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lunedì 26 ottobre 2015


Una lunga scia di oscuri delitti ad Aversa. Due delitti  nel mondo dei gay. Il primo l’8 agosto del 1949 sulla strada Provinciale Aversa- Gricignano. Il secondo nel 1992 nel centro della città. Il terzo ed il quarto al parco Pozzi

DOPO UN RAPPORTO SESSUALE LO UCCISE CON UNA PIETRA E OCCULTO’ IL CADAVERE IN UNA CUNETTA. ERA IL  SUO GIOVANE AMANTE.  UN ALTRO PSICOPATICO  DOPO AVER UCCISO L’OMOSESSUALE UCCISE ANCHE AL PARCO POZZI LA SUA FIDANZATA.


Il  primo delitto



 In un primo momento – subito dopo la scoperta del cadavere della vittima il giovane - il barbiere Vincenzo Tammaro,  di anni 23, da Aversa, fu accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere, per avere  mediante colpi di grossa pietra inferti al capo ed al fine di conseguire il delitto di rapina cagionato la morte di Nicola Di Santo, inoltre si impossessava di un anello, di un orologio, e delle chiavi di casa del Di Santo dalla quale asportava una bicicletta ed abiti della vittima. Il delitto era avvenuto  in Aversa l’8 agosto del 1949, ma quando il giovane venne tratto in arresto ( due mesi dopo, il 5 ottobre del 1949), si capì subito che il delitto era maturato nel turpe mondo dell’omosessualità. Ma fu legittima difesa, come sostenne l’assassino nei primi interrogatori? Questa medesima tesi l’imputato ha sostenuto anche nel dibattimento riecheggiata dai difensori nelle conclusioni finali.  Il magistrato inquirente contestava, però,  al Tammaro il delitto a fine di rapina. Poi il movente venne modificato nel corso della complessa istruttoria formale. “Nella mente ottenebrata – scrivono i giudici nelle loro motivazioni – il Tammaro non uccise per rapina, perché gli oggetti da lui sottratti alla vittima li avrebbe potuti ottenere facendo leva sulla incalzante passione di lui. Nella coscienza ottenebrata del pederasta, allignavano severi e irrefrenabili appetiti; il dinamismo psichico era integralmente orientato verso il Tammaro oggetto e limite di ogni ambizione. Il tragico presagio dell’abbandono   aveva – in molteplice contingenze – annichilito il Di Santo che in vista di quella evenienza aveva anche formulato biechi propositi. Ogni richiesta che portava come condizione lo svincolo dei rapporti tra i due avrebbe pertanto incontrata la più larga accoglienza sul paradigma dei comuni canoni logici che regolano la condotta umana”. Non fu concessa l’aggravante del nesso teologico. Infatti, se il Di Santo era disposto anche al delitto per conservare l’esclusività di quel possesso a maggior ragione egli avrebbe profuso ogni sua risorsa per il pacifico godimento della relazione amorosa che gli era indispensabile. Movente? Il giovane voleva rompere la sua relazione, sia perché costui si era reso opprimente con la sua gelosia, sia perché contratto la malattia venerea e temeva un aggravamento delle sue condizioni. Egli attribuiva il contagio al rapporto con il Di Santo. Sulla richiesta della legittima difesa (quantomeno putativa) i giudici scrissero che non si poteva accettare che il Di Santo – già pronto al coito epperò in stato di orgasmo nervoso – deviasse i suoi impulsi della libidine all’aggressione, interrompere cioè senza motivo apprezzabile lo stato di intensa voluttà precedente dall’aspettazione dell’imminente contatto per attaccare e sopprimere chi quella felicità gli praticava. Il Di Santo non fece alcun gesto!   Quel volto di donna, finalmente, in tanto marciume lo indusse e l’indice di un primo timido ravvedimento. Ma il Di Santo incalzava. Messaggi di lui alla Nugnes perché rifiutasse la corte del Tammaro; pedinamenti dell’uno e dell’altro perché la intesa non sbocci. Infine la baruffa in casa   del calzolaio che era riuscito a porre la discordia tra i due giovani attribuendo al Tammaro frasi offensive all’indirizzo dei genitori della ragazza. Ed ancora: gelosia anche nei riguardi degli altri maschi macchiati della stessa impudicizia. Contro questo regime di   “asservimento”  - dissero i giudici  - la relazione del Tammaro integra attenuante. La difesa insistette per la provocazione del particolare motivo di valore morale e sociale. La corte ritenne di rigettare perché il Tammaro – che fu arrestato nel Bar Vitale – alla via Vittorio Veneto, abituale ritrovo della zona di tutti i gay dell’epoca – anche dopo il delitto ha continuato a frequentare l’ambiente corrotto e pervertito un covo di pederasti nel cui luogo di ritrovo e di raduno venne arrestato. Sulla concessione delle attenuanti generiche in considerazione del fatto che egli fu attratto in quell’ambiante di dissolutezza, ancora sguarnito di quell’esperienza che fa l’uomo tetragono alle insidie ed alle lusinghe. Quel primo errore alle soglie della giovinezza decise indubbiamente dell’ulteriore corso della sua esistenza e lo spinse al tragico gesto.  


