Il delitto accadde a Gricignano
il 26 maggio del 1952
VENNE CANCELLATO DALLA LISTA DEI
DISOCCUPATI E
UCCISE IL COLLOCATORE
La provocazione del sindaco che in un comizio
affermò: “l collocatore lo faccio io”. Il funzionario aveva dato lavoro ad un
disoccupato con 7 figli a carico. Era ex maresciallo dei carabinieri. Risultò
che l’assassino non aveva la qualifica per il posto richiesto
Gricignano
d’Aversa - Ecco la
storia. Da circa un anno in Gricignano, era collocatore il quarantanovenne Carmine Picone, ex sottufficiale dei carabinieri,
che percepiva all’poca, un mensile di Lire 900 al mese (450 euro di oggi). Il
compito era non poco gravoso e difficile per il forte numero di disoccupati,
che si aggirava all’epoca intorno ai 200/300; per la pericolosità di non pochi
di costoro e ancora per le non poche inframmettenze politiche dei vari
esponenti di partiti, cresciute nella primavera del 52 a causa delle
competizioni elettorali. In proposito, il direttore dell’ufficio Provinciale
del Lavoro di Caserta, aveva saputo (o dal parroco del luogo, dal comandante
dei vigili urbani o da altri) che il sindaco, in un pubblico comizio, non si
era peritato di affermare che il “collaboratore lo faceva lui”. Lasciava
intendere, cioè, che lui disponeva l’avviamento al lavoro e che il collocatore
era “persona sua”. Ma non era vero.
Come tutti i politici, di tutti i paesi e di tutte le epoche era ”un venditore di fumo”. Inoltre, in un esposto del 12 maggio dello
stesso anno, la Camera del Lavoro di Caserta si dolse di siffatte ingerenze ed il
direttore di quel periodo, ebbe occasione di ascoltare il collocatore Picone che
rappresentò doglianze, timori, ingerenze e minacce. Per tali motivi e per l’ambiente
politico assai acceso gli diede consigli
di avere più tatto con i lavoratori e di prudenza nei confronti
dei politici suggerendogli, fra l’altro, di trovar modo di rivolgere qualche
accorto accenno al sindaco per le frasi pronunciate in occasione di comizi
pubblici. Vi era già stato un ricorso, nel febbraio di quell’anno, da parte di numerosi disoccupati
tra i quali il bracciante Domenico
Aquilante; costoro si dolevano dell’attività espletata dal Picone, “attribuendogli di dare la precedenza a quelli che avevano conoscenze
ed aderenze”. L’inchiesta disposta ed espletata al riguardo ebbe, però, esito
favorevole per il collocatore. Questi risultò generalmente descritto quale “funzionario di molto garbo (troppo
buono addirittura dichiarò un brigadiere dei carabinieri) mite ed onesto”. Vi fu soltanto qualche voce dissenziente di tale Antonio Autiero, che aveva parlato
invece di modi aspri e di donativi
(diceva di aver dato dei salami per essere ingaggiato). Il sindaco del tempo
dichiarò che segnalava al Picone alcuni disoccupati fra cui il vecchio Gennaro Aquilante (padre dell’assassino), che fu ingaggiato in un cantiere di
lavoro per delle opere in quel territorio richiesto dal 10º Artiglieria, ma la
sera stessa, fu licenziato perché inabile. Con sua diretta segnalazione l’indomani
si presentarono al detto cantiere Aquilante Gennaro ed il figlio Domenico
perché questi venisse assunto invece del primo (senza tener presente le norme
regolamentari del collocamento). In effetti il Domenico lavorò ivi per 4/5
giorni sino a sabato 24 maggio 1952.
Il
collocatore, intanto, aveva, secondo l’ordine di precedenza fra i disoccupati
iscritti, sostituito Gennaro Aquilante con tale Vincenzo Di Peppe, padre di sette figli, ed in condizioni
economiche non migliori di quelle degli Aquilante.
Domenico Aquilante aveva - nella stessa primavera - lavorato in altro cantiere e si era
reiscritto fra i disoccupati soltanto il 17 dello stesso mese. La sera del 24
il capocantiere per il della 10ª Artiglieria gli disse di dovere regolarizzare
la sua posizione tramite l’ufficio di Collocamneto e lo munì di una richiesta
di lavoro generica di manovale. Il lunedì 26, verso le nove, si recò in
quell’ufficio in Piazza Municipio in Gricignano e chiese di essere avviato a quel
cantiere esibendo la richiesta. Il collocatore Carmine Picone, rilevò che la richiesta non era nominativa e che, pertanto, non dava diritto a preferenza rispetto ai
disoccupati iscritti prima di lui. Anzi. Gli consigliò di recarsi dall’imprenditore
e farsi rilasciare una richiesta da cui risultasse “operaio specializzato e persone di fiducia”. Domenico Aquilante
era un semplice manovale ed era descritto come vivace, focoso, impetuoso,
violento, impulsivo e prepotente. Invece di seguire quel consiglio insistette
con prepotenza.
