Il fatto di sangue accadde nel settembre del 1951 a Casapulla
GIOVANE MACELLAIO
TENTO’ DI UCCIDERE LA ZIA A COLTELLATE
LA DONNA STETTE PER VARI GIORNI
TRA LA VITA E LA MORTE. ALLA BASE DEL FOLLE GESTO IL SEQUESTRO DI UN
QUANTITATIVO DI CANAPA PER UNA CAMBIALE DI 150 MILA LIRE NON PAGATA. LE ZIE ERANO RICCHE, IL LORO PADRE UNO
SCIALACQUATORE, INSIEME VOLEVANO AFFAMARE I NIPOTI.
Casapulla - Il 22 settembre del 1951, nelle
prime ore pomeridiane, in Casapulla, Antonio
Maddaluna, di anni 23, macellaio,
portatosi nelle abitazioni delle proprie zie, Filomena e Rosaria Maddaluna,
accoltellava ripetutamente la Filomena e si dava quindi alla fuga. Ricoverata
presso l’ospedale civile di Caserta il sanitario di guardia riscontrava sulla
donna “larga ferita da taglio al quadrante superiore destro della addome con
fuoriuscita di anse intestinali, nonché ferita da taglio alla mammella sinistra”.
La donna presentava gravi sintomi da anemia acuta, tanto da essere giudicata in
imminente pericolo di vita. Rosaria
Maddaluna, che aveva accompagnata la sorella all’ospedale, dichiarava al
comandante del drappello di P.S. presso l’ospedale, che quel pomeriggio, mentre
si intratteneva con la sorella Filomena, nel cortile della propria abitazione,
era penetrato il nipote Antimo Maddaluna
, che aveva tra le mani una frusta, il quale l’aveva subitamente aggredita
costringendola ad entrare fin presso le camere site al pianterreno. Mentre Antonio
si allontanava da lei era sopraggiunto l’altro nipote, il quale aveva aggredito
e accoltellato la Filomena. La dichiarante indicava genericamente la causale del
fatto in dissapori nascenti da motivi di interesse tra la sorella Filomena ed
il fratello Elpidio Maddaluna, genitore
dei suddetti giovani.
La Filomena, appena potuta interrogare,
in quello stesso giorno, a sua volta dichiarava che “i nipoti Antonio e Antimo
penetrati insieme nel cortile della sua abitazione, avevano aggredito la
Rosaria costringendola ad entrare fin verso la cucina e l’altro aveva aggredito
lei ripetutamente con un coltello da macellaio che aveva celato in un panno.
Antonio rivolto a un fratello in un certo momento aveva domandato: “Hai fatto?”. I due giovani si erano quindi allontanati. In
ordine al movente che aveva indotto Antonio ad agire così funestamente contro
di lei la Filomena informava che nella mattina di quello stesso giorno lei
aveva sequestrato, con regolare procedura, un quantitativo di canapa in casa
del fratello Elpidio, suo debitore di lire
150.000, per le quali aveva a suo tempo
rilasciato cambiale con data in bianco.
I carabinieri espletate le relative indagini venivano a capo della questione.
Antonio sottoposto ad interrogatorio non dette valide spiegazioni e fu vago e
confusionale quasi a mettere in evidenza una sua instabilità mentale. Antimo a
sua volta dichiarava di essersi portato in casa delle zie avendo appreso del
sequestro dei prodotti mentre faceva ritorno alla sua abitazione. Mentre
discuteva con la Rosaria sopraggiunse il fratello Antonio ed incominciò ad
infierire con colpi di coltello nei confronti della zia Filomena. A tale
aggressione gli era del tutto estraneo essendo questa mera
iniziativa del fratello Antonio. Antonio, come detto, negava di aver minacciato
di morte il genitore in contrasto con l’accusa mossagli da costui nelle sue
dichiarazioni fatte precedentemente i carabinieri. Sulla traccia delle accuse della
Filomena, la quale ebbe a riferire che qualche ora prima del delitto l’altro
nipote Pietro Maddaluna, incaricato del trasporto della canapa presso il
sequestratario, rivolta a lei aveva detto: “Per
questa sera qui ci saranno tre bare”, alludendo alla sorte riservata alle
due zie ed al padre. Per questo veniva contestato al giovane il delitto di
minacce gravi in pregiudizi delle zie e del genitore.
