DUE MANCATI OMICIDI
PER QUESTIONI D’ONORE ED EREDITA’
Accaddero a San Felice a
Cancello, il 9 ottobre del 1949, dove un uomo tentò di uccidere la moglie, la suocera e le cognate per motivi
d’onore sparando 5 colpi di rivoltella. Il
secondo episodio accadde il 17 febbraio del
1950, allorquando un giovane tentò di
uccidere lo zio per una eredità contesa.
La
prima storia
San
Felice a Cancello – I carabinieri della Stazione di Arienzo, con
rapporto del 14 ottobre del 1950, denunziarono al Procuratore della Repubblica
di Santa Maria Capua Vetere, che il giorno precedente nel comune di San Felice
a Cancello, tale Mario Diglio, di
anni 26, alle ore 20,45 circa, si era portato nell’abitazione della suocera Carmela Pirozzi, armato di rivoltella,
ed avendo trovato la moglie, Maria
Sgambato aveva esploso contro alla
stessa 5 colpi di pistola. Il Diglio, dopo il delitto si era allontanato mentre
la Sgambato – ferita in varie parti del corpo – avendo riportato ben 5 lesioni
– alla regione toracica ed addominale, veniva immediatamente, per la gravità
delle stesse, trasportata all’ospedale dei Pellegrini di Napoli. Interrogata la
donna ferita, assieme ai familiari
ebbero concordemente ad affermare che la causale dell’aggressione compiuta dal
Diglio, con il suo gesto criminoso,
consisteva in un dissidio, avvenuto poco prima, tra i due, per una scottatura
che il Diglio aveva riportato alla mano destra nel preparare il forno per il
pane. Diversamente dichiararono, invece, i familiari del Diglio i quali
affermarono che il tentativo di omicidio del loro congiunto era stato
determinato per “motivi di onore” –
avendo avuto la Sgambato notoriamente “ una
condotta irregolare” (così era definito l’adulterio molto eufemisticamente
in quegli anni) durante l’assenza del marito, per ragioni militari, avendo un
amante fisso, (oltre che tresche
occasionali con altri uomini) un tale Alfonso
Nuzzo di anni 40, in compagnia del quale era stata sorpresa dal
marito poco prima del fatto delittuoso. Il Diglio, per mettere in atto il suo
proposito, aveva scavalcato il muro del cortile della casa della madre della
Sgambato e poi era entrato nella stessa, minacciando la suocera e le cognate
che mentirono per farlo allontanare avendo intuito il proposito di lui. Dopo le pronte indagini fu emesso contro il
Diglio ordine di cattura per tentato omicidio, minacce e violazione di
domicilio.
Con grande sorpresa nello spingere l’uscio
della casa aveva visto la moglie ed il suo amante giacere nello stesso
letto.
Dopo poco, però, il latitante
si costituì presso la caserma dei carabinieri di Arienzo e nel suo
interrogatorio, innanzi al magistrato istruttore, dichiarò di avere tentato di uccidere la
moglie nelle accennate circostanze – perché poco prima essendosi portato nella
casa del Nuzzo - allo scopo di domandare
alla madre di lui, se avesse per caso visto la propria moglie, con grande
sorpresa nello spingere l’uscio della casa aveva visto la moglie ed il suo
amante giacere nello stesso letto. Si era poi diretto a casa sua, per armarsi,
ed al ritorno aveva incontrato la moglie mentre si dirigeva di corso verso la
casa paterna, lui l’aveva inseguita e poi le aveva sperato 5 colpi di arma da
fuoco, (pessimo tiratore…nonostante avesse fatto la guerra nell’esercito… o
mancanza di volontà omicida?). Dichiarò di essere in possesso dell’arma per
averla trovata qualche giorno prima del fatto per strada abbandonata e di
averla poi gettata dopo il delitto. Era naturalmente una bugia! Nel corso della
formale istruzione furono escussi vari testi. La Sezione Istruttoria della
Corte di Appello di Napoli ritenne più che sufficienti gli elementi per
accusare Mario Diglio di tentato
omicidio in danno della moglie. Tale tesi era confermata non solo dai testi e
dalle indagini dei carabinieri nonché dalla confessione dell’imputato. “Non può dubitarsi che il Diglio –
scrissero i giudici nell’istruttoria – in
casa della suocera ebbe ad esplodere diversi colpi di arma da fuoco contro la
moglie, ferendola al torace e allo sterno con la evidente finalità di ucciderla.
