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domenica 7 febbraio 2016


 


DUE MANCATI OMICIDI PER QUESTIONI D’ONORE ED EREDITA’

Accaddero a  San Felice a Cancello, il 9 ottobre del 1949, dove un uomo tentò di uccidere la moglie,  la suocera e le cognate  per motivi  d’onore sparando 5 colpi di rivoltella.   Il secondo episodio accadde il 17 febbraio del 1950, allorquando un giovane  tentò di uccidere lo zio per una eredità contesa.






La  prima storia
San Felice a Cancello – I carabinieri della Stazione di Arienzo, con rapporto del 14 ottobre del 1950, denunziarono al Procuratore della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, che il giorno precedente nel comune di San Felice a Cancello, tale Mario Diglio, di anni 26, alle ore 20,45 circa, si era portato nell’abitazione della suocera Carmela Pirozzi, armato di rivoltella, ed avendo trovato la moglie, Maria Sgambato  aveva esploso contro alla stessa 5 colpi di pistola. Il Diglio, dopo il delitto si era allontanato mentre la Sgambato – ferita in varie parti del corpo – avendo riportato ben 5 lesioni – alla regione toracica ed addominale, veniva immediatamente, per la gravità delle stesse, trasportata all’ospedale dei Pellegrini di Napoli. Interrogata la donna ferita, assieme  ai familiari ebbero concordemente ad affermare che la causale dell’aggressione compiuta dal Diglio,  con il suo gesto criminoso, consisteva in un dissidio, avvenuto poco prima, tra i due, per una scottatura che il Diglio aveva riportato alla mano destra nel preparare il forno per il pane. Diversamente dichiararono, invece, i familiari del Diglio i quali affermarono che il tentativo di omicidio del loro congiunto era stato determinato per “motivi di onore” – avendo avuto la Sgambato notoriamente “ una condotta irregolare” (così era definito l’adulterio molto eufemisticamente in quegli anni) durante l’assenza del marito, per ragioni militari, avendo un amante fisso,  (oltre che tresche occasionali con altri uomini) un tale Alfonso Nuzzo di anni  40,  in compagnia del quale era stata sorpresa dal marito poco prima del fatto delittuoso. Il Diglio, per mettere in atto il suo proposito, aveva scavalcato il muro del cortile della casa della madre della Sgambato e poi era entrato nella stessa, minacciando la suocera e le cognate che mentirono per farlo allontanare avendo intuito il proposito di lui.  Dopo le pronte indagini fu emesso contro il Diglio ordine di cattura per tentato omicidio, minacce e violazione di domicilio.
  Con grande sorpresa nello spingere l’uscio della casa aveva visto la moglie ed il suo amante giacere nello stesso letto.     
Dopo poco, però, il latitante si costituì presso la caserma dei carabinieri di Arienzo e nel suo interrogatorio, innanzi al magistrato istruttore,  dichiarò di avere tentato di uccidere la moglie nelle accennate circostanze – perché poco prima essendosi portato nella casa del Nuzzo -  allo scopo di domandare alla madre di lui, se avesse per caso visto la propria moglie, con grande sorpresa nello spingere l’uscio della casa aveva visto la moglie ed il suo amante giacere nello stesso letto. Si era poi diretto a casa sua, per armarsi, ed al ritorno aveva incontrato la moglie mentre si dirigeva di corso verso la casa paterna, lui l’aveva inseguita e poi le aveva sperato 5 colpi di arma da fuoco, (pessimo tiratore…nonostante avesse fatto la guerra nell’esercito… o mancanza di volontà omicida?). Dichiarò di essere in possesso dell’arma per averla trovata qualche giorno prima del fatto per strada abbandonata e di averla poi gettata dopo il delitto. Era naturalmente una bugia! Nel corso della formale istruzione furono escussi vari testi. La Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Napoli ritenne più che sufficienti gli elementi per accusare Mario Diglio di tentato omicidio in danno della moglie. Tale tesi era confermata non solo dai testi e dalle indagini dei carabinieri nonché dalla confessione dell’imputato. “Non può dubitarsi che il Diglio – scrissero i giudici nell’istruttoria – in casa della suocera ebbe ad esplodere diversi colpi di arma da fuoco contro la moglie, ferendola al torace e allo sterno con la evidente finalità di ucciderla. Il Diglio però – nel corso degli interrogatori – non ha potuto negare la volontà di uccidere la moglie,  anche se gli inquirenti dedussero ciò dalla reiterazione dei colpi micidiali i quali attraversarono il torace e l’addome mettendo in pericolo di vita la donna per vari giorni tanto da far dedurre al perito, Dr.  Ettore Ambrogi, che era “scampata per puro miracolo alla morte”.  
Fu un delitto d’onore?  Per fortuna che poi il codice ha abolito l’art. 587   


