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domenica 13 marzo 2016


STRANGOLO’  LA FIGLIOLETTA APPENA NATA  E LO GETTO’ IN UN POZZO


Credeva che con il delitto avrebbe potuto salvare il proprio onore.  Il cadaverino era stato avvolto in una mutandina con le iniziali dell’assassina. Accusò falsamente la madre e il fidanzato di complicità nel delitto.

 

           Il delitto avvenne ad Alvignano il 29 gennaio del 1952


 Alvignano -  Il 29 gennaio del 1952, nel fondo di tale Giuseppe Vitaliano, in agro di Alvignano, veniva rinvenuto, galleggiante sull’acqua, avvolto in una mutandina di donna recante le iniziali N.F.  il cadaverino di una neonata. In sede di vista esterna veniva accertato trattarsi di neonata di sesso femminile della lunghezza di cm 51 presentante caratteri   del tutto normali per un parto a termine con ancora il cordone ombelicale attaccato alla relativa placenta integra. Venivano notate sul corpicino della vittima chiazze chimotiche di forma oblunga, con tessuti mortificati leggermente addensati nella piega del corpo lato sinistro. In sede di autopsia veniva conclamata la prova decisiva.  Si riscontrano inoltre assenza di limpido nelle terapie e nei cavi pleurici a carico del collo e venivano trovate delle ecchimosi.  Si deduceva pertanto che il feto aveva respirato per pochissimo tempo con comprensione degli ambiti polmonare che l’ingrossamento a carico del collo era stata prodotta da mano omicida nonostante i vagiti della neonata.


I carabinieri iniziavano le indagini dirette alla identificazione dell’infanticidio.  A seguito di ricerche effettuate nell’anagrafe del Comune di Dragoni risultava il nominativo Filomena Nocera; F.N. erano, infatti,  le iniziali sulla mutandina. La ragazza risultava nubile. Effettuata perquisizione nella casa da questa abitata  si rinveniva della biancheria sporca di sangue. Interrogata affermava sulle prime trattarsi di sangue mestruale, ma in seguito a visita medica la quale diagnosticava in lei tutti i caratteri di donna che aveva di recente partorito, dopo aver tentato ancora  di tergiversare,  confessava di essersi due, tre  giorni prima partorita nello stanzino attiguo alla sua camera da letto all‘insaputa di sua madre e di sua sorella, con lei conviventi;  di avere nascosto il feto, avvolto nella mutanda in cui lo avevano trovato,  in un angolo nello stanzino.  Disse di averlo  poi di sera trasportato al pozzo dove l’aveva buttato ove era stato rinvenuto. Negava che altri avessero partecipato al fatto, assumeva essersi decisa all'‘infanticidio allo scopo di non far sapere a sua madre ed agli altri del suo disonore. La madre e della ragazza, a sua volta interrogata dai carabinieri, dichiarava di ignorare che sua figlia avesse partorito e finanche che fossi incinta. Che la medesima era fidanzato con Stefano Navarretta  escludendo però che questi potesse aver avuto dei rapporti carnali con la giovane. Il fidanzato, im sede di interrogatorio aveva pure negato di conoscere alcunché di quanto accaduto;  che la sua fidanzata fosse incinta asserendo anzi di non aver avuto con la medesima alcuna congiunzione carnale. Con il rapporto del 6 febbraio 1952, i carabinieri nel ritenere che nel fatto non ci  fosse correità da parte di altri e denunciarono la solo Filomena Nocera per il delitto di infanticidio. Costei nel formale interrogatorio dichiarava di essere rimasta incinta in seguito a congressi carnali avuti col suo fidanzato, ma di avere e creduto dapprima che si trattasse di un ritardo mestruale dovuta a disfunzione ovarica, secondo  la dichiarazione del dottor Antonio d’Amore di Piedimonte d'Alife. Nel corso dello stesso  interrogatorio, però,  contraddicendosi,  ammise di  essere a conoscenza del suo stato gravidico. Dal canto suo Cristina Nocera,  madre della Filomena, tratta in arresto in seguito ad emissione di mandato di cattura,  protestava la propria innocenza asserendo essere rimasto del tutto ignara sia della  gravidanza che del parto della figliola. 


Il Navarretto inteso come teste insisteva nel negare di aver avuto rapporti carnali con la fidanzata. Intanto Filomena Nocera – in sede di interrogatorio innanzi al Giudice Istruttore- modificando la versione dei fatti, accusava   di essere stata assistita durante il parto dal proprio fidanzato, il quale aveva preso la neonata, l’aveva avvolta in una mutandina portate via. Insistette nel ribadire che in precedenza aveva  dichiarato il falso;  insistette nell’affermare che sua madre era a conoscenza di tutto. Singolare e schiacciante fu deposizione  di Angelina Ricciardi,  vicina di casa della imputata, la quale dichiarava di aver visto attraverso un foro esistente nella porta fra le due abitazioni i due giovani congiungersi ripetutamente e tanto sosteneva anche in sede di confronto e pertanto veniva emesso mandato di cattura anche a carico del Navarretto il quale, tratto in arresto, nel corso del  formale interrogatorio si protestò  innocente, insistendo   nell’affermare di non aver avuto alcun rapporto carnale con la ragazza,   di cui ignoravano  lo stato di gravidanza ed assumeva che all’epoca del delitto che  si sarebbe trovato a lavorare come bracciante presso Vincenzo Coppola, in località “Cerro Cupo”. Anche in seguito ad un drammatico confronto i due restarono sulle proprie posizioni. Lei accusava la madre e il fidanzato. Loro si protestavano innocenti. L’alibi del giovane, però, non venne confermato dal suo datore di lavoro. Si accese una disputa sulle modalità della soppressione e sulle cause della morte della piccola.  “Nella fattispecie – fecero osservare i periti settori -  il cordone ombelicale era rimasto legato alla placenta ed erano anzi iniziati anche gli atti respiratori onde con essi per le accennate modificazioni del circolo sanguigno automaticamente la quantità di sangue circolante nei vasi ombelicali dovete diventare subito scarsa. La causa della morte della neonata non può essere pertanto dovuta a dissanguamento essa va asserita bensì alla compressione esercitata sul collo del feto da cui è prova del reperto autoptico”.