Il Diglio però – nel corso degli interrogatori – non ha potuto negare la
volontà di uccidere la moglie, anche se
gli inquirenti dedussero ciò dalla reiterazione dei colpi micidiali i quali
attraversarono il torace e l’addome mettendo in pericolo di vita la donna per
vari giorni tanto da far dedurre al perito, Dr.
Ettore Ambrogi, che era “scampata per puro miracolo alla morte”.
Fu un delitto d’onore? Per fortuna che poi il codice ha abolito
l’art. 587
Quanto alla causale va
rilevato che l’imputato – preceduto in questo dai suoi familiari – dopo un
periodo di latitanza, durante la quale potette preparare la sua condotta
difensiva assunse nel suo primo interrogatorio delle giustificazioni per
ragioni di onore in modo da profilare a sua discolpa il particolare delitto
previsto e punito dall’art. 587 del Codice Penale. E’ qui dobbiamo fare un
inciso. Il famigerato articolo, dopo l’abuso del cosiddetto “divorzio
all’italiana” (alcuni delitti vennero preparati appositamente per
sbarazzarsi della propria moglie) nel 1985 venne definitivamente cancellato dal
nostro codice. “Ma se gli atti
processuali – scrissero ancora gli inquirenti – possono far ritenere che la Sgambato – in tempo più o meno remoto
avesse tenuto una condotta contraria ai suoi doveri coniugali – non autorizzano
gli atti medesimi a ritenere accertata una offesa attuale dell’onore familiare,
come viene sostenuto a solo scopo difensivo. Attraverso un testimoniale compiacente,
sono stati riferiti diversi particolari, tendenti a dimostrare i rapporti
intrattenuti tra la Sgambato e Alfonso Nuzzo, tanto che quest’ultimo si sarebbe
recato in casa del Diglio – nelle ore in
cui il medesimo era assente per ragioni di lavoro – mentre invece il
maresciallo dei carabinieri denunziante
ebbe specificamente a deporre che non gli era stato possibile accertare se
rispondesse o meno, oltre la diceria
corsa, a carico della Sgambato circa una
condotta non illibata prima del fatto. Clemente
Martinisi, teste del pubblico ministero, tra gli altri, spingendosi
oltre la verosimiglianza, assunse
perfino di avere visto più volte gli amanti insieme e di avere avuto anche dai
medesimi la confidenza della loro
tresca. Ma i magistrati inquirenti erano molto perplessi sia dei testimoni, tutti di parte e
prezzolati, sia delle deposizioni dell’imputato. Nella ricostruzione storica
dei fatti qualcosa non quadrava.
Il suo racconto è discreditato in pieno come sono screditati i detti della teste Orsola
D’Addio.
Difatti il Diglio ebbe a
narrare, che ritirandosi verso le ore 18,00 non trovò in casa la moglie per cui
si recò in casa della madre del Nuzzo, la quale era dinanzi alla porta, e
quando si accorse che la moglie giaceva a letto col suo amante si precipitò di
corso a casa sua per armarsi. Ora, se il delitto avvenne verso le ore 20,30 e
le due case non sono distanti l’una dall’altra, non è spiegabile che siano
occorse ben due ore e mezza, per compiere quanto egli ha dichiarato, per cui il
suo racconto è discreditato in pieno
come sono screditati i detti della teste Orsola D’Addio. Tutta
l’artificiosità delle circostanze deposte addirittura inconcepibile poi che la
madre del Nuzzo che aveva in casa anche dei nipotini – fosse rimasta fuori dalla
porta di casa per dare libertà agli amanti lasciando la porta aperta e senza
precipitarsi a chiuderla nel vedere il marito tradito. Come pure è
inconcepibile quant’altro è stato dichiarato dallo stesso Diglio nei rapporti
della sorpresa fatta. Ed invece devesi ritenere che certo i rapporti tra i due
coniugi non erano cordiali da tempo e che non è da escludere che la causale ultima del delitto fosse stata
proprio quella dichiarata dalla parte offesa
il mattino del 10 ottobre in ospedale, mentre era in pericolo di vita e
nella impossibilità fisica e psichica di escogitare versioni difformi dal vero.