Quanto alla causale va rilevato che l’imputato – preceduto in questo dai suoi familiari – dopo un periodo di latitanza, durante la quale potette preparare la sua condotta difensiva assunse nel suo primo interrogatorio delle giustificazioni per ragioni di onore in modo da profilare a sua discolpa il particolare delitto previsto e punito dall’art. 587 del Codice Penale. E’ qui dobbiamo fare un inciso. Il famigerato articolo, dopo l’abuso del cosiddetto “divorzio  all’italiana” (alcuni delitti vennero preparati appositamente per sbarazzarsi della propria moglie) nel 1985 venne definitivamente cancellato dal nostro codice. “Ma se gli atti processuali – scrissero ancora gli inquirenti – possono far ritenere che la Sgambato – in tempo più o meno remoto avesse tenuto una condotta contraria ai suoi doveri coniugali – non autorizzano gli atti medesimi a ritenere accertata una offesa attuale dell’onore familiare, come viene sostenuto a solo scopo difensivo. Attraverso un testimoniale compiacente, sono stati riferiti diversi particolari, tendenti a dimostrare i rapporti intrattenuti tra la Sgambato e Alfonso Nuzzo, tanto che quest’ultimo si sarebbe recato in casa del Diglio – nelle ore in cui il medesimo era assente per ragioni di lavoro – mentre invece il maresciallo  dei carabinieri denunziante ebbe specificamente a deporre che non gli era stato possibile accertare se rispondesse o meno,  oltre la diceria corsa,  a carico della Sgambato circa una condotta non illibata prima del fatto. Clemente Martinisi, teste del pubblico ministero, tra gli altri, spingendosi oltre  la verosimiglianza, assunse perfino di avere visto più volte gli amanti insieme e di avere avuto anche dai medesimi  la confidenza della loro tresca. Ma i magistrati inquirenti erano molto perplessi  sia dei testimoni, tutti di parte e prezzolati, sia delle deposizioni dell’imputato. Nella ricostruzione storica dei fatti qualcosa non quadrava.



 Il suo racconto è discreditato in pieno  come sono screditati i detti della teste Orsola D’Addio. 
Difatti il Diglio ebbe a narrare, che ritirandosi verso le ore 18,00 non trovò in casa la moglie per cui si recò in casa della madre del Nuzzo, la quale era dinanzi alla porta, e quando si accorse che la moglie giaceva a letto col suo amante si precipitò di corso a casa sua per armarsi. Ora, se il delitto avvenne verso le ore 20,30 e le due case non sono distanti l’una dall’altra, non è spiegabile che siano occorse ben due ore e mezza, per compiere quanto egli ha dichiarato, per cui il suo racconto è discreditato in pieno  come sono screditati i detti della teste Orsola D’Addio.  Tutta l’artificiosità delle circostanze deposte addirittura inconcepibile poi che la madre del Nuzzo che aveva in casa anche dei nipotini – fosse rimasta fuori dalla porta di casa per dare libertà agli amanti lasciando la porta aperta e senza precipitarsi a chiuderla nel vedere il marito tradito. Come pure è inconcepibile quant’altro è stato dichiarato dallo stesso Diglio nei rapporti della sorpresa fatta. Ed invece devesi ritenere che certo i rapporti tra i due coniugi non erano cordiali da tempo e che non è da escludere  che la causale ultima del delitto fosse stata proprio quella dichiarata dalla parte offesa  il mattino del 10 ottobre in ospedale, mentre era in pericolo di vita e nella impossibilità fisica e psichica di escogitare versioni difformi dal vero. Il delitto, dunque, non fu ritenuto premeditato. Ma furono contestati il reato di violazione di domicilio, porto abusivo di arma e violenza e minaccia grave.  

