CAINO E ABELE A FRANCOLISE
UCCISE IL FRATELLO CON UN COLPO DI PISTOLA
ALLA TESTA
POI FUGGI’ ARRUOLANDOSI NELLA LEGIONE STRANIERA-
LA
PUBBLICA ACCUSA CHIESE L’ERGASTOLO. LA CONDANNA FU DI ANNI VENTI. CONFERMATA
ANCHE IN APPELLO. VENNERO
ACCUSATI I FRATELLI DELLA EX FIDANZATA MA ERANO INNOCENTI. UNA LETTERA ANONIMA
FECE INDIRIZZARE LE INDAGINI NELLA DIREZIONE GIUSTA. IL FRATRICIDA ERA SERGENTE
DELL’AERONAUTICA E LAVORAVA IN UNA
STAZIONE RADIO MILITARE ACCADDE TRA S. ANDREA DEL PIZZONE E FRANCOLISE IL 25
MAGGIO DEL 1947
Francolise
–
Un delitto barbaro, inumano, un reato odioso: il fratricida. La sera del 25 maggio del 1947, tale Salvatore Di Maio, mentre verso le 22:15 rientrava in bicicletta da
S. Andrea del Pizzone diretto a
Francolise, veniva in località “Bottazzi”
fatto segno a due colpi di pistola, di cui uno, lo rendeva all’istante cadavere.
Addosso al cadavere venivano l’indomani
rinvenuti dai carabinieri il portafogli
contenente tra l’altro lire 15.000 e l’orologio da braccio di notevole valore. Nei pressi del cadavere venivano trovati due
bossoli per pistola automatica calibro nove. Escluso - per il ritrovamento
delle cose del Di Maio che l’omicidio fosse stato consumato a scopo di rapina (in
quanto alla bicicletta della vittima l’uccisore si era verosimilmente
impossessato solo per allontanarsi più rapidamente dal luogo del delitto) i
carabinieri, poiché i familiari dell’ucciso avevano fatto presente che questi
era stato per qualche tempo fidanzato con tal tale Maria De Simone da S. Andrea del Pizzone e che, rotto tale fidanzamento, i familiari della De Simone avevano
pronunciato parole di minaccia all’indirizzo del Di Maio stesso, indirizzavano le indagini nei
confronti dei fratelli della De Simone,
Luigi, Domenico e Carmine è
tratto il convincimento che costoro fossero stati gli assassini li denunciavano
con rapporto del 14 giugno 1947 “quale
sospetti autori dell'omicidio in persona del Di Maio”.
La vicenda, però,
come vedremo era andata ben diversa. La prova d’accusa a carico dei fratelli De
Simone si dimostrava però infondata
anche perché il fidanzamento della loro sorella con l’ucciso risaliva a molti
anni addietro e perciò con ordinanza del 19 dello stesso mese veniva disposto
la loro scarcerazione. Nel corso dell’ulteriore istruzione perveniva alla
procura della Repubblica del tribunale di Santa Maria Capua Vetere un anonimo
nel quale si indicava come autore dell’omicidio il fratello dell’ucciso Carmine Di Maio. Accurate indagini venivano perciò espletate
dai carabinieri di Sessa Aurunca che confermavano la fondatezza dell’anonimo,
mettendo in luce che il delitto era stato consumato dal Carmine Di Maio per
motivi di interesse.
Si emetteva, di
conseguenza, mandato di cattura contro detto Di Maio ma costui si rendeva
latitante risultando, dopo un certo tempo, espatriato in Francia ed arruolato
nella Legione Straniera. Gli
inquirenti osservarono che le diverse circostanze indicavano chiaramente che
proprio l’imputato era stato l’uccisore del fratello Salvatore e come la stessa
madre dei protagonisti della terribile vicenda dimostrò il contegno osservate
nel momento in cui veniva interrogata.
Risultò infatti che l’imputato, non appena venuto a conoscenza a mezzo dei propri genitori che erano stati informati (per la verità poco
cautamente) dallo stesso maresciallo dei carabinieri di Sant Andrea che in un
anonimo, pervenuto dalla Procura della Repubblica al predetto maresciallo lo si
accusava dell’omicidio in persona del fratello, immediatamente scomparve dalla
propria abitazione l’indomani stesso, senza avvertire alcuno dei suoi familiari
che di fatto pensarono che egli, così come tutte le mattine, si era recato al lavoro dove era di stanza
quale sergente d’aviazione presso una stazione radio. Questo repentino
allontanamento dal paese e dal proprio reparto, messo in relazione allo
immediato espatrio in Francia e dall’arruolamento nella Legione Straniera
bastarono agli inquirenti per far
ritenere che effettivamente esso Di Maio si era reso colpevole dell’uccisione
del fratello.
