STRANGOLO’ LA FIGLIOLETTA APPENA NATA E LO GETTO’ IN UN POZZO
Credeva che con il delitto avrebbe potuto salvare il
proprio onore. Il cadaverino era stato
avvolto in una mutandina con le iniziali dell’assassina. Accusò falsamente la
madre e il fidanzato di complicità nel delitto.
Il delitto avvenne ad Alvignano il 29 gennaio del 1952
Alvignano - Il 29 gennaio del 1952, nel fondo di tale Giuseppe Vitaliano, in agro di Alvignano, veniva rinvenuto, galleggiante sull’acqua, avvolto in una mutandina di donna recante le iniziali N.F. il cadaverino di una neonata. In sede di vista esterna veniva accertato trattarsi di neonata di sesso femminile della lunghezza di cm 51 presentante caratteri del tutto normali per un parto a termine con ancora il cordone ombelicale attaccato alla relativa placenta integra. Venivano notate sul corpicino della vittima chiazze chimotiche di forma oblunga, con tessuti mortificati leggermente addensati nella piega del corpo lato sinistro. In sede di autopsia veniva conclamata la prova decisiva. Si riscontrano inoltre assenza di limpido nelle terapie e nei cavi pleurici a carico del collo e venivano trovate delle ecchimosi. Si deduceva pertanto che il feto aveva respirato per pochissimo tempo con comprensione degli ambiti polmonare che l’ingrossamento a carico del collo era stata prodotta da mano omicida nonostante i vagiti della neonata.
I carabinieri iniziavano le
indagini dirette alla identificazione dell’infanticidio. A seguito di ricerche effettuate nell’anagrafe
del Comune di Dragoni risultava il nominativo Filomena Nocera; F.N. erano,
infatti, le iniziali sulla mutandina. La
ragazza risultava nubile. Effettuata perquisizione nella casa da questa abitata
si rinveniva della biancheria sporca di
sangue. Interrogata affermava sulle prime trattarsi di sangue mestruale, ma in
seguito a visita medica la quale diagnosticava in lei tutti i caratteri di
donna che aveva di recente partorito, dopo aver tentato ancora di tergiversare, confessava di essersi due, tre giorni prima partorita nello stanzino attiguo
alla sua camera da letto all‘insaputa di sua madre e di sua sorella, con lei
conviventi; di avere nascosto il feto,
avvolto nella mutanda in cui lo avevano trovato, in un angolo nello stanzino. Disse di averlo poi di sera trasportato al pozzo dove l’aveva
buttato ove era stato rinvenuto. Negava che altri avessero partecipato al fatto,
assumeva essersi decisa all'‘infanticidio allo scopo di non far sapere a sua
madre ed agli altri del suo disonore. La madre e della ragazza, a sua volta
interrogata dai carabinieri, dichiarava di ignorare che sua figlia avesse
partorito e finanche che fossi incinta. Che la medesima era fidanzato con
Stefano Navarretta escludendo però che
questi potesse aver avuto dei rapporti carnali con la giovane. Il fidanzato, im
sede di interrogatorio aveva pure negato di conoscere alcunché di quanto
accaduto; che la sua fidanzata fosse
incinta asserendo anzi di non aver avuto con la medesima alcuna congiunzione
carnale. Con il rapporto del 6 febbraio 1952, i carabinieri nel ritenere che
nel fatto non ci fosse correità da parte
di altri e denunciarono la solo Filomena Nocera per il delitto di infanticidio.
Costei nel formale interrogatorio dichiarava di essere rimasta incinta in
seguito a congressi carnali avuti col suo fidanzato, ma di avere e creduto
dapprima che si trattasse di un ritardo mestruale dovuta a disfunzione ovarica,
secondo la dichiarazione del dottor
Antonio d’Amore di Piedimonte d'Alife. Nel corso dello stesso interrogatorio, però, contraddicendosi, ammise di
essere a conoscenza del suo stato gravidico. Dal canto suo Cristina
Nocera, madre della Filomena, tratta in
arresto in seguito ad emissione di mandato di cattura, protestava la propria innocenza asserendo
essere rimasto del tutto ignara sia della
gravidanza che del parto della figliola.
Il Navarretto inteso come teste
insisteva nel negare di aver avuto rapporti carnali con la fidanzata. Intanto
Filomena Nocera – in sede di interrogatorio innanzi al Giudice Istruttore-
modificando la versione dei fatti, accusava
di essere stata assistita durante il parto dal proprio fidanzato, il
quale aveva preso la neonata, l’aveva avvolta in una mutandina portate via.
Insistette nel ribadire che in precedenza aveva
dichiarato il falso; insistette
nell’affermare che sua madre era a conoscenza di tutto. Singolare e
schiacciante fu deposizione di Angelina Ricciardi, vicina di casa della imputata, la quale
dichiarava di aver visto attraverso un foro esistente nella porta fra le due
abitazioni i due giovani congiungersi ripetutamente e tanto sosteneva anche in
sede di confronto e pertanto veniva emesso mandato di cattura anche a carico
del Navarretto il quale, tratto in arresto, nel corso del formale interrogatorio si protestò innocente, insistendo nell’affermare di non aver avuto alcun
rapporto carnale con la ragazza, di cui
ignoravano lo stato di gravidanza ed
assumeva che all’epoca del delitto che
si sarebbe trovato a lavorare come bracciante presso Vincenzo Coppola, in località “Cerro
Cupo”. Anche in seguito ad un drammatico confronto i due restarono sulle
proprie posizioni. Lei accusava la madre e il fidanzato. Loro si protestavano
innocenti. L’alibi del giovane, però, non venne confermato dal suo datore di
lavoro. Si accese una disputa sulle modalità della soppressione e sulle cause
della morte della piccola. “Nella
fattispecie – fecero osservare i periti settori - il cordone ombelicale era rimasto legato alla
placenta ed erano anzi iniziati anche gli atti respiratori onde con essi per le
accennate modificazioni del circolo sanguigno automaticamente la quantità di
sangue circolante nei vasi ombelicali dovete diventare subito scarsa. La causa
della morte della neonata non può essere pertanto dovuta a dissanguamento essa
va asserita bensì alla compressione esercitata sul collo del feto da cui è
prova del reperto autoptico”.
