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domenica 6 marzo 2016




Il delitto accadde a  Gricignano 
il 26 maggio del 1952

VENNE CANCELLATO DALLA LISTA DEI DISOCCUPATI E
 UCCISE IL COLLOCATORE

 La provocazione del sindaco che in un comizio affermò: “l collocatore lo faccio io”. Il funzionario aveva dato lavoro ad un disoccupato con 7 figli a carico. Era ex maresciallo dei carabinieri. Risultò che l’assassino non aveva la qualifica per il posto richiesto




Gricignano d’Aversa - Ecco la storia. Da circa un anno in Gricignano, era collocatore il quarantanovenne Carmine Picone, ex sottufficiale dei carabinieri, che percepiva all’poca, un mensile di Lire 900 al mese (450 euro di oggi). Il compito era non poco gravoso e difficile per il forte numero di disoccupati, che si aggirava all’epoca intorno ai 200/300; per la pericolosità di non pochi di costoro e ancora per le non poche inframmettenze politiche dei vari esponenti di partiti, cresciute nella primavera del 52 a causa delle competizioni elettorali. In proposito, il direttore dell’ufficio Provinciale del Lavoro di Caserta, aveva saputo (o dal parroco del luogo, dal comandante dei vigili urbani o da altri) che il sindaco, in un pubblico comizio, non si era peritato di affermare che il “collaboratore lo faceva lui”. Lasciava intendere, cioè, che lui disponeva l’avviamento al lavoro e che il collocatore era “persona sua”. Ma non era vero. Come tutti i politici, di tutti i paesi e di tutte le epoche era ”un venditore di fumo”.  Inoltre, in un esposto del 12 maggio dello stesso anno, la Camera del Lavoro di Caserta si dolse di siffatte ingerenze ed il direttore di quel periodo, ebbe occasione di ascoltare il collocatore Picone che rappresentò doglianze, timori, ingerenze e minacce. Per tali motivi e per l’ambiente politico assai acceso  gli diede consigli di  avere più tatto  con i lavoratori e di prudenza nei confronti dei politici suggerendogli, fra l’altro, di trovar modo di rivolgere qualche accorto accenno al sindaco per le frasi pronunciate in occasione di comizi pubblici. Vi era già stato un ricorso, nel febbraio di  quell’anno, da parte di numerosi disoccupati tra i quali il bracciante Domenico Aquilante; costoro si dolevano dell’attività espletata  dal Picone, “attribuendogli di dare la precedenza a quelli che avevano conoscenze ed aderenze”. L’inchiesta disposta ed espletata al riguardo ebbe, però, esito favorevole per il collocatore. Questi risultò generalmente descritto quale “funzionario di molto garbo (troppo buono addirittura dichiarò un brigadiere dei carabinieri) mite ed onesto”. Vi fu soltanto qualche voce dissenziente di tale Antonio Autiero, che aveva parlato invece di modi aspri e di donativi (diceva di aver dato dei salami per essere ingaggiato). Il sindaco del tempo dichiarò che segnalava al Picone alcuni disoccupati fra cui il vecchio Gennaro Aquilante (padre dell’assassino), che fu ingaggiato in un cantiere di lavoro per delle opere in quel territorio richiesto dal 10º Artiglieria, ma la sera stessa, fu licenziato perché inabile. Con sua diretta segnalazione l’indomani si presentarono al detto cantiere Aquilante Gennaro ed il figlio Domenico perché questi venisse assunto invece del primo (senza tener presente le norme regolamentari del collocamento). In effetti il Domenico lavorò ivi per 4/5 giorni sino a sabato 24 maggio 1952. 



Il collocatore, intanto, aveva, secondo l’ordine di precedenza fra i disoccupati iscritti,  sostituito  Gennaro Aquilante con tale Vincenzo Di Peppe,  padre di sette figli, ed in condizioni economiche non migliori di quelle degli Aquilante.
Domenico Aquilante  aveva  - nella stessa primavera -  lavorato in altro cantiere e si era reiscritto fra i disoccupati soltanto il 17 dello stesso mese. La sera del 24 il capocantiere per il della 10ª Artiglieria gli disse di dovere regolarizzare la sua posizione tramite l’ufficio di Collocamneto e lo munì di una richiesta di lavoro generica di manovale. Il lunedì 26, verso le nove, si recò in quell’ufficio in Piazza Municipio in  Gricignano e chiese di essere avviato a quel cantiere esibendo la richiesta. Il collocatore Carmine Picone, rilevò che la richiesta non era nominativa  e che, pertanto,  non dava diritto a preferenza rispetto ai disoccupati iscritti prima di lui. Anzi. Gli consigliò di recarsi dall’imprenditore e farsi rilasciare una richiesta da cui risultasse “operaio specializzato e persone di fiducia”. Domenico Aquilante era un semplice manovale ed era descritto come vivace, focoso, impetuoso, violento, impulsivo e prepotente. Invece di seguire quel consiglio insistette con prepotenza. 