La seconda storia:  tentò di uccidere lo zio per una eredità contesa


 Il giovane Salvatore Piscitelli,  avendo appreso da suo padre Antonio che aveva ceduto al fratello Michele una piccola zona di terreno senza neanche corrispettivo,  convinto che tale cessione era stata al padre carpita in buona fede, una sera - in preda  ai fumi del vino - esprimeva al proprio genitore il proprio biasimo per la vendita inconsulta e la sera del 17 febbraio 1950,  incontrato lo zio Michele nella piazza principale di  San Felice Cancello, lo provocò invitandolo ad una zuffa. Ma l’intervento di alcuni   amici di Michele inducevano il giovane Salvatore a desistere da ogni violenza e di allontanarsi mentre pronunciava invettive contro lo zio ed i familiari del padre.  Sopraggiunse intanto sulla bicicletta Alberto Delle Cave,  zio affine perché marito di una sorella di Antonio Piscitelli, ed in non buoni rapporti con Salvatore Piscitelli, per beghe familiari e non felice vicinato, e pure sdegnato per le contumelie che il nipote sgranava anche contro la di lui moglie, lo rimbeccò e quindi esplose contro Salvatore Piscitelli quattro o cinque colpi di pistola gravemente ferendolo all’addome e alla gamba sinistra. Rivolse poi l’arma contro l’altro nipote Michele Piscitelli – che si disponeva ad accorrere in difesa del fratello – intimandogli di non avvicinarsi altrimenti avrebbe sparato anche a lui. Abbandonò, infine, la bicicletta sulla strada e si allontanò di corsa.   Gli inquirenti accertarono  che Salvatore Piscitelli riportò due ferite d’arma da fuoco  con il solo forame d’entrata all’addome, altra alla regione laterale destra della gamba ed altre di uguale natura alla mano destra; che per tali  ferite la vittima fu sottoposta a laparatomia e stette in pericolo di vita  e soffrì malattia per giorno 85 senza altri postumi. Dal canto suo l’imputato costituitosi il giorno dopo dichiarò di aver sparato contro il nipote della moglie perché costretto dalla necessità di tutelare la propria integrità fisica in quanto improvvisamente aggredito   da costui ed al fratello che, armati di coltello, tentarono di colpirlo. Non furono prese in considerazione le testimonianze  dei testi a discarico tali Nicola e Andrea D’addio i quali cercarono di sorreggere la versione dell’imputato; gli inquirenti invece, diedero credito alla versione dei carabinieri alle dichiarazioni  delle parti lese,  dei testi di lista Michele Esposito e Antonio Petulanti,  dalle quali risultava uno  svolgimento del fatto come disposto innanzi e non come riferito all’imputato.










 La Corte di Assise condannò il marito focoso  a tre anni  e mesi 9 di reclusione,  con la esclusione della volontà omicida,  con le diminuente del motivo d’onore. Il giovane venne condannato invece a 4 anni per il tentato omicidio dello zio.

