Il 2 marzo la Commissione parlamentare antimafia ha presentato la relazione “sullo stato dell’informazione e sulla condizione dei giornalisti minacciati dalle mafie”, già in vero approvata il 5 agosto 2015.
Un compito superiore ed improbo che, se è stato portato avanti con ostinazione e professionalità, lo si deve (quasi) solo ad un senatore: Claudio Fava (Si-Sel).
Non poteva che essere così. Claudio – lo dico per i lettori più giovani – ha respirato e vissuto libertà di informazione grazie alla straordinaria figura del padre, Giuseppe, fondatore dei Siciliani (lo seguivo sempre nei suoi scritti), assassinato da Cosa nostra a Catania il 5 gennaio 1984.

Claudio non lo sa (non può saperlo) ma la mia formazione giornalistica è avvenuta, oltre che per quanto hanno lasciato in eredità Servitori della libertà di stampa come suo padre, anche grazie al modo in cui divoravo Avvenimenti, straordinario settimanale fondato nel 1989 e prematuramente scomparso nel 2000, dopo lunga agonia. Un periodico nel quale quella libertà di stampa, Claudio Fava continuò a praticare e a diffondere.
Claudio non lo sa (non può ricordarlo) ma nel 1991 vivemmo (lui in Sicilia, io a Roma) comuni e vibranti emozioni politiche quando Leoluca Orlando fondò La Rete. Lui resistette ancora un po’. Io abbandonai schifato, quasi subito quel movimento nel quale mi ero ingenuamente (la gioventù fa brutti scherzi) affacciato. Avvenne quando, dopo un congresso a Termini Imerese, scopriì in quel movimento le stesse disgustose aberrazioni che credevo potessero restare fuori da quella nuova creatura zeppa di giovani limpidi e speranzosi, ancora informe ma presto divenuta deforme per colpa della vecchia, disgustosa e trasformista politica siciliana. Quella esperienza fu per me una tappa fondamentale nella vita professionale e personale: capiì definitivamente che al Sud ciò che appare, quasi sempre, non è.

Ebbene, giustamente, la relazione è stata così salutata da Fava: «E’ la prima volta che la Commissione antimafia, nei suoi cinquant’anni di vita, decide di dedicare una relazione ad hoc al rapporto tra mafie e informazioni. Non è un titolo di merito ma il segnale di un’urgenza. Da una parte duemila giornalisti minacciati in quattro anni, dall’altra sacche crescenti di una stampa reticente se non consociativa nei confronti dei poteri mafiosi. Occorre farsi carico tutti, non solo in Parlamento del fatto che per le organizzazioni criminali il condizionamento della libera informazione è un imprescindibile requisito di impunità. Al quale non si può rispondere con generica solidarietà nei confronti dei cronisti che rischiano e generiche reprimende per quei giornali che tacciono».

La relazione – lo dico subito – è per moltissimi versi straordinaria e condivisibile nelle sue conclusioni. Vi prego – se vorrete – di leggerla al linkhttp://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/documentiparlamentari/IndiceETesti/023/006/INTERO.pdf.
Ne vale la pena. Ci sono racconti in presa diretta di giornalisti valorosi (ne cito uno per tutti: il caro Michele Albanese) che raccontano perché vale la pena vivere e morire per questo mestiere che è presidio di libertà democratica in un Paese stanco, colluso, connivente e distrutto.
Ci sono pagine straordinarie – in questa relazione – in cui si spiega più di mille convegni, perché ormai la nostra professione, sempre più popolata da leccaculi, nane e ballerine, è destinata a morire nell’indifferenza “der valoroso popolo italiano” (cit Altan). Si vedano, ad esempio, i capitoli dedicati all’informazione in Sicilia dove accadono cose che manco in Turchia forzatamente pro Erdogan. La libertà di stampa non è di questo Paese, figuriamoci di quell’isola.