Il secondo delitto
È una storia di ordinaria follia quella che vide protagonista tra il 1992 e il 1993 ad Aversa un giovane sofferente di disturbi psichici, Raffaele De Stefano. Aveva 25 anni quando, nel giugno del 1992, dopo un’accesa discussione tentò di ammazzare la madre e la sorella di  7 anni, aprendo il rubinetto del gas della loro abitazione durante la notte. Uno dei familiari si era però svegliato in tempo ed era riuscito a dare l’allarme . “Ho atteso invano il botto che doveva far crepare mia madre e mia sorella”, raccontò agli inquirenti. Poi, alcuni mesi più tardi, uccise selvaggiamente, colpendoli a coltellate, un uomo e una ragazza. In tutti due i casi lasciò sulla scena del delitto tracce evidenti, a conferma che si trattava di un serial killer disorganizzato, che agiva d’impulso e senza attenzione, ma all’assassino si risalì anche grazie ad alcune testimonianze e al diario di una delle vittime. Entrambi gli omicidi avevano uno sfondo sessuale. Lello De Stefano, nato a Sant’Antimo,  era figlio di una coppia che si era poi separata. La madre viveva con l’altra figlia a Sant’Antimo, mentre il padre aveva aperto ad Aversa  un laboratorio d’arte, nel quale lavorava anche Raffaele. Il giovane conduceva una vita sregolata, segnata dalla malattia mentale e divisa tra le due località. Ma era ad Aversa che aveva il suo giro di conoscenze. Due giorni prima di Natale, mercoledì 23 dicembre 1992, il primo omicidio. Raffaele De Stefano conobbe Giovanni Brignola, 60 anni, un omosessuale che abitava a poca distanza dal laboratorio dei De Stefano. L’uomo invitò il giovane a casa sua, dove potrebbe aver tentato un approccio sessuale nei suoi confronti. De Stefano lo uccise con quindici coltellate. Il cadavere di Brignola fu trovato seminudo; sullo schermo del televisore nella stanza da letto scorrevano le immagini di una videocassetta pornografica.
L’omicidio rimase impunito le impronte trovate sul coltello da cucina impugnato dall’assassino non coincisero con nessuna scheda degli archivi  di polizia Ma appena due settimane dopo De Stefano uccise di nuovo. La vittima, stavolta, fu la sua fidanzata Maria Russo, detta Mara, di 16 anni, una bella ragazza bruna, alta un metro e 65, lavorava in un’agenzia di pratiche automobilistiche e frequentava un corso di ginnastica in una palestra. Aveva conosciuto De Stefano da pochi giorni e tra i due era nata una relazione. Il confidente della ragazza era un diario, nel quale annotava ogni avvenimento personale. “Ora sono passati già tre giorni, e mi sembra sempre un sogno invece è realtà, scrisse Maria su quelle pagine - Non ci posso ancora credere Lello: tu sei mio e io sono tua”.  La sera dell’ 8 gennaio 1993, un venerdì , “Lello” e “Mara” si incontrarono prima dell’ora di cena in una zona appartata del parco Pozzi, alla periferia di Aversa.  