UCCISE
IL PADRE DELLA RAGAZZA CHE AVEVA SEDOTTO
L’imputato raccontò che dietro la siepe, vi era un
uomo bocconi a terra, il quale faceva l’atto di alzarsi ed imbracciare un
fucile contemporaneamente esclamando: ”Disgraziato non ti muovere, questo è
l’ultimo giorno della tua vita!”. Adombrò la legittima difesa ma non venne
creduto. Due mesi prima del delitto ls ragazza aveva sparato un colpo – andato
a vuoto – contro il suo seduttore-.
Falciano del Massico - Il mattino del 5 giugno nel 1951 alle ore
6:10, Antonietta Matano, madre del
giovane, si presentò innanzi al portone della caserma dei carabinieri gridando
al piantone: “Accorrete si sono sparati”.
Dopo tale invocazione si allontanò rapidamente senza fornire alcun ragguaglio.
Qualche minuto dopo sopraggiunse in caserma il giovane Adolfo Migliozzi, il quale dichiarò che poco prima era stato
costretto ad uccidere per legittima difesa il sessantaseienne Giuseppe Pagliaro, padre di una sua ex
fidanzata, il quale si era appostato a
scopo omicida armato di fucile dietro la siepe del fondo di tal Giuseppa Fabozzi e nel punto dove la
via Alani, che egli percorreva, sbocca nella via provinciale. Più tardi,
interrogato con maggior ponderazione e dopo le indagini svolte sul luogo del
fatto, disse che, uscito verso le cinque e 45 dalla propria masseria, sita
nella stessa via Alani, a circa 300 metri dalla zona del diritto, si era
avviato al lavoro. Giunto sul luogo anzidetto si era accorto che alla sua
sinistra, nascosto dietro la siepe, vi era un uomo bocconi a terra, il quale
faceva l’atto di alzarsi ed imbracciare un fucile contemporaneamente esclamando:”Disgraziato non ti muovere, questo è l’ultimo
giorno della tua vita!”. Riconosciuto l’uomo, il cui capo sporgeva tra le
fronde, per il padre della sua ex fidanzata e resosi conto del pericolo, aveva
tentato di darsi alla fuga ma, era incespicato e caduto mentre l’altro, stando
in ginocchio, cominciava a puntare l’arma. Per difendersi aveva allora tratto
fuori la rivoltella, di cui era armato, ed aveva sparato vari colpi. Quindi era
uscito nella strada provinciale incontrandosi con le persone accorse agli
spari. Fu constatato dai carabinieri che la rivoltella usata dal Migliozzi era
una semiautomatica con sei colpi in canna, della quale vi era un colpo inesploso. Cinque colpi sparati quindi.
Fu constatato altresì che il
luogo ove furono rinvenuti i bossoli - data la pendenza della via Alani che dalla
rotabile scende in giù è ad un livello di poco più basso dal fondo Fabozzi, là
dove fu rinvenuto il cadavere. Il cadavere del Pagliaro fu trovato dietro i
folti cespugli che sono di limite al fondo verso via aAlani, bocconi ed in
senso pressoché parallelo a detta strada con la estremità rivolta verso la
rotabile. Un fucile a due canne, privo di cinghia era accanto ad esso,
parallelamente al corpo e sotto il braccio destro. Non fu precisato nel rapporto
dei carabinieri né dall’istruttore che se vi fossero macchie di sangue versato
sul terreno nel punto ove giaceva il cadavere. Solo al dibattimento fu indagato
al riguardo ed il brigadiere Antonio Di Pietro ed il maresciallo Gennaro Gallo
affermarono di non aver notato sangue né dove erano i bossoli né dov’era il
cadavere. In istruttoria e a dibattimento si precisò da parte del brigadiere
dei carabinieri Pietro del Vaglio che il fondo, sul cui immagine dietro la
siepe, giaceva il cadavere era coltivato a grano alto circa un metro. Fra il
grano apparivano due varchi determinati da un passaggio di persone. Un varco da
un ponticello sulla rotabile fino al cadavere ed un secondo dal cadavere alla
via Alani. Precisava però che i due varchi consentivano il passaggio di una
sulla persona.
Fu constatato inoltre che il “cane” destro del
fucile trovato presso il cadavere era alzato e che, nella stessa canna destra
vi era una cartuccia percossa ma non esplosa. Nella canna sinistra, invece,
integra era allogata la seconda
cartuccia. Nel taschino sinistro della giacca vennero rinvenute cinque
cartucce. In sede autoptica si accertò che il Pagliaro era stato colpito da un
unico proiettile all’ascellare posteriore sinistro all’altezza del terzo spazio
intercostale. Che il proiettile aveva avuto una direzione leggermente dal di
dietro in avanti, da sinistra verso destra e, non già dal basso verso l’alto
come ci si sarebbe aspettato stante il dislivello fra offensore vittima, bensì con
una certa inclinazione dall’alto verso il basso. La morte era avvenuta per
anemia acutissima. Una versione in contrasto con quella dell’imputato fu
prospettata fin dall’inizio delle indagini. Si disse che l’omicidio era stato
consumato altrove e che il cadavere era stato trasportato nel luogo in cui era
stato trovato ponendo accanto un fucile per imbastire la falsa tesi della
legittima difesa. Sta di fatto che una tal convinzione trovò esca anche in voci
correnti nel pubblico, come riferisce lo stesso verbalizzante nel primo
rapporto e poi anche nel secondo. Se si indaga nelle pieghe del processo per
rendersi conto del come si diffuse una tal versione si constata che strano
anticipo il primo spunto salta fuori dalla reazione dell’affittuaria del fondo
in cui fu trovato il cadavere cioè la Fabozio la quale accorsa sul luogo uscì
in questa irosa protesta: “Perché avete
menato nel mio fondo quel cadavere?”.