Sia ben chiaro, all’interno di questa relazione – a mio modesto avviso – si dà fiato, voce o profilo diretto o indiretto anche a colleghi (poiché purtroppo iscritti allo stesso Albo) nei confronti dei quali mantengo la stessa, abissale, distanza etica, morale e professionale che, mutatis mutandum, un capriolo ferito deve mantenere da un orso affamato ma la perfezione non è di questo mondo e l’arte di sapersi vendere e dell’apparire, in un’epoca lastricata dal paraculismo e del nulla venduto a peso d’oro, è di gran lunga superiore alla cultura del fare e dell’essere. Logico – rectius: fisiologico – che la Commissione (come del resto inevitabilmente fa anche in altri contesti, quali ad esempio quello dedicato alla conoscenza del cosiddetto “valoroso popolo dell’antimafia”) aprisse le porte e ponesse attenzione a soggetti e oggetti per i quali non vale la pena dedicare un solo secondo del proprio tempo.
Ma non è di questo che voglio parlarvi. I pregi – l’ho già detto e rimando per questo alla lettura del link – sono enormi. Giù il cappello. E i limiti? Lo dico chiaro: giganteschi. Ordinari.
Sono certo che un giornalista sopraffino e un politico di lungo corso come Claudio non ha certo bisogno che sia io ad indicarglieli ma li contestualizzo per i lettori. Non per critica distruttiva, dunque, ma in segno di speranza costruttiva. La speranza che la Commissione parlamentare antimafia – ma in primis quel che resta di questa politica parolaia – metta presto (e con eguale rinnovata forza) sul piatto della bilancia lo strapotere dannoso e mortale di due pesi massimi nella lotta all’informazione libera e alla libertà di stampa, pensiero ed opinione.

Quei due pesi massimi si chiamano deriva politica e deriva della magistratura (e dire che sono stati anche auditi magistrati ai quali ben si poteva chieder conto di quanto sta accadendo in moltissime procure italiane, oltretutto intasate di querele degli stessi magistrati contro i giornalisti!).
Che la politica (questa politica) sia forse la peggior nemica della libertà di stampa e che contribuisca vieppiù a scavare la fossa ad una categoria che le ha fornito le pale, svendendosi e compiendo meretrici inenarrabili, è fuor di dubbio. Che la politica alimenti – specie al sud, quel sud dove fare libera informazione è ormai difficile come galleggiare sanguinanti in un rio brasiliano popolato di piranha – l’isolamento e la delegittimazione dei giornalisti, è anch’esso un dato di fatto inconfutabile. Senza contare quanto il Parlamento sia impegnato ad elucubrare disegni di legge-bavaglio spacciandoli come memorabili conquiste verso la libertà del genere umano!

Ebbene, in una relazione dedicata allo “stato dell’informazione e sulla condizione dei giornalisti minacciati dalle mafie” si doveva scavare a fondo su quell’insano e perverso rapporto che lega politica marcia e fette sempre più ampie del giornalismo e su quel cordone insano che avvolge quei pochi colleghi che, oggi, hanno il coraggio di tenere le distanze dalle lusinghe della politica marcia e politicante. Un cordone che diventa soffocante e mortale, quando a stringerlo è quella quota parte di politica (sempre più ampia) che collude e vive di mafia e, dunque, trova mille sponde per delegittimare e distruggere i giornalisti con la schiena dritta.
Al termine di questo profondo scavo la Commissione avrebbe dovuto assumere una propria valutazione critica mettendola nero su bianco e non lasciare che a parlare del ruolo deviato della politica marcia fossero solo i giornalisti ascoltati.
Per farlo, forse, la Commissione parlamentare antimafia (non parlo di Claudio o di qualche altro suo collega in una Commissione antimafia sempre più sbrindellata) aveva bisogno di un input e di un abbrivio di ben diversa pasta da quella esibita il 30 gennaio 2014 nel corso dell’audizione dell’allora ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri.
Disquisendo dei colloqui registrati e videoregistrati nel carcere milanese di Opera (Milano) tra il capo di Cosa nostra Totò Riina e l’aspirante dama di compagnia e passeggio Alberto Lorusso, che furono anche mandati in onda dalle tv, tomo-tomo cacchio-cacchio (come direbbe Totò), il commissario parlamentare antimafia Enrico Buemi (Psi) ad un certo punto porse una domanda a mio avviso sconcertante fuori microfono al ministro: «Il video, signor ministro. Abbiamo giornalisti così bravi?».
Ora io sfido qualunque persona al mondo di buon senso a non ritenere degno di interesse collettivo e generale il fatto che un macellaio di Cosa nostra lanciasse messaggi criminali e di morte contro un magistrato valoroso come Nino Di Matteo e il pool che con lui lavora a Palermo.