Basta considerare in
proposito che l’accusato attraverso le parole dei propri genitori non aveva
potuto sapere altro che in un anonimo lo si indicava quale autore dell’omicidio
e che il maresciallo dei carabinieri aveva invitato in caserma i suoi genitori.
Ebbene il semplice sospetto che le indagini si indirizzavano verso di lui gli
fu sufficiente per espatriare addirittura compromettendo la sua carriera la
stessa sua vita ed accettare perfino l’ingaggio nella Legione Straniera e
quindi un lungo periodo di stenti e di pericoli nei possedimenti coloniali
francesi. Non gli sarebbe stato difficile invece se effettivamente fosse stato
innocente, di dimostrare, come assumono
i suoi genitori, che egli la sera del delitto si trovava a Roma; tanto più se egli si era portato colà per
disbrigo di certe sue pratiche relative al suo reimpiego nelle aeronautica
militare (poi effettivamente arruolatosi). La verità è - osservarono gli inquirenti - che il viaggio
a Roma non è che un alibi da lui stesso predisposto e prospettato in seguito
dai suoi genitori. Alibi che però è del
tutto inesistente in quanto egli il giorno dell’omicidio non si trovava affatto
a Roma ma soltanto allo scalo ferroviario del suo paese dove peraltro giunse da
solo giacchè suo padre e sua sorella Elena, con i quali si era accompagnato col
birroccino, lo lasciarono nei pressi della stazione proseguendo poi per il vicino comune di Petrulo.
Che egli,
il giorno del fatto, non si fosse recato a Roma, lo si evince
chiaramente anche dal fatto che i
telegrammi spediti per informarlo della tragica morte del fratello non lo
raggiunsero e che egli non si fece vedere in quei giorni da alcuno dei suoi
parenti ed amici che normalmente lo ospitavano nei suoi soggiorni romani. Lo si evince ancora dal fatto che egli non
osò ritornare al paese neppure per il giorno in cui si sarebbe dovuto celebrare
il matrimonio della sorella Elena alla quale – nell’accomiatarsi nei pressi
della stazione - aveva invece promessa la sua presenza con dei regali che non avrebbe
mancato di acquistarli a Roma. In base a queste circostanze ed al fatto che i
due colpi esplosi erano di una pistola in dotazione esclusivamente ai militari
era da ritenersi che l’imputato –
chiarirono ancora gli inquirenti attraverso le diligenti indagini – che egli,
predisposto l’alibi del viaggio a Roma, cui aveva dato maggiore consistenza l’essersi
egli fatto notare allo scalo ferroviario dal brigadiere dei carabinieri Mario Corbelli, al quale pur conoscendolo solo di vista, aveva
dichiarato spontaneamente di recarsi a Roma, ritornò invece verso la propria abitazione ed
appostato dietro ad un albero, lungo la strada che egli ben sapeva che il
fratello di ritorno dalla casa della fidanzata avrebbe dovuto percorrere,
attese lo sventurato germano esplodendogli contro, non appena egli fu a tiro un colpo di pistola e poi vistolo cadere a
terra, quel secondo colpo a distanza ravvicinata che doveva fracassargli il
cranio.