“Trattasi quindi di infanticidio doloso – conclamarono gli inquirenti – e non sussiste  poi alcun dubbio circa la colpevolezza di tutti i tre giudicabili. Non è di fatto verosimile che Filomena abbia potuto portare da sola innanzi la sua gravidanza fino al suo termine naturale, senza che la di lei madre convivente, che dormiva nello stesso letto, con la figlia ed il fidanzato se ne accorgessero, ma che avesse addirittura partorito nello stesso letto della sua casa senza che vi fosse stata alcuna assistenza da parte dei suoi familiari. Non senza ragione il giovane Navarretta nega di aver avuto congressi carnali con la Filomena e la madre Cristina di non essersi accorta che la figlia era incinta”.

“È da escludersi  - precisarono ancora gli inquirenti  - che Filomena s'era abbia potuto partorire da sola e che subito dopo il parto abbia potuto recarsi ad occultare il  cadaverino nella località campestre ove venne ritrovata in un pozzo.  E’ logico ed evidente che le protestate innocenze assumono sintomatica importanza ed inducono a ritenere che i cooperatori della Filomena  vadano ricercato innanzitutto tra coloro i quali potevano avere un interesse pari a quello della partoriente ad occultare l’accaduto, cioè nella Cristina  e nel Navaretto. La tesi difensiva del giovane cozza invero non solo contro le accuse a suo carico mosse dalla Filomena (la quale ha affermato che fu proprio il Navarretto ad assisterla nel parto)  nonché a buttare nel pozzo la neonata bensì anche contro le affermazioni della teste Ricciardi la quale si accorse di ripetuti congressi carnali verificatisi fra i due imputati ed infine non trova certo sostegno del fallimento del proposto alibi”.
 “È probabile e verosimile  - conclusero gli inquirenti  - però che la parte avuta nel fatto dal Navarretto sia da limitarsi ad una cooperazione materiale o soltanto morale nella soppressione del neonato e da quella dell’occultamento del cadavere. Non è possibile difatti ammettere che lo stesso giovane celibe avesse esperienza atta a prestare assistenza ad una prima ad una donna durante il parto. L’assistenza alla figliola dovette essere  stata invece dalla Cristina,  donna anziana ed esperta personalmente in eventi del genere e la stessa unitamente al Navarretto dovette sopprimere la neonata applicando una mano sul collo della stessa non appena questa  aveva iniziati i primi atti respiratori dovette emettere anche qualche vagito provocando così lo strozzamento.  Gli imputati avendo cagionato la morte della neonata subito dopo il parto per salvare l’onore della Filomeno devono rispondere dunque di infanticidio avendo occultato il cadaverino buttandolo in un pozzo in località campestre, e vanno inviati pertanto, nello stato di detenzione in cui si trovano, al giudizio della Corte di Assise competente funzionalmente e  territorialmente.
Fonte: Archivio di Stato
Avv. Giuseppe Marrocco


 La condanna fu a 4 anni. Assolti la sorella
 e il fidanzato



Filomena Nocera di anni 27, per l’infanticidio commesso il 5 maggio del 1952, fu processata dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Giovanni Morfino: giudice a latere, Victor Ugo De Donato; pubblico ministero, Nicola Damiani; giudici popolari: Francesco Trasacco, Salvatore Fragnoli, Guglielmo Pensa, Nicola Prisco, Luigi D’Auria, Nicola Della Peruta e Luigi Russo; cancelliere Domenico Aniello; ufficiali giudiziario, Giuseppe Girardi) e condannata, con la concessione del vizio parziale di mente, ad anni 4 di reclusione. La sorella Cristina e il fidanzato Stefano Navarretto, di anni 24 da Alvignano, vennero assolti dal concorso in infanticidio.  Quando fu interrogato in udienza la donna scagionò i presunti complici: la mamma, la sorella e il fidanzato. Dichiarò, su precisa domanda del Presidente: Faccio presente che col momento in cui partorii ero sola in casa in quanto mia madre era nella masseria di Giovannina Cirelli,  mia sorella Angelina era in montagna e quindi io ero solo. In casa c’era soltanto il mio fidanzato Stefano Navarretto il quale mancava da casa da parecchi giorni. Appena mi venne fuori quella cosa, che io non notai subito, la tolsi immediatamente dalla mutandina e subito mi portai sul fondo di Giuseppe Italiano, che dista da casa mia non più di cinque minuti di cammino e buttai l'involucro nel pozzo di cui conoscevo la esistenza. Non ricordo se il pozzo fosse coperto da tavole. Mia madre non sapeva neppure nella mia gravidanza in quanto il dottor Antonio d'Amore alle due visite passatemi alla presenza di mia madre non parlò di gravidanza bensì di malattie dell'ovaia. Faccio presente inoltre che io aveva  un addome molto piccolo e non si notava che io ero incinta.  Aggiungo che una sola volta mi sono congiunto carnalmente con  il mio fidanzato in un  giorno  che eravamo soli ed in casa mia”.   Nel processo furono impegnati gli avvocati Ciro Maffuccini, Giuseppe Marrocco e Amedeo Bolognese.

Fonte. Archivio di Stato 

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