita negli strenui tentativi di non rimanere da
solo. In questa direzione la qualità “tumultuosa”
delle relazioni intime, caratterizzate da frequenti discussioni, ripetute rotture
e sentimenti di fiducia, disponibilità, idealizzazione dell’altro che si
alternano a vissuti di dipendenza, indegnità, svalutazione cui il paziente reagisce
ricorrendo a strategie difensive che alimentano il rischio di una rottura
relazionale”. Furono definiti dai periti psichiatrici delitti a sfondo sessuale e fu chiarito che il De
Stefano era affetto da una parifilia
che lo gratificava con il delitto. “solo
con la soppressione del partener”, specialmente con lo strangolamento della
vittima. Lui godeva ed aveva “l’amplesso”
con la morte dell’altro. E per la prima volta, nell’aula della Corte di Assise
(io seguivo la cronaca giudiziaria per un quotidiano napoletano) echeggiò la
parola “borderline”.
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