Il Picone, con santa pazienza, replicò con buoni modi che allo stato la sua istanza non poteva essere accolta. Comunque aggiunse che più tardi, se del caso,  egli lo avrebbe accompagnato alla ditta affinché gli venisse rilasciato una richiesta in tali sensi. L’Aquilante, invece, si ripresentò al Picone dopo due o tre ore, tornando ad insistere nella sua pretesa e ricevendo le stesse risposte. In un certo momento si allontanò e dopo cinque 10 minuti ritornò in quell’ufficio ed ai due soli presenti estranei Nicola Lucariello e Stefano Romano disse: “Voi siete buoni testimoni”; estratta poi una pistola Beretta calibro nove, sparò quattro colpi contro il collocatore Picone, che era presso lo scrittoio in piedi, per timbrare la posta, e si allontanò subito in bicicletta.
L’Aquilante, arrestato tre giorni dopo il delitto, interrogato dal magistrato inquirente, diede la sua versione dei fatti. Picone, in un certo momento gli aveva rivolto parole brusche: “Da stamattina mi stai scoglionando…Vattene!!!, aggiungendo, fra l’altro, che fin quando egli fosse rimasto a quel posto non l’avrebbe mai avviato al lavoro e gli aveva anche lanciato lo sputo in faccia”. E  sostenne anche di avere sparato al solo scopo di intimorire e quindi di procacciarsi un ingaggio. I due testimoni invece concordemente e con costanza di riferimenti negarono la versione dell’Aquilante (finanche in sede di confronto). Picone mortalmente ferito, mosse verso l’uscita abbattendosi sulla soglia. Raccolto fu trasportato all’ospedale di Aversa, però, giunse cadavere, senza aver avuto modo di proferire qualche parola. Furono riscontrati tre forami di entrata con bordi fortemente anneriti (ciò dimostrava la cosiddetta sparata a bruciapelo, cioè vicinissimo al corpo); il primo, al terzo spazio intercostale sulla parasternale destra,  il secondo a destra,  ad un dito attraverso la cicatrice ombelicale;  e terzo alla regione interna della coscia destra. All’altezza superiore della coscia destra fu notata una lesione anche con arma da fuoco ma solo di striscio; al terzo forame di entrata alla regione pubica; due proiettili furono ritenuti per le prime due lesioni rispettivamente nel paranchino  del polmone sinistro, al lobo inferiore e della cavità addominale di calibro nove. Risultarono lesi il cuore, entrambi i polmoni, il pacchetto intestinale. Tutti i colpi ebbero un tramite dall’alto in basso; due direzione da destra a sinistra (quelli che attinsero il torace e la regione interna della coscia destra) e l’altro che attinse la regione paraombelicale.
Il truce assassino, nel terzo e conclusivo episodio del 26 maggio -  dissero gli inquirenti - che agì “con fermezza che rivela una natura, anche se non remota, di grave decisione e con mezzo e in modo che sono inoppugnabilmente rilevatori dell’intenzione di sopprimere. Giunto sulla soglia dell’ufficio del Picone, avanzò verso di lui con rapidità, che tolse a  quell’infelice perfino la possibilità di pronunziare una parola di implorazioni o di lamento e lo attinse con quattro colpi di arma da guerra (una pistola pericolosa, una  Beretta calibro nove NdR) fra l’altro al torace e all’addome;  tuttavia in un baleno,  immediatamente prima di sparare,  come per un disegno già maturato e formatosi,  istantaneamente disse ai due altri disoccupati presenti Romano, (che era quasi al centro dell'ufficio)  e Lucariello (che si trovava un pò più in là, vicino allo scrittore del collacatore)  voi vi siete buoni testimoni”.