A destra l'avv. Antonio Simoncelli |
Nel suo interrogatorio l’imputato,
però, negava l’addebito. Il padre degli accusati dichiarava di aver contratto
debiti per l’ammontare di lire 150.000 con la sorella Filomena per le esigenze
della piccola azienda commerciale del figlio Antonio il quale gestiva una
beccheria. Erano occorsi dei maiali e del denaro per un congruo avviamento
della suddetta gestione. Gli era stato più volte sollecitata la restituzione
della somma dovuta nella impossibilità di far fronte con le personale risorse
alle pressioni della sorella, essendo in lite con i propri familiari da tempo i
quali non gli consentivano di disporre
neppure di quanto era di sua pertinenza, aveva finito col concordare con la
sorella Filomena un’azione legale contro di lui diretta sul fondamento di
cambiali portanti l’ammontare del debito, essendo questo l’unico mezzo per il recupero del
credito vantato. Nei successivi interrogatori gli imputati si riportavano a
quanto precedentemente dichiarato e rimarcavano la loro difesa nel concentrare le
responsabilità del fatto sul solo Antonio, essendo estraneo Antimo. Accusavano
inoltre il padre Elpidio in quanto partecipe - con la Filomena - all’odioso stratagemma con il quale aveva
voluto con quell’azione legale appropriarsi di tutte le rendite della famiglia
da devolvere al soddisfacimento dei suoi vizi ed al rimborso delle spese di
mantenimento nei confronti delle sorelle con la quale si era ritirato a
convivere. Circa la colpevolezza dell’Antonio Maddaluna non si muove questione,
del resto lui era reo confesso ed era inequivocabilmente indicato come autore
del delitto sia dalla parte lesa che della Rosaria. Egli, infatti, venne
sorpreso in possesso dell’arma feritrice che portava accuratamente avvolto in
un panno. Quanto alla volontà omicida non può in alcun modo dubitarsi della sua
sussistenza sulla scorta delle chiare risultanze generiche. La vittima venne
attinta almeno tre volte al ventre, alla natica e alla regione mammellare
destra. Il colpo al ventre, penetrato profondamente in cavità e per un’ampiezza
di circa 15 cm, recise a tutto spessore il muscolare che perforò in molti punti
il tenue. Vi fu fuoruscita di anse intestinali. Un quadro clinico di tanta
gravità depone necessariamente per un fine nettamente omicida per la sua di
selvaggia violenza. Il colpo alla mammella denunzia il tentativo di raggiungere
anche la cavità toracica.
La partecipazione dell’Antimo e del pari sicuramente provata
il giovane penetrato nel cortile ove si intrattenevano le zie affrontò
decisamente la Rosaria senza pertanto cagionare alcun danno. Ciò dimostra che
l’intento dell’Antimo era quello di allontanare la donna e di impedirle di
portare soccorso alla Filomena contestualmente aggredita ed accoltellata dall’Antonio.
Delle due donne quella che era un bersaglio dell’ira e dell’odio dei Maddaluna,
attaccati con la procedura del sequestro, era esattamente la Filomena, titolare
dell’azione legale ed in concreto detentrice di tutti i poteri familiari
riferibili a quel binomio. La Rosaria era infatti in una posizione di secondo
piano nella questione familiare agendo esclusivamente la Filomena nei rapporti
esterni. L’azione dell’Antimo contro la Rosaria dunque non potrebbe avere alcun
altro significato se non quello di neutralizzarne la reazione. Ciò è reso
evidente che l’attacco diretto contro di lei fu nettamente circoscritto ad un
suo spingimento verso il fondo del cortile. I due fratelli avevano inoltre una
causale comune imponente ed il successo della spedizione punitiva poteva essere
garantito solo con la somma delle forze individuali. Le due Maddaluna sono di
robustissima costituzione; Antonio non avrebbe potuto sperare in una irruzione
fruttuosa senza avere al suo fianco chi tenesse a bada la Rosaria. Nell’interrogatorio
dell’Antimo infine, emerge una frase ed è quella di aver suscitato l’odio con
il sequestro il che dimostra che il ricorso alla violenza aderisce in sostanza
alla personalità del giovane. La difesa
dei due imputati invocava nella fase istruttoria la concessione della