Ma sostanzialmente fu una
testimone, tale Maria Mottola, ritenuta falsa sia del giudice istruttore che
dai giudici della corte di assise di Santa Maria Capua Vetere e che poi
ritrattò la testimonianza, a riferire in giro di avere personalmente assistito
alla consumazione del delitto avvenuto secondo il suo racconto non già nel
luogo ove era stato trovato il cadavere dell’anziano agricoltore bensì lungo
via Alani durante una discussione sorta fra la vittima, che montava un asino e
Adolfo Migliozzi. Ad un certo momento era intervenuto Mario, fratello dell’imputato,
il quale, tolto all’Adolfo una pistola
che costui portava al fianco, aveva
sparato un colpo contro il vecchio che era caduto esanime al suolo. Erano
accorse quindi la madre e la sorella dell’imputato e tutti insieme avevano
trasportato il cadavere nel luogo in cui era stato trovato ponendovi accanto un
fucile. Questo raccontò la teste a varie persone e questo confermò innanzi ai carabinieri
e al giudice istruttore.
Il maresciallo dei carabinieri basandosi su vari elementi presenti nelle perizie degli atti, che costituiscono
parte integrante dei motivi della Corte di primo grado a sostegno della tesi della
piena responsabilità dell’imputato, ritenne
per fermo - come ha ritenuto la sentenza
impugnata - che il cadavere era stato
trasportato nel luogo in cui era stato trovato allo scopo di precostituire
falsi elementi di prova per sostenere la versione della legittima difesa con
una teatrale successiva messa in scena. Furono denunciati pertanto Adolfo Migliozzi,
la di lui madre, la sorella ed il fratello, tutti con per
concorso in omicidio. Gli elementi che sono emersi dalle indagini istruttorie e
dal dibattimento sono i seguenti. Fu acclarato e sembra a questo punto fuor di
discussione che la vittima quel mattino si allontanò dalla propria abitazione
distante dal luogo del delitto poco meno di 1 km a cavallo di un asino per
recarsi, secondo quanto disse alla figlia Antonietta, a Carinola per effettuare l’acquisto di 15 kg.
di farina. Che uscì di casa dopo che i figli si erano già avviati ai lavori
agricoli. Dice la Antonietta che il padre uscì poco prima delle 6:00. Sta di
fatto che per recarsi a Carinola doveva percorrere la via provinciale ma non
doveva passare per via Alani che sbocca
sulla detta provinciale e che poi prosegue dall’altro lato di essa col nome di
via Cava determinando quindi un quadrivio. Doveva insomma il Pagliaro sorpassare
lungo la provinciale questo quadrivio e andare oltre per entrare su via Alani.
Nel corso
dell’istruttoria, attraverso le testimonianze di numerosi personaggi risultò che
verso le 6:00 furono uditi vari colpi di pistola (quattro secondo alcuni,
cinque secondi altri) che immediatamente dopo tali
spari si vide sbucare in via Alani Adolfo
Migliozzi, pallido e con la pistola in pugno mentre attraversava la via
provinciale e imboccò la via Cava. Il giovane si imbattette in alcuni contadini
che erano presenti ed ebbe luogo in un confuso contraddittorio. Lui affermò - Giuseppe Pagliaro mi ha sparato. Il
teste – chiese - con che arma?. Con il fucile. Ma si sono sentiti solo colpi di pistola – No ma lui mi ha sparato con la pistola. Ma dove si trova Pagliaro andiamo a vedere e lui – No… mi voleva
sparare. Un altro teste affermò che
successivamente il fratello Mario sopraggiunge
in bicicletta con un fucile a tracolla; il Mario armato di tale fucile, dopo
che il fratello gli ebbe narrato del patito agguato invitandolo a vedere dove
il vecchio era scappato, perlustrò il fondo della Fabozzi e poi al
sopraggiungere della sorella, della madre ed altre persone tutti si dileguarono. Per quanto
riguarda i precedenti si acclarò nel corso dell’istruttoria che l’imputato 10
anni prima aveva sedotto la figlia della vittima Pasqualina Pagliaro sua lontana parente, che per le opposizioni
della propria famiglia e specialmente della madre dopo tre mesi l’aveva dovuto
abbandonare. In quegli ultimi tempi il giovane si era fidanzato con tale Maria di Pasquale ben vista dai
familiari perché diversamente dalla Pagliaro era fornito di una certa dote.