 Mario Diglio, tentò di uccidere (ma buon per lui non ci riuscì) la moglie  Maria Sgambato, che aveva un’amante, la suocera, Carmela Pirozzi, le cognate   Immacolata  e Clementina Sgambato, violando il domicilio delle stesse e sparando all’impazzata  5 colpi di pistola in San Felice a Cancello il 9 ottobre del 1949. Nel corso del dibattimento, però, molti testimoni vennero smentiti. Si parlava non già di flagranza dell’adulterio ma di dicerie popolari sorte addirittura durante la guerra del 1945 allorquando il marito era in servizio militare per servire la Patria. Uno dei punti più oscuri – come spesso accade in moltissimi casi giudiziari – è il vero movente del delitto, spesso non si riesce ad avere il bandolo della matassa,  e se è vero -  come è vero  - che il movente è il caleidoscopio del delitto, in questo caso il vero movente è rimasto sconosciuto. Tuttavia la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere,  (Presidente, Pietro Giordana, giudice a latere, Victor Ugo De Donato, pubblico ministero, Pasquale Allegretti, con la Giuria popolare,   composta dai giurati:  Giovanni Pozzuoli, Luciano De Gennaro, Vincenzo Cogliandro, Pasquale Auriemma, Giuseppe De Rosa, Giovanni Perretta e Giuseppe Della Rosa), dopo aver escusso alcuni testimoni (Maria Nuzzo, Benito Basilicata, Clemente Martinisi, Luigi Caputo, Bartolomeo Frasca, Luigi Sgambato); approfondì la indagine dibattimentale e venne fuori, addirittura, una circostanza curiosa. Era stato il fratello della Sgambato a cogliere la donna a colloquio intimo col suo amante ed era stato lo stesso fratello della Sgambato ad avvisare il Diglio dell’esistenza della tresca. Come affermarono molti testimoni la donna durante le assenze del marito aveva tenuta una pessima condotta e che Alfonso  Nuzzo si recava in casa della Sgambato in assenza del marito.  Che il Diglio dopo aver scoperto che la moglie lo tradiva l’aveva perdonata e si era nuovamente riunita con lei ma pare che la donna continuasse nella sua infedeltà. Inoltre un altro teste dichiarò di aver assistito al momento in cui Clemente Martinisi consegnava una pistola a rotazione al Diglio. La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, dopo la requisitoria del  pubblico ministero, che chiese una condanna ad otto anni, con la provocazione e le generiche, emise una sentenza di anni tre e mesi 9 di reclusione,  con la esclusione della volontà omicida,  con le diminuente del motivo d’onore e del particolare valore morale e sociale,  con il riconoscimento, inoltre,  dello stato d’ira e le attenuanti generiche. Gli avvocati impegnati furono: Francesco Gesuè, Vincenzo Fusco, Alberto Martucci, Francesco Polito e Pietro Rotondo.

 
avv. prof. alberto martucci 

La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, conclusa l’istruttoria dibattimentale contro Alberto Delle Cave, di anni 43, accusato di tentato omicidio, respingeva la richiesta difensiva relativa alla legittima difesa e subordinatamente all’accesso colposo, accogliendo invece quella sulla esclusione della volontà omicida con i benefici della provocazione e delle attenuanti generiche e dichiarava la equivalenza delle dette due aggravanti dell’arma per le lesioni  gravi, fissando la pena per tale delitto ad anni quattro di reclusione,  aumentandola di un anno e mesi sei per la recidiva specifica reiterata contestata in udienza in complessivo  gli anni di condanna sono stati cinque e mesi sei per le lesioni e altri sei mesi di reclusione per la violenza privata aggravata. Naturalmente l’imputato ha prodotto appello e si è doluto perché doveva essergli  riconosciuta la esimente della legittima difesa o quantomeno l’eccesso colposo, perché doveva ritenersi la prevalenza delle due attenuanti sull’unica aggravante, perché ci si vede la pena tenuto conto non solo del riconosciuto beneficio della provocazione ma anche del particolare motivo per cui ebbe ad agire, perché in ordine all’imputazione di violenza privata, doveva essere assolto per non aver commesso il fatto, quantomeno per insufficienza di prove.  Si è doluto inoltre, anche il pubblico ministero, perché doveva tenersi ferma la imputazione di tentato omicidio volontario e non si dovevano concedere attenuanti generiche. La Corte di Assise di Appello di Napoli   emise la sentenza di condanna  che fu di anni sei  e mesi 2  di reclusione.  





 

 














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