Il Picone, con santa pazienza, replicò con buoni modi che allo
stato la sua istanza non poteva essere accolta. Comunque aggiunse che più tardi,
se del caso, egli lo avrebbe
accompagnato alla ditta affinché gli venisse rilasciato una richiesta in tali
sensi. L’Aquilante, invece, si ripresentò al Picone dopo due o tre ore,
tornando ad insistere nella sua pretesa e ricevendo le stesse risposte. In un
certo momento si allontanò e dopo cinque 10 minuti ritornò in quell’ufficio ed ai
due soli presenti estranei Nicola
Lucariello e Stefano Romano disse:
“Voi siete buoni testimoni”; estratta
poi una pistola Beretta calibro nove, sparò quattro colpi contro il collocatore
Picone, che era presso lo scrittoio in piedi, per timbrare la posta, e si allontanò
subito in bicicletta.
L’Aquilante, arrestato tre giorni dopo il delitto, interrogato dal
magistrato inquirente, diede la sua versione dei fatti. Picone, in un certo
momento gli aveva rivolto parole brusche:
“Da stamattina mi stai scoglionando…Vattene!!!, aggiungendo, fra l’altro,
che fin quando egli fosse rimasto a quel posto non l’avrebbe mai avviato al
lavoro e gli aveva anche lanciato lo sputo in faccia”. E sostenne anche di avere sparato al solo scopo
di intimorire e quindi di procacciarsi un ingaggio. I due testimoni invece concordemente
e con costanza di riferimenti negarono la versione dell’Aquilante (finanche in
sede di confronto). Picone mortalmente ferito, mosse verso l’uscita
abbattendosi sulla soglia. Raccolto fu trasportato all’ospedale di Aversa, però,
giunse cadavere, senza aver avuto modo di proferire qualche parola. Furono
riscontrati tre forami di entrata con bordi fortemente anneriti (ciò dimostrava
la cosiddetta sparata a bruciapelo, cioè vicinissimo al corpo); il primo, al
terzo spazio intercostale sulla parasternale destra, il secondo a destra, ad un dito attraverso la cicatrice ombelicale;
e terzo alla regione interna della
coscia destra. All’altezza superiore della coscia destra fu notata una lesione
anche con arma da fuoco ma solo di striscio; al terzo forame di entrata alla
regione pubica; due proiettili furono ritenuti per le prime due lesioni
rispettivamente nel paranchino del
polmone sinistro, al lobo inferiore e della cavità addominale di calibro nove.
Risultarono lesi il cuore, entrambi i polmoni, il pacchetto intestinale. Tutti
i colpi ebbero un tramite dall’alto in basso; due direzione da destra a
sinistra (quelli che attinsero il torace e la regione interna della coscia
destra) e l’altro che attinse la regione paraombelicale.
Il truce assassino, nel terzo e conclusivo episodio del 26 maggio
- dissero gli inquirenti - che agì “con fermezza che rivela una natura, anche se
non remota, di grave decisione e con mezzo e in modo che sono inoppugnabilmente
rilevatori dell’intenzione di sopprimere. Giunto sulla soglia dell’ufficio del
Picone, avanzò verso di lui con rapidità, che tolse a quell’infelice perfino la possibilità di
pronunziare una parola di implorazioni o di lamento e lo attinse con quattro
colpi di arma da guerra (una pistola pericolosa, una Beretta calibro nove NdR) fra l’altro al torace e all’addome; tuttavia in un baleno, immediatamente prima di sparare, come per un disegno già maturato e formatosi, istantaneamente disse ai due altri
disoccupati presenti Romano, (che era quasi al centro dell'ufficio) e
Lucariello (che si trovava un pò più in là, vicino allo scrittore del
collacatore) voi vi siete buoni testimoni”.
Il disoccupato Nicola Lucariello,
testimone oculare del delitto, dichiarò ai carabinieri:” Il collocatore non si era accorto di nulla”. Anche l’altro teste
presente al delitto, Stefano Romano
non rese difforme dichiarazione ai carabinieri; mentre al giudice istruttore
precisò che : ”Aquilante, dopo avere rinnovata la propria richiesta ed
ottenuto un secco no da parte del Picone si allontanò dall’ufficio con passo
normale. Dopo pochissimi minuti, si affacciò alla porta dell’ufficio stesso
(uno dei cui i battenti era chiuso) e
dicendo “voi siete buoni testimoni”, dopodiché al nuovo invito di firmargli la
richiesta il collocatore aveva risposto “no”, esplose all'indirizzo di quest’ultimo
che era in piedi, vicino al suo tavolo,
intento timbrare delle buste dei colpi e… fuggì subito via… sparò stando sulla
porta d’ingresso io e Lucariello ci buttammo a terra”.