E probabile che tra di loro sia sorto un contrasto: forse De Stefano ha preteso una prestazione sessuale, ma la Russo si è rifiutata di sottostare alle sue richieste; fatto sta che, agendo d’impulso, il giovane l’ha aggredita. Prima ha tentato di soffocarla, stringendola alla gola, e poi l’ha colpita ripetutamente con un coltello da cucina che avrebbe trovato occasionalmente nei dintorni, dove fino a poco tempo prima c’era un campo profughi.  Il giovane infierì con ferocia sul corpo della ragazza, che morì per alcune gravi ferite in pieno petto. L’assassino la trafisse diciannove volte. Poi lasciò lì, su un’aiuola del parco, il corpo senza vita. Non si premurò di coprirlo, né di nascondere il guanto nero con cui aveva impugnato il coltello: sia il guanto che il coltello furono trovati l’indomani vicino al cadavere. Questo aveva il viso riverso sul terreno e il capo coperto dal cappuccio del suo giubbino in jeans. L’omicida era poi fuggito, raggiungendo la stazione ferroviaria di Napoli. Da qui aveva telefonato a casa, ma la telefonata era stata intercettata dagli investigatori, che erano già sulle sue tracce. La polizia aveva infatti raccolto testimonianze preziose fra gli amici della ragazza uccisa, i quali avevano fatto riferimento ai rapporti intercorsi tra Maria Russo e il giovane. De Stefano fu così bloccato a poche ore dall’omicidio, sabato 9, nella stazione di Napoli e condotto ad Aversa. Interrogato, si attribuì la responsabilità dell’omicidio della ragazza, spiegando di aver agito in preda a un raptus di follia. Poi, al sostituto procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Annalisa De Tollis, che coordinava le indagini, confessò anche l’omicidio del Brignola: il raffronto tra le sue impronte e quelle trovate sul coltello con il quale l’uomo era stato colpito a morte confermò che il giovane diceva la verità. Contro di lui furono raccolte numerose prove. Il padre riconobbe come appartenente al figlio il guanto di colore nero trovato  nel parco di Aversa; nella sua abitazione, in un bidone dei rifiuti, la polizia trovò anche il guanto dell’altra mano (pare tra l’altro che Raffaele De Stefano usasse un solo guanto, per sfidare gli amici a “braccio di ferro”). Nella camera da letto della ragazza furono poi trovati il diario in cui raccontava della relazione con il giovane e alcune lettere, mai spedite, dall’identico contenuto: Maria Russo aveva scritto molte fantasticherie, ma anche alcune frasi su quel giovane che aveva conosciuto da poco e con il quale aveva cominciato una relazione.  Gli investigatori non risalirono invece ad alcun collegamento tra De Stefano e un’altra donna, Cinzia Santulli, 30 anni, trovata uccisa ad Aversa il 24 novembre 1990, con ben 33 coltellate, nel proprio appartamento nel parco Coppola. Un altro delitto, rimasto però insoluto: le analogie nel modus operandi dell’assassino riscontrate dagli inquirenti non bastarono per attribuire a De Stefano anche questo omicidio.  