“Trattasi quindi di infanticidio doloso – conclamarono gli
inquirenti – e non sussiste poi alcun
dubbio circa la colpevolezza di tutti i tre giudicabili. Non è di fatto
verosimile che Filomena abbia potuto portare da sola innanzi la sua gravidanza
fino al suo termine naturale, senza che la di lei madre convivente, che dormiva
nello stesso letto, con la figlia ed il fidanzato se ne accorgessero, ma che
avesse addirittura partorito nello stesso letto della sua casa senza che vi
fosse stata alcuna assistenza da parte dei suoi familiari. Non senza ragione il
giovane Navarretta nega di aver avuto congressi carnali con la Filomena e la
madre Cristina di non essersi accorta che la figlia era incinta”.
“È da escludersi -
precisarono ancora gli inquirenti - che
Filomena s'era abbia potuto partorire da sola e che subito dopo il parto abbia
potuto recarsi ad occultare il
cadaverino nella località campestre ove venne ritrovata in un
pozzo. E’ logico ed evidente che le
protestate innocenze assumono sintomatica importanza ed inducono a ritenere che
i cooperatori della Filomena vadano
ricercato innanzitutto tra coloro i quali potevano avere un interesse pari a
quello della partoriente ad occultare l’accaduto, cioè nella Cristina e nel Navaretto. La tesi difensiva del
giovane cozza invero non solo contro le accuse a suo carico mosse dalla
Filomena (la quale ha affermato che fu proprio il Navarretto ad assisterla nel
parto) nonché a buttare nel pozzo la
neonata bensì anche contro le affermazioni della teste Ricciardi la quale si
accorse di ripetuti congressi carnali verificatisi fra i due imputati ed infine
non trova certo sostegno del fallimento del proposto alibi”.
“È probabile e verosimile - conclusero gli inquirenti - però che la parte avuta nel fatto dal
Navarretto sia da limitarsi ad una cooperazione materiale o soltanto morale
nella soppressione del neonato e da quella dell’occultamento del cadavere. Non
è possibile difatti ammettere che lo stesso giovane celibe avesse esperienza
atta a prestare assistenza ad una prima ad una donna durante il parto. L’assistenza
alla figliola dovette essere stata
invece dalla Cristina, donna anziana ed
esperta personalmente in eventi del genere e la stessa unitamente al Navarretto
dovette sopprimere la neonata applicando una mano sul collo della stessa non
appena questa aveva iniziati i primi
atti respiratori dovette emettere anche qualche vagito provocando così lo
strozzamento. Gli imputati avendo
cagionato la morte della neonata subito dopo il parto per salvare l’onore della
Filomeno devono rispondere dunque di infanticidio avendo occultato il
cadaverino buttandolo in un pozzo in località campestre, e vanno inviati
pertanto, nello stato di detenzione in cui si trovano, al giudizio della Corte
di Assise competente funzionalmente e territorialmente.
Fonte:
Archivio di Stato
Avv. Giuseppe Marrocco |
e il fidanzato
Filomena Nocera di anni 27, per l’infanticidio commesso il 5 maggio
del 1952, fu processata dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere
(Presidente, Giovanni Morfino:
giudice a latere, Victor Ugo De Donato;
pubblico ministero, Nicola Damiani;
giudici popolari: Francesco Trasacco,
Salvatore Fragnoli, Guglielmo Pensa, Nicola Prisco, Luigi D’Auria,
Nicola Della Peruta e Luigi Russo; cancelliere Domenico Aniello; ufficiali giudiziario,
Giuseppe Girardi) e condannata, con
la concessione del vizio parziale di mente, ad anni 4 di reclusione. La sorella
Cristina e il fidanzato Stefano Navarretto, di anni 24 da Alvignano, vennero
assolti dal concorso in infanticidio. Quando
fu interrogato in udienza la donna scagionò i presunti complici: la mamma, la
sorella e il fidanzato. Dichiarò, su precisa domanda del Presidente: “Faccio presente che col momento in cui
partorii ero sola in casa in quanto mia madre era nella masseria di Giovannina Cirelli, mia sorella Angelina era in montagna e quindi
io ero solo. In casa c’era soltanto il mio fidanzato Stefano Navarretto il quale mancava da casa da parecchi giorni.
Appena mi venne fuori quella cosa, che io non notai subito, la tolsi
immediatamente dalla mutandina e subito mi portai sul fondo di Giuseppe Italiano, che dista da casa
mia non più di cinque minuti di cammino e buttai l'involucro nel pozzo di cui
conoscevo la esistenza. Non ricordo se il pozzo fosse coperto da tavole. Mia
madre non sapeva neppure nella mia gravidanza in quanto il dottor Antonio d'Amore alle due visite
passatemi alla presenza di mia madre non parlò di gravidanza bensì di malattie
dell'ovaia. Faccio presente inoltre che io aveva un addome molto piccolo e non si notava che io
ero incinta. Aggiungo che una sola volta
mi sono congiunto carnalmente con il mio
fidanzato in un giorno che eravamo soli ed in casa mia”. Nel
processo furono impegnati gli avvocati Ciro
Maffuccini, Giuseppe Marrocco e Amedeo Bolognese.
Fonte. Archivio di Stato
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