E gli inquirenti chiarirono “Chi leggesse quanto attiene al
secondo tempo della richiamata narrazione, senza ricollegarlo a quello
precedente, del secco “no” potrebbe
credere che al momento del fatto Aquilante avesse ancora fatto una sollecitazione ed
ancora ricevuto la risposta di rifiuto.
E’ invece chiaro, sia per quanto attiene al primo tempo sia per quanto
attiene alla narrazione del Lucariello che il povero collocatore fu colpito
prima di essersi avveduto del ritorno dell’Aquilante. Romano – precisarono gli
inquirenti - poi ha equivocato dicendo che i colpi furono
esplosi dall’ingresso, perché lo stesso
imputato, dopo aver detto di essere rimasto fermo sotto la porta, ha spiegato “egli (cioè il Picone) si era avvicinato a me e io sono indietreggiato”; e quindi è da precisare
a questo punto che Picone si diresse alla porta soltanto dopo essere stato
ferito quando cioè l’Aquilante era fuggito subito via; se questi prima di
fuggire indietreggiò, come ha dichiarato, è chiaro che non si era inoltrato
nell’ufficio”.
Il pubblico ministero chiese una
condanna a 21 anni di reclusione. La Corte, con le attenuanti generiche, lo
condannò a 17 anni. Sentenza confermata in Appello e Cassazione
La Corte di Assise di Santa Maria
Capua Vetere (Presidente, Giovanni
Morfino; giudice a latere, Victor Ugo De Donato; pubblico
ministero, Nicola Damiano; giudici
popolari: Salvatore Costagliola, Pasquale Salvatores, Domenico Tranquillo, Giuseppe Boianelli, Vittorio Castrillo e Aurino Conna), dopo la requisitoria del
pubblico ministero, che chiese una condanna a 21 anni di reclusione, con
sentenza del 29 ottobre 1954, condannò ad anni 17 di reclusione, Domenico Aquilante, di anni 30 da Gricignano, (arrestato il 5
maggio) accusato di omicidio volontario in danno di Carmine Picone, delitto avvenuto a Gricignano il 26 maggio del
1952. Nel giudizio di appello, dell’ottobre del 1956, ed in quello di
Cassazione, del 24 aprile 1959, la sentenza di primo grado venne confermata in
ogni punto. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: Bernardo Giannuzzi Savelli, Ciro Maffuccini e Alberto Martucci.
I giudici di secondo grado – pur stigmatizzando
la condanna della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, che ritennero troppo blanda - ci tennero a rimarcare che “alla udienza della Corte di primo grado l’Aquilante ha
ammesso che il Picone gli aveva detto che l’avrebbe accompagnato dal
capocantiere, aggiungendo che però si sarebbe poi rifiutato di farlo e ha
dichiarato di essere rimasto al momento del fatto fermo sulla soglia di avere
sparato mentre l’altro era in movimento verso di lui ed ha però anche assunto che egli stava
indietreggiando.
Per il reato più grave era stata contestata l’aggravante ma
per la responsabilità dell’omicidio volontario la Corte ha disatteso la
richiesta della provocazione, ha concesso però le attenuanti generiche
dichiarandole prevalenti sull’aggravante suddetta. Quanto alla pena è partita dal minimo operato
ed ha operato la massima diminuzione per le attenuanti generiche arrivando ad
anni 14 di reclusione; ha portato quindi l’aumento di un anno per la recidiva.
Negli altri reati (cioè detenzione e porto di armi da guerra) ha concesso
l’attenuante dell’unicità dell’arma, quelle generiche in complesso ha elevato
due anni di reclusione per questi reati. Hai provveduto come per legge delle
pene accessorie, le spese processuali. Avverso detta sentenza ha proposto
appello l’imputato deducendo il fatto che l’omicidio era da ritenersi
preterintenzionale egli meriterebbe l’attenuante della provocazione. Le
attenuanti – hanno spiegato i giudici di primo grado – sono state concesse per uno
stato di “agitazione e esasperazione”, derivante dalla comprensibile preoccupazione
di vedersi nuovamente rintracciato tra le file dei disoccupati per l’ingiusto
comportamento del collocatore.
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