La risposta di Cancellieri fu netta e mi lasciò senza parole: «Parliamo di video, possiamo parlare di tutto. È gravissimo». Non so se ci rendiamo conto: è gravissimo il fatto che la stampa abbia fatto il proprio mestiere!
La Commissione parlamentare antimafia, però, non se ne rese conto. Anzi! Qualcosa da aggiungere la ebbe infatti il presidente della Commissione Rosy Bindi: «Va bene. Sappiamo che dell’argomento si è interessato anche il Garante della privacy. È un argomento sul quale magari la Commissione avrà modo di ritornare» (per la lettura completa di quella pagina memorabile di storia patria rimando al linkhttp://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/02/28/commissione-parlamentare-antimafia-quando-a-preoccupare-i-commissari-sono-la-liberta-di-stampa-e-la-magistratura-palermita/).
Ora, anche con questo piombo al piede che dipinge un percorso più di mille pennellate d’autore, poteva la Commissione parlamentare affrontare il peso della politica marcia nella morte della libertà di informazione e dei condizionamenti ai giornalisti? A voi la risposta. Anche lo avesse fatto, avrebbe dato la stessa risposta che dà l’oste a chi gli chiede com è il vino o come risponde il caporale di giornata al comandante che gli chiede com è il rancio.
Ma veniamo all’atro grande limite di questa relazione, che pure attraverso la viva voce diMilena Gabbanelli, ha spiegato la perversione della classe dirigente italiana quando si trova di fronte a chi ha il coraggio di denunciarne le malefatte. Sulla scia di questo passaggio (a partire dalle folli querele temerarie), la Commissione poteva affrontare il peso enorme, gigantesco, sfiancante, che una parte della magistratura, con una propria lettura assolutamente legittima ma altamente opinabile finchè ci sarà un brandello di democrazia, ha sulla libertà di informazione e su quei pochi giornalisti che vogliono affrontare la pervasività delle mafie e dei sistemi criminali senza guardare in faccia a nessuno (dunque, ripeto, senza generalizzare nei confronti della magistratura, ma riferendosi a enclave ben determinate nella loro legittima posizione, che rispetto ma disapprovo e a pericolose linee di tendenza per la libertà di stampa, che vengono passate di procura in procura).
Potrei citarvi mille episodi (l’ultimo recentissimo, del quale pure ho scritto, riguarda il collega Marco Lillo del Fatto Quotidiano) ma per farvi capire di cosa parlo, rimando al 9 marzo 2015, allorché scrissi su questo umile e umido blog un pezzo dal titolo “Cari pm la lotta alle mafie si fa slegando la stampa e non imbavagliandola: i casi Pantano e Gazzetta di Mantova – Ricchiuti in Antimafia”.
Rimando al link a fondo pagina per la lettura completa e, dunque, qui riassumo. Era accaduto – in due luoghi diversi d’Italia, l’uno al nord e l’altro al sud – che la stampa facesse il proprio mestiere (non è per questo che ci pagano e ci leggono?) e, per questo, è andata incontro a situazioni che non saprei come definire se non surreali e nel silenzio della politica e della stessa Commissione bicamerale antimafia (a parte l’eccezione sollevata dalla senatrice Pd Lucrezia Ricchiuti, caduta ovviamente nel vuoto della stessa Commissione).
