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mercoledì 9 marzo 2016



In Italia le giornaliste non fanno carriera (e 
guadagnano meno). Solo un direttore su quattro è donne e il suo stipendio è più basso del 25 per cento rispetto a quello di un uomo. A rimetterci è - anche - la qualità dell'informazione. I NUMERI. Praticanti: donne 46,7 %; uomini 53,3% Redattore: donne 45,3 %; uomini 54,7 %. Caporedattore o caposervizio: donne 35,5 %; uomini 64,5 %. Direttore: donne 23,3 %; uomini: 76,7 %. 

di Chiara Severgnini/stampa.it





9.3.2016 - Il giornalismo non è un mestiere da soli uomini. Nelle redazioni dei giornali di carta e di quelli online, in tv e alla radio, tra gli inviati in Parlamento e tra i fotoreporter le donne ci sono, e sono tante: rappresentano poco più del 40 per cento del totale dei giornalisti attivi nel 2014 . Eppure, commenta la ricercatrice Monia Azzalini , che si occupa di analisi dei media all' Osservatorio di Pavia, «le professioniste dell' informazione faticano ancora a raggiungere i posti di potere, sia a livello simbolico, sia a livello effettivo». Le giornaliste oggi guadagnano meno dei loro colleghi, a tutti i livelli, e non vengono promosse quanto loro. E se è vero che c' è qualche segnale di cambiamento, è chiaro che è ancora troppo poco. Per un giornalismo più equo - per il bene di tutti, compresi lettori, ascoltatori e telespettatori - ci vuole un cambio di passo. Il mondo dell' informazione piace alle donne. Il 52 per cento degli iscritti alle scuole di giornalismo tra il 2006 e il 2012 è stato di sesso femminile. E nel 2013 i praticanti erano equamente distribuiti tra maschi (53 per cento) e femmine (46 per cento). Il problema sta nei gradini più alti della carriera: solo il 35 per cento dei caporedattori è donna; e al livello dei direttori e dei loro vice la percentuale scende al 23 per cento (dati INPGI sul 2013). Anche nel giornalismo la carriera delle donne è frenata dal cosiddetto soffitto di cristallo : «Più ci si avvicina ai vertici - spiega Azzalini - più il numero di donne scende». E così sono quasi sempre gli uomini a prendere le decisioni e a dettare l' agenda, vale a dire a stabilire quali sono le notizie più importanti e come trattarle. Solo di rado questo ruolo è condiviso con le loro colleghe. A rimetterci però non sono solo queste ultime, ma anche la qualità dell' informazione . «Un giornalismo fatto soprattutto da uomini - spiega Azzalini - è per sua natura meno bilanciato e obiettivo». Perché se la stampa, la tv e la radio guardano il mondo soprattutto con occhi maschili, faticheranno a cogliere e a rappresentare correttamente la realtà delle donne. 


Ma allora i dati provano che le donne vengono discriminate? «Personalmente non amo il verbo 'discriminare', preferisco 'sfavorire'», precisa Azzalini. Che aggiunge: «Per un' analisi più precisa bisognerebbe guardare ai dati settore per settore». In loro assenza ci si deve accontentare di medie e numeri aggregati, sufficienti però per trarre qualche conclusione. «Le professioniste dell' informazione sono ancora sfavorite - sostiene Azzolini - a meno che non lavorino in un settore tradizionalmente femminile». Ci sono ambiti in cui le donne sono la maggioranza, anche al vertice: basta pensare ai giornali dedicati principalmente (ma non solo) a moda e lifestyle, che non a caso chiamiamo proprio "i femminili". Ma le cose cambiano quando si guarda alle redazioni che si occupano di politica, economia e esteri . Il problema è complesso. A volte sono le giornaliste stesse a fare un passo indietro: per scelta, sì, ma non del tutto libera. «La cura dei figli e degli anziani ricade più che altro sulle donne - ricorda Azzalini- che quindi sono portate a lasciare il lavoro dopo una gravidanza, oppure a optare per il part-time, che non facilita certo la carriera». Dietro a questa decisione spesso ci sono anche considerazioni economiche: lo stipendio di una donna in molti casi è inferiore a quello del suo partner. È il cosiddetto "pay gap" e riguarda anche la professione giornalistica: stando ai dati del 2013, una redattrice in media guadagna il 13 per cento in meno di un suo collega, una caporedattrice il 20 per cento in meno di un caporedattore e una direttrice di testata addirittura il 23 per cento in meno di un uomo con la stessa qualifica. 

Se le giornaliste faticano ad affermarsi nella loro professione è anche perché c' è ancora una resistenza a promuoverle e a valorizzarle: le posizioni di prestigio e di maggiore visibilità restano appannaggio quasi esclusivo dei loro colleghi. I motivi? Sono culturali: «la nostra società - spiega Azzalini - continua ad attribuire maggiore autorevolezza alle figure maschili». Basta guardare all' informazione televisiva. In superficie può sembrare che sia una realtà paritaria dato che a condurre i maggiori notiziari, in Italia, sono tanto le donne quanto gli uomini. Ma Azzalini fa notare che «la conduzione dei Tg nel nostro Paese di solito ha un' impronta molto asettica, e offre poche chance di mostrare la propria personalità. Nei talk show, dove i conduttori hanno un ruolo più autorevole e personale, le donne sono meno numerose degli uomini». Insomma, dove è concesso non solo di dare le notizie ma anche di commentarle in prima persona e di dettare la linea, le donne scarseggiano. E nella carta stampata? «Nei giornali cartacei la vetrina principale è la prima pagina, e lì le donne sono ancora in minoranza rispetto agli uomini: gli editorialisti sono quasi tutti maschi, così come le cosiddette grandi firme». Che il problema sia culturale lo conferma il confronto con altri Paesi. «In Bulgaria, dove per motivi storici il giornalismo è considerato una professione di second'ordine - racconta Azzalini - le donne sono in maggioranza, e sono più numerose che in Italia nelle posizioni apicali».




Le cose, però, stanno cambiando. Nelle redazioni si sta superando la tradizionale distinzione tra "notizie da uomini" e "notizie da donne", sempre più giornaliste si occupano di economia o di politica e ogni anno i vertici delle testate si fanno un po' più rosa. Il problema è che i cambiamenti sono lenti e disomogenei. «Chi sperava che l'arrivo in massa delle donne nelle redazioni sarebbe bastato per cambiare le cose - dice Azzalini - deve riconoscere che non ha funzionato». E allora cosa si può fare? Secondo la ricercatrice l'unica strada è quella delle "azioni proattive". È urgente ad esempio lavorare a politiche che rendano più facile conciliare le esigenze lavorative con quelle familiari, come i congedi di maternità e paternità e i nidi aziendali. Ma senza consapevolezza non si va da nessuna parte. Fortunatamente da qualche anno a questa parte le istituzioni e l' opinione pubblica in Italia sono più attente ai problemi delle donne nei media. E le giornaliste stesse hanno iniziato a far sentire la loro voce, ad esempio tramite l'associazione G.I.U.Li.A. (Giornaliste unite libere autonome), che dal 2012 lavora per «promuovere l'uguaglianza dei generi nella società con particolare attenzione al mondo del giornalismo». E paradossalmente la crisi dell' editoria potrebbe offrire un' occasione per mettere in discussione i vecchi modelli. «Il mondo della stampa - commenta Azzalini - sta conoscendo un momento di profondo mutamento. Il digitale offre grandi opportunità. Perché non approfittarne?».









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