Nè può dirsi che sia rimasto
oscuro il movente del delitto. Al contrario, rimase accertato che l’assassino a
differenza del fratello ucciso, specie
all’epoca del fatto, era inviso ai suoi
genitori per il suo carattere violento ed il suo nervosismo acuito dal fatto di essere allora da tempo in attesa di
riempiego: egli per procurarsi del denaro non esitava neppure - come dichiarò la madre nel corso degli
interrogatori - a rubare del grano alla famiglia; la sua indole violenta era in
passato esplosa brutalmente come quando aveva lanciato contro il fratello Vincenzo (deceduto poi in guerra) una
scure ferendolo alla spalla. Negli ultimi,
tempi reduce dall’Africa, si era maggiormente innervosito nutrendo rancore
verso il fratello Salvatore cui
nella sua assenza era stata riservata una posizione dominante alla amministrazione
del piccolo patrimonio familiare e quindi
come risultava dalle indagini dei carabinieri, un trattamento di favore in
previsione delle prossime nozze. Il delitto se anche non può considerarsi
commesso per futili motivi non essendo tali di per sé stessi motivi di
interessi che determinarono l’imputato ad aggredire il proprio fratello era da
ritenersi tuttavia consumato con una volontà omicida. L’intenzione di uccidere
agevolmente si deduce infatti dalla potenzialità dell'arma usata; dalla
reiterazione dei colpi, di cui uno esploso a brevissima distanza, probabilmente
quando il fratello era caduto a terra insieme con la bicicletta a seguito del
primo improvviso sparo; dalla regione vitalissima del corpo della vittima,
presa di mira. L’omicidio bene fu ritenuto premeditato in quanto esso si
presentava quale attuazione di una idea freddamente maturata nell’anima del
colpevole attentamente preparate nei suoi particolari: come la scelta dell’ora in cui la
vittima era solita rincasare da sola; la scelta del luogo, poco frequentato; l’appostamento,
la stessa premeditazione dell’alibi non lasciarono dubbi: fratricida.
Al
termine della formale istruttoria il pubblico ministero concludeva per il
rinvio a giudizio del Di Maio ed il proscioglimento dei fratelli De Simone “per non aver commesso”. Con sentenza del 27 settembre del 1951 il
giudice istruttore disponeva in conformità rinviando al giudizio della Corte di
Assise di Santa Maria Capua Vetere il Carmine
Di Maio per rispondere del delitto di omicidio in persona del fratello Salvatore, con le aggravanti della
vincolo di parentela. Nel corso delle indagini l’imputato risultava
irreperibile e fu dichiarata la sua contumacia. La Corte di Assise del
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, composto dal presidente Giovanni Morfino, dal giudice a latere, Victor Hugo de Donato e dai giudici popolari: Tommaso Zampa, Pasquale Cacciapuoti, Luca Marzano, Ettore Borsi, Egidio
Mastrominico, che giudicava il
fratricida in contumacia, ascoltato il pubblico ministero che aveva chiesto, al
termine della sua requisitoria, la pena dell’ergastolo e gli avvocati
difensori, Vincenzo
Fusco e Francesco Lugnano,
che avevano prospettato il minimo della pena e la concessione delle
attenuanti generiche nell’emettere il suo verdetto di condanna premise che “malgrado la intrinseca gravità e odiosità del fatto, sintomatica la sua fuga e l’arruolamento
nella Legione Straniera - la Corte ritiene di dover concedere allo imputato le
attenuanti generiche in considerazione dei suoi precedenti militari e dal lungo
servizio prestato in zona di operazioni e del conseguente stato di nervosismo
derivatone allo imputato stesso che gli fu tra l’altro vittima anche di un
naufragio durante il periodo bellico come la di lui madre ha oggi ricordato in
conseguenza la pena dell’ergastolo comminata può essere sostituita dalla pena
della reclusione che può essere fissata nei minimi anni venti”. Per i
nostri lettori più giovani chiariamo che “la Legione Straniera” è una sorta di esercito
speciale, un corpo scelto di soldati volontari alle dipendenze della Francia,
che nel loro credo riuniscono valori di abnegazione, sacrificio e spirito di
corpo. La legione è formata da 11 reggimenti e venne creata durante la guerra
d’Algeria del 1831. Chiunque può arruolarsi, anche in forma assolutamente
anonima, e infatti ci sono uomini di diversa nazionalità e specie, tutti uniti
sotto il Kèpi, il tipico copricapo bianco. La vita militare di un legionario
però non è per tutti.
Chi è partito per spirito di avventura spesso si è
trovato a disertare poco dopo proprio per lo stesso motivo, in quanto la
libertà viene ridotta di molto, e può risultare dura la vita da caserma e la
disciplina imposta. Legio Patria Nostra (la Legione è la nostra Patria) è il
motto. La pena di venti anni di reclusione
però fu confermata anche dalla Corte di Assise
di Appello di Napoli (Presidente, Giulio
La Marca, giudice a latere, Antonio
Grieco, pubblico ministero, procuratore generale, Emanuele Montefusco) nonostante il pubblico ministero però avesse
chiesto nuovamente la pena dell’ergastolo.
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