Il disoccupato Nicola Lucariello, testimone oculare del delitto, dichiarò ai carabinieri:” Il collocatore non si era accorto di nulla”. Anche l’altro teste presente al delitto, Stefano Romano non rese difforme dichiarazione ai carabinieri; mentre al giudice istruttore precisò che : ”Aquilante,  dopo avere rinnovata la propria richiesta ed ottenuto un secco no da parte del Picone si allontanò dall’ufficio con passo normale. Dopo pochissimi minuti, si affacciò alla porta dell’ufficio stesso (uno dei cui i battenti era chiuso) e dicendo “voi siete buoni testimoni”, dopodiché al nuovo invito di firmargli la richiesta il collocatore aveva risposto “no”, esplose all'indirizzo di quest’ultimo  che era in piedi, vicino al suo tavolo, intento timbrare delle buste dei colpi e… fuggì subito via… sparò stando sulla porta d’ingresso io e Lucariello ci buttammo a terra”.
E gli inquirenti chiarirono “Chi leggesse quanto attiene al secondo tempo della richiamata narrazione, senza ricollegarlo a quello precedente, del secco “no”  potrebbe credere che al momento del fatto Aquilante  avesse ancora fatto una sollecitazione ed ancora ricevuto la risposta di rifiuto.  E’ invece chiaro, sia per quanto attiene al primo tempo sia per quanto attiene alla narrazione del Lucariello che il povero collocatore fu colpito prima di essersi avveduto del ritorno dell’Aquilante. Romano – precisarono gli inquirenti -  poi  ha equivocato dicendo che i colpi furono esplosi dall’ingresso,  perché lo stesso imputato, dopo aver detto di essere rimasto fermo sotto la porta, ha spiegato “egli (cioè il Picone) si era avvicinato a me e io  sono indietreggiato”; e quindi è da precisare a questo punto che Picone si diresse alla porta soltanto dopo essere stato ferito quando cioè l’Aquilante era fuggito subito via; se questi prima di fuggire indietreggiò, come ha dichiarato, è chiaro che non si era inoltrato nell’ufficio”.




Il pubblico ministero chiese una condanna a 21 anni di reclusione. La Corte, con le attenuanti generiche, lo condannò a 17 anni. Sentenza confermata in Appello e Cassazione


La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Giovanni Morfino;  giudice a latere, Victor Ugo De Donato; pubblico ministero, Nicola Damiano; giudici popolari: Salvatore Costagliola, Pasquale Salvatores, Domenico Tranquillo, Giuseppe Boianelli, Vittorio Castrillo e Aurino Conna), dopo la requisitoria del pubblico ministero, che chiese una condanna a 21 anni di reclusione, con sentenza del 29 ottobre 1954, condannò ad anni 17 di reclusione, Domenico Aquilante,  di anni 30 da Gricignano, (arrestato il 5 maggio) accusato di omicidio volontario in danno di Carmine Picone, delitto avvenuto a Gricignano il 26 maggio del 1952. Nel giudizio di appello, dell’ottobre del 1956, ed in quello di Cassazione, del 24 aprile 1959, la sentenza di primo grado venne confermata in ogni punto. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: Bernardo Giannuzzi Savelli, Ciro Maffuccini e Alberto Martucci

I giudici di secondo grado – pur stigmatizzando la condanna della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere,  che ritennero troppo blanda -  ci tennero a rimarcare che “alla udienza della Corte di primo grado l’Aquilante ha ammesso che il Picone gli aveva detto che l’avrebbe accompagnato dal capocantiere, aggiungendo che però si sarebbe poi rifiutato di farlo e ha dichiarato di essere rimasto al momento del fatto fermo sulla soglia di avere sparato mentre l’altro era in movimento verso di lui ed  ha però anche assunto che egli stava indietreggiando. 


Per il reato più grave era stata contestata l’aggravante ma per la responsabilità dell’omicidio volontario la Corte ha disatteso la richiesta della provocazione, ha concesso però le attenuanti generiche dichiarandole prevalenti sull’aggravante suddetta.  Quanto alla pena è partita dal minimo operato ed ha operato la massima diminuzione per le attenuanti generiche arrivando ad anni 14 di reclusione; ha portato quindi l’aumento di un anno per la recidiva. Negli altri reati (cioè detenzione e porto di armi da guerra) ha concesso l’attenuante dell’unicità dell’arma, quelle generiche in complesso ha elevato due anni di reclusione per questi reati. Hai provveduto come per legge delle pene accessorie, le spese processuali. Avverso detta sentenza ha proposto appello l’imputato deducendo il fatto che l’omicidio era da ritenersi preterintenzionale egli meriterebbe l’attenuante della provocazione. Le attenuanti – hanno spiegato i giudici di primo grado – sono state concesse per uno stato di “agitazione e  esasperazione”,  derivante dalla comprensibile preoccupazione di vedersi nuovamente rintracciato tra le file dei disoccupati per l’ingiusto comportamento del collocatore.    




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