La Gazzetta di Mantova da alcune settimane, con piglio, rigore e massimo rispetto per gli indagati che, fino ad eventuale condanna definitiva, sono innocenti,  stava dando conto della cosiddetta operazione Pesci che nei primi giorni di febbraio 2015 rivelò la presenza  di una presunta associazione ‘ndranghetista che imperversa tra la Bassa mantovana, la provincia di Brescia e quella di Reggio Emilia, strettamente collegata con la politica.  Un’operazione “gemella” rispetto all’operazione Aemilia condotta sempre dai Carabinieri e coordinata dalla Dda di Bologna che ha consentito l’arresto di 163 persone tra Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia. I minuziosi articoli dellaGazzetta di Mantova che hanno informato o contribuito ad informare su quanto fino a quel momento l’accusa era riuscita a raccogliere, hanno attinto anche ad un’informativa dei Carabinieri che – attenzione attenzione –  era già nella disponibilità degli indagati e degli arrestati. Alla Gazzetta di Mantova, dunque – e vi prego di porre molta attenzione – nessuno muove rilievi rispetto alla veridicità del contenuto degli articoli.
Lo Stato, anziché essere felice che la stampa compie coraggiosamente tratti comuni di strada in quell’impegno civile che è e deve essere la lotta quotidiana alle mafie, spedisce a quattro giornalisti della Gazzetta di Mantova una comunicazione dai Carabinieri, ricevuta il 5 marzo: i quattro sono indagati dalla Procura per pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale.
Se possibile (è una guerra al ribasso) ancora peggiore è quanto accaduto al collega exCalabria Ora Agostino Pantano. E’ stato rinviato a giudizio con l’accusa di ricettazione come i peggiori delinquenti di Caracas (sic!). L’accusa che la Procura della Repubblica di Palmi contesta trae origine dalla pubblicazione nel 2010 da parte di Pantano, all’epoca responsabile della redazione di Gioia Tauro di Calabria Ora, della relazione redatta dalla Commissione d’accesso che nel 2008 portò allo scioglimento per infiltrazioni mafiose del Comune di Taurianova. Il gip del Tribunale di Cosenza accolse la richiesta della Procura di archiviazione dell’accusa di diffamazione contestata a Pantano sulla base di una querela presentata dall’ex sindaco di Taurianova, Rocco Biasi, ma trasmise gli atti, in relazione al reato di ricettazione, alla Procura di Palmi, che chiese e ottenne il rinvio a giudizio del giornalista ritenendo che il giornalista si sarebbe appropriato in modo illecito della relazione della Commissione d’accesso.
Come ho scritto più volte, ciò che trovo intollerabile è che la magistratura, spesso, oltre a dimenticare che esiste una Costituzione 8articolo 21) e quanto statuito inequivocabilmente più volte dalla Corte Ue, dimentica anche la recentissima ed ennesima decisione di Strasburgo (si legga il Sole-24 Ore del 17 aprile 2012) , secondo la quale il diritto di cronaca va sempre salvaguardato. Per i giudici l’interesse della collettività all’informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate!
Mi chiedo cos’altro dovrà succedere per decretare la morte di una professione il cui grado di libertà è lo specchio della democrazia di un Paese. La magistratura deve (non è una facoltà ma un obbligo) «intervenire sulla società e, lottando contro l’illegalità, sulle vite di tutti, consentire a ciascuno di esercitare i propri diritti». Non lo dice chi vi scrive, ma Rocco Chinnici, giudice ucciso da Cosa nostra il 29 luglio 1983 a Palermo, con gli uomini della scorta e il portiere dello stabile dove abitava (fonte: “E’ così lieve il tuo bacio sulla fronte – Storia di mio padre Rocco, giudice ucciso dalla mafia”, Caterina Chinnici, Strade blu Mondadori, pagina 37).