 Per Vincenzo Tammaro la Corte di Assise di Appello di Napoli ridusse la pena  ad anni 12 e mesi 8 di reclusione.  Raffaele De Stefano, invece,  sta scontando 16 anni di reclusione nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli.
AVV.  GIUSEPPE MARROCCO


La Corte di Assise di S. Maria C.V., (Presidente Giovanni Morfino, giudice a latere Victor Ugo De Donato, pubblico ministero Salvatore Manzella) con sentenza del 27 ottobre 1952, condannava Vincenzo Tammaro,  di anni 23, da Aversa (tratto in arresto il 5 ottobre del 1949), accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere, per avere volontariamente mediante colpi di grossa pietra inferti al capo ed al fine di conseguire il delitto di rapina cagionato la morte di Nicola Di Santo, si impossessava di un anello, un orologio, e delle chiavi di casa del Di Santo dalla quale asportava una bicicletta ed abiti della vittima.  con la concessione delle attenuanti generiche, lo stato d’ira, e fatto ingiusto, lo condannava  alla pena di anni 18 di reclusione. Derubricato la rapina in furto e con l’aggravante dell’occultamento di cadavere. Conteggio per l’omicidio anni 22, con le attenuanti anni 16, con le aggravanti una pena definitiva di anni 18. “Sulla volontà omicida è lo tesso Tammaro – scrissero i giudici nella loro motivazione – che ci ragguaglia: dopo il primo colpo il Di Santo ebbe un sussulto. L’omicida allora vibrò un secondo colpo per finire la vittima. Lo sfondamento della scatola cranica dimostra con quanta energica riluttanza quei colpi furono vibrati”. Tuttavia l’imputato merita le attenuanti. Egli aveva tutto il diritto di liberarsi di quella immonda relazione. In ciò era ostacolato dal Di Santo che intendeva legarlo a sé in perpetua. Le varie testimonianze raccolte nel corso del processo dimostrano l’evidenza con quanto attaccamento il Di Santo coltivava quell’amicizia e come sbarrasse il passo al Tammaro sulla via del recupero. La Corte di Assise di Appello di Napoli (Presidente Nicandro Siravo, giudice a latere, Gennaro Guadagno, pubblico ministero, il Procuratore Generale Walter Del Giudice) il 4 ottobre del 1954, giudicando sull’appello proposto dall’imputato e dal pubblico ministero, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava il Tammaro alla pena di anni 12 e mesi 8 di reclusione. Nel processo furono impegnati gli avvocati: Giuseppe Marrocco, Alfredo De Marsico, Nicola Cariota Ferrara, Vittorio Diana. Per Raffaele De Stefano, invece, che  sta scontando 16 anni di reclusione nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, la Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere dovette prendere atto della perizia di ufficio che aveva attribuito al giovane la seminfermità mentale e la mancanza di capacità nell’atto di commettere i delitti. “Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) – scrissero i periti della Corte di Assise -  è condizione che genera un significativo livello di instabilità emotiva ed è caratterizzato da una immagine distorta di sé, da sensazioni di inutilità e dall’idea di essere fondamentalmente difettati. Il paziente oscilla rapidamente lungo intensi stati di rabbia, furia, dolore, vergogna, panico, terrore ed un feeling cronico di vuoto e solitudine. Si tratta di individui che si differenziano dagli altri sia per l’elevata impulsività, sia per una intollerabile condizione di dolore ed urgenza. Altra caratteristica è la reattività umorale, contraddistinta da passaggi repentini che possono realizzarsi anche nell’arco di una giornata tra uno stato dell’umore ad un altro, stati disforici e periodi di eutimia. La sintomatologia cognitiva si caratterizza per la presenza di stati mentali di natura non psicotica, come l’idea pervasiva di essere cattivi, le esperienze di dissociazione (depersonalizzazione e derealizzazione), la sospettosità e le idee di riferimento. Tuttavia, è possibile la comparsa di sintomi quasi-psicotici o psicotici transitori e, a volte, illusioni ed allucinazioni reality-based. 

AVV. PROF. ALFREDO DE MARSICO


L’impulsività può essere di due tipi: l’autodistruttività (tentativi di suicidio, automutilazioni, tentativi di omicidi) e una forma più generale di impulsività (abuso di sostanze, disturbi alimentazione, scoppi verbali, guida spericolata). Le relazioni sono intense ed instabili, accompagnate da una pervasiva e violenta paura dell’abbandono, che si esplicita negli strenui tentativi di non rimanere da solo. In questa direzione la qualità “tumultuosa” delle relazioni intime, caratterizzate da frequenti discussioni, ripetute rotture e sentimenti di fiducia, disponibilità, idealizzazione dell’altro che si alternano a vissuti di dipendenza, indegnità, svalutazione cui il paziente reagisce ricorrendo a strategie difensive che alimentano il rischio di una rottura relazionale”. Furono definiti dai periti psichiatrici delitti a sfondo sessuale e fu chiarito che il De Stefano era affetto da una parifilia che lo gratificava con il delitto. “solo con la soppressione del partener”, specialmente con lo strangolamento della vittima. Lui godeva ed aveva “l’amplesso” con la morte dell’altro. E per la prima volta, nell’aula della Corte di Assise (io seguivo la cronaca giudiziaria per un quotidiano napoletano) echeggiò la parola “borderline”.  

 





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