provocazione nell’assunto che la Filomena avesse agito fraudolentemente contro
i suoi congiunti servendosi di un titolo cambiario dalla causale inesistente. In
sostanza Elpidio Maddaluna (tra l’altro deceduto nelle more del giudizio)
allontanatosi dalla propria famiglia avrebbe voluto impadronirsi di tutte le
risorse economiche di quella e di dividerle con le sorelle che assecondavano lo
sporco programma. Per quanto ciò abbia un effimero ed immotivato richiamo nel
verbale dei carabinieri la prova al riguardo e fallita non potendosi a tale
effetto utilizzare le vaghe ed imprecise percezioni di qualche testimone
suggestionato piuttosto dalla circostanza che delle zie non abbiano esitato a
sequestrare tutti i prodotti di un’annata agraria frutto di stentato lavoro ed
oggetto di lunga aspettativa con ciò privando di ogni possibilità di esistenza
dei propri nipoti quando avrebbero potuto indulgere o dilazionare il recupero
del credito disponendo esse di cospicui personali appannaggi. Questo il
sentimento che si coglie nel rapporto dei carabinieri come la dichiarazione di Antonio Arzillo che è portato a dire
che avrebbe volentieri sborsato lui il denaro se avesse potuto pur di evitare
il fatto.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
I tre fratelli Antimo, di anni 27, Antonio, di anni 23 e Pietro Maddaluna, di anni 17, tutti accusati,
in concorso, di mancato omicidio, e minacce gravi, ai danni della loro zia “per
avere – è scritto nel capo di imputazione – mediante più colpi d’armi da punta
e taglio (coltello da macellaio) tentato di uccidere Filomena Maddaluna, cagionandole lesioni all’addome guarite in
circa dieci mesi, che mettevano in pericola di vita furono rinviati al giudizio
della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente Giovanni Morfino; giudice a latere, Victor Ugo De Donato; giudici popolari: Osvaldo Troianiello, Vittorio
Lista, Ugo Stella, Domenico Barbato,
Ugo Penna, Ettore Faraone). La
Corte, dopo la requisitoria del pubblico ministero, che chiese una condanna a
12 anni di reclusione per Antonio e Antimo Maddaluna e il perdono giudiziale
per il minore Pietro e dopo le arringhe difensive degli avvocati: Antonio Simoncelli, Leucio Fusco e Antonio Quartulli, condannò i fratelli
Antonio ed Antimo ad anni 10 di reclusione, per il tentato omicidio, tenuto
conto della estrema gravità delle ferite riportate dalla Filomena –
miracolosamente sopravvissuta -
(ridotti a 7 per la concessione delle attenuanti generiche).
Concesse il perdono giudiziale al minore Pietro. In effetti la Corte concesse a
tutti il beneficio della provocazione ( la zia con il sequestro della canapa
aveva tolto quel minimo economico per l’esistenza quotidiana che tra l’altro
era frutto di grandi sacrifici del lavoro nei campi). Ad Antonio Maddaluna era addebitato altresì il delitto di minaccia
grave in pregiudizio del genitore
Elpidio, per avere rivolto – e detto nell’accusa – frasi del seguente
tenore: “T’avimme accidere”- Tale delitto era addebitato anche a Pietro
Maddaluna che però, all’epoca dei fatti, era minore degli anni 18. “Non vi è dubbio – scrivono, tra
l’altro, i giudici nella loro
motivazione – che frasi del genere siano state pronunciate – come risulta dalla
testimonianza di Antonio Arzillo – il quale riferisce dello stato di grave
eccitazione della famiglia di Elpidio
Maddaluna nel corso della proceduta di sequestro effettuata in sua presenza.
Tutti ebbero “accenni d’ira” contro costui al quale imputavano la propria rovina
( pare che l’Elpidio fosse dedito al libertinaggio, scialacquando i soldi della
famiglia, tra postriboli e gioco d’azzardo) a riprova delle fondate accuse –
scrivono ancora i giudici – “è il fatto che lo stesso, si allontanò dal paese
restando lontano tutto il giorno per timore che dai suoi familiari si compisse
vendetta nei suoi confronti. Nei riguardi di Pietro Maddaluna, come detto, la Corte “ritenne di dover concedere
il perdono giudiziale nell’opinione che costui si asterrà per l’avvenire dal
commettere ulteriori reati”.
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