Il delitto, dunque, non fu ritenuto premeditato. Ma furono contestati il reato
di violazione di domicilio, porto abusivo di arma e violenza e minaccia grave.
La
seconda storia: tentò di uccidere lo zio per una eredità contesa
Il giovane Salvatore
Piscitelli, avendo appreso da suo
padre Antonio che aveva ceduto al
fratello Michele una piccola zona di
terreno senza neanche corrispettivo,
convinto che tale cessione era stata al padre carpita in buona fede, una
sera - in preda ai fumi del vino -
esprimeva al proprio genitore il proprio biasimo per la vendita inconsulta e la
sera del 17 febbraio 1950, incontrato lo
zio Michele nella piazza principale di
San Felice Cancello, lo provocò invitandolo ad una zuffa. Ma
l’intervento di alcuni amici di Michele
inducevano il giovane Salvatore a desistere da ogni violenza e di allontanarsi mentre pronunciava invettive contro
lo zio ed i familiari del padre.
Sopraggiunse intanto sulla bicicletta Alberto Delle Cave, zio
affine perché marito di una sorella di Antonio
Piscitelli, ed in non buoni rapporti con Salvatore Piscitelli, per beghe familiari e non felice vicinato, e
pure sdegnato per le contumelie che il nipote sgranava anche contro la di lui
moglie, lo rimbeccò e quindi esplose contro Salvatore Piscitelli quattro o
cinque colpi di pistola gravemente ferendolo all’addome e alla gamba sinistra.
Rivolse poi l’arma contro l’altro nipote Michele Piscitelli – che si disponeva
ad accorrere in difesa del fratello – intimandogli di non avvicinarsi
altrimenti avrebbe sparato anche a lui. Abbandonò, infine, la bicicletta sulla
strada e si allontanò di corsa. Gli inquirenti accertarono
che Salvatore Piscitelli riportò due ferite d’arma da fuoco con il solo forame d’entrata all’addome,
altra alla regione laterale destra della gamba ed altre di uguale natura alla
mano destra; che per tali ferite la
vittima fu sottoposta a laparatomia e stette in pericolo di vita e soffrì malattia per giorno 85 senza altri
postumi. Dal canto suo l’imputato costituitosi il giorno dopo dichiarò di aver
sparato contro il nipote della moglie perché costretto dalla necessità di
tutelare la propria integrità fisica in quanto improvvisamente aggredito da costui ed al fratello che, armati di
coltello, tentarono di colpirlo. Non furono prese in considerazione le testimonianze dei testi a discarico tali Nicola e Andrea D’addio i quali
cercarono di sorreggere la versione dell’imputato; gli inquirenti invece,
diedero credito alla versione dei carabinieri alle dichiarazioni delle parti lese, dei testi di lista Michele Esposito e Antonio
Petulanti, dalle quali risultava
uno svolgimento del fatto come disposto
innanzi e non come riferito all’imputato.