Circa due mesi prima dell’omicidio fu sporta dall’ Adolfo Migliozzi una denuncia ai carabinieri contro la sua ex fidanzata.
Secondo il denunciante la ragazza gli aveva sparato un colpo di rivoltella
contro mentre egli attraversava la strada provinciale in bicicletta. La ragazza
si rese reperibile fu denunciata dai carabinieri per il delitto di tentato
omicidio. La Sezione Istruttoria procedette invece per un reato meno grave e si
ipotizzò il reato di tentata lesione. I testimoni escussi dissero di aver
intesosi un colpo di arma da fuoco ma esclusero che era stata la ragazza a
spararlo. Il processo fu incardinato ordinato
a quello principale cioè all’omicidio del padre e la Pagliaro quando venne
interrogata in merito si giustificò affermando che dei ragazzi avevano lanciato
dei petardi dietro il Fabozzi che
transitava in bicicletta per quella stessa strada e che lei percorreva assieme
ad alcune compagne. Risultò, infine, che il Pagliaro padre si era rassegnato
alla sorte toccata alla figlia dopo il fallimento dei tentativi fatti da
autorevoli personaggi del paese (quale il parroco e il maresciallo). Tuttavia
un testimone riferì inoltre che più volte il Migliozzi aveva pronunciato frasi di non preciso oscuro significato “io non me ne sto” ; che circa un mese
prima del fatto aveva detto di aver più volte tentato di incontrare il suo ex
suocero per dargli una meritata lezione. I carabinieri denunciarono alla fine Adolfo Migliozzi, di anni 31, il
fratello Mario, di anni 27, la madre
Pasqualina Pagliaro, tutti in
concorso per omicidio ai danni di Giuseppe
Pagliaro e per porto abusivo di pistola e fucile.
CONDANNATO A 21 DI
RECLUSIONE SENTENZA CONFERMATA IN APPELLO E CASSAZIONE
L’imputato invocava la legittima difesa ma non fu
ritenuto veritiero. Un delitto odioso germinato da un comportamento animalesco
e retrograde.
Il giovane Adolfo Migliozzi, nato nel 1920 a Falciano di Mondragone, che il giugno del 1951 aveva ucciso il padre della sua ex fidanzata Giuseppe
Pagliaro fu condannato dalla Corte
di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente Giovanni Morfino, giudice a latere, Victor Ugo De Donato, pubblico ministero, Nicola Damiano) ad anni 21
di reclusione La difesa aveva invocata la legittima difesa; la pubblica accusa voleva
una condanna all’ergastolo. La sentenza
fu a 21anni di carcere. La perizia
logistica per la ricostruzione del luogo del delitto fu espletata
dall’ing. Enrico Amoroso di S. Maria
C.V. Nel 1958, dopo sei anni dal delitto, il 25 del mese di novembre la Corte
di Assise di appello di Napoli (seconda sezione) composta da Nicola Mancini, Alberto
Carduas, con l’intervento del procuratore generale, il pubblico ministero Giuseppe Chiliperti, emise la sentenza di secondo grado contro. La
Corte di Assise di Appello di Napoli, con un approfondito esame, discusse della posizione in cui fu trovato il
cadavere e la traiettoria della ferita causata dai colpi sparati dall’imputato;
si discusse ampiamente inoltre della posizione del cadavere e del fucile
trovato vicino al cadavere stesso; si esaminò più profondamente la condotta
dell’imputato e la sua condotta difensiva e ci fu una incongruenza della
condotta della vittima nell’ipotesi dell’agguato; quindi la paventata
messinscena della legittima difesa non fu ritenuta valida dai giudici di
secondo grado.
Queste le considerazioni che valsero ad orientare la Corte per
affermare che il complesso delle risultanze unitamente considerate lasciava incerti sulla reale esistenza del fatto giustificativo
addotto dall’imputato per la legittima
difesa. La Corte di Assise di Appello
ritenne opportuno di spingere il motivo
di appello con il quale si era invocata la esimente della legittima difesa e
contestualmente l’eccesso colposo. Circa
il motivo per il quale si riconosce a favore dell’imputato incensurato le
attenuanti generiche la Corte rileva che non
si identificato nel caso in esame le circostanze valide per concedere
una attenuante di pena atteso che non basta la inesistenza di precedenti penali
per essere ritenuti meritevoli di una particolare clemenza. Per contro è
legittimato il diniego e la estrema gravità del delitto a la soppressione cioè
di un vecchio la cui figlia era stata sedotta e poi abbandonata.
Pena confermata anche in Cassazione. Gli avvocati impegnati neri tre gradi di
giudizio furono; Ettore Botti, Ciro
Maffuccini, Salvatore Zannini, Vittorio Verzillo e Salvatore Fusco.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta
Nessun commento:
Posta un commento