Mario Diglio,
tentò di uccidere (ma buon per lui non ci riuscì) la moglie Maria
Sgambato, che aveva un’amante, la suocera, Carmela Pirozzi, le cognate Immacolata e Clementina Sgambato, violando il
domicilio delle stesse e sparando all’impazzata
5 colpi di pistola in San Felice a Cancello il 9 ottobre del 1949. Nel
corso del dibattimento, però, molti testimoni vennero smentiti. Si parlava non
già di flagranza dell’adulterio ma di dicerie popolari sorte addirittura
durante la guerra del 1945 allorquando il marito era in servizio militare per
servire la Patria. Uno dei punti più oscuri – come spesso accade in moltissimi
casi giudiziari – è il vero movente del delitto, spesso non si riesce ad avere
il bandolo della matassa, e se è vero
- come è vero - che il movente è il caleidoscopio del delitto, in questo caso il vero movente è rimasto
sconosciuto. Tuttavia la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, (Presidente, Pietro Giordana, giudice a latere, Victor Ugo De Donato, pubblico ministero, Pasquale Allegretti, con la Giuria popolare, composta dai giurati: Giovanni
Pozzuoli, Luciano De Gennaro, Vincenzo Cogliandro, Pasquale Auriemma, Giuseppe
De Rosa, Giovanni Perretta e Giuseppe Della Rosa), dopo aver escusso alcuni testimoni (Maria Nuzzo, Benito Basilicata, Clemente Martinisi, Luigi
Caputo, Bartolomeo Frasca, Luigi Sgambato); approfondì la indagine
dibattimentale e venne fuori, addirittura, una circostanza curiosa. Era stato
il fratello della Sgambato a cogliere la donna a colloquio intimo col suo amante
ed era stato lo stesso fratello della Sgambato ad avvisare il Diglio
dell’esistenza della tresca. Come affermarono molti testimoni la donna durante
le assenze del marito aveva tenuta una pessima condotta e che Alfonso Nuzzo si recava in casa della Sgambato in
assenza del marito. Che il Diglio dopo
aver scoperto che la moglie lo tradiva l’aveva perdonata e si era nuovamente
riunita con lei ma pare che la donna continuasse nella sua infedeltà. Inoltre
un altro teste dichiarò di aver assistito al momento in cui Clemente Martinisi consegnava una
pistola a rotazione al Diglio. La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere,
dopo la requisitoria del pubblico
ministero, che chiese una condanna ad otto anni, con la provocazione e le
generiche, emise una sentenza di anni tre e mesi 9 di reclusione, con la esclusione della volontà omicida, con le diminuente del motivo d’onore e del
particolare valore morale e sociale, con
il riconoscimento, inoltre, dello stato
d’ira e le attenuanti generiche. Gli avvocati impegnati furono: Francesco Gesuè, Vincenzo Fusco, Alberto
Martucci, Francesco Polito e Pietro Rotondo.
La
Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, conclusa l’istruttoria
dibattimentale contro Alberto Delle Cave,
di anni 43, accusato di tentato omicidio, respingeva la richiesta difensiva
relativa alla legittima difesa e subordinatamente all’accesso colposo,
accogliendo invece quella sulla esclusione della volontà omicida con i benefici
della provocazione e delle attenuanti generiche e dichiarava la equivalenza
delle dette due aggravanti dell’arma per le lesioni gravi, fissando la pena per tale delitto ad
anni quattro di reclusione, aumentandola
di un anno e mesi sei per la recidiva specifica reiterata contestata in udienza
in complessivo gli anni di condanna sono
stati cinque e mesi sei per le lesioni e altri sei mesi di reclusione per la
violenza privata aggravata. Naturalmente l’imputato ha prodotto appello e si è
doluto perché doveva essergli
riconosciuta la esimente della legittima difesa o quantomeno l’eccesso
colposo, perché doveva ritenersi la prevalenza delle due attenuanti sull’unica
aggravante, perché ci si vede la pena tenuto conto non solo del riconosciuto
beneficio della provocazione ma anche del particolare motivo per cui ebbe ad
agire, perché in ordine all’imputazione di violenza privata, doveva essere
assolto per non aver commesso il fatto, quantomeno per insufficienza di
prove. Si è doluto inoltre, anche il
pubblico ministero, perché doveva tenersi ferma la imputazione di tentato
omicidio volontario e non si dovevano concedere attenuanti generiche. La Corte
di Assise di Appello di Napoli emise la
sentenza di condanna che fu di anni
sei e mesi 2 di reclusione.
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