Il delitto accadde a
Lusciano il
10 febbraio del 1952
LUCIANO DI DONA
UCCISE
ARMANDO RUSSO
fratello
della sua fidanzata
che
ostacolava le nozze
Il luogo del delitto |
Lusciano
– Verso
le ore 21,30 del 10 febbraio del 1952, i
carabinieri della stazione di Lusciano, venivano a conoscenza che in via Costanzo era venuto un grave fatto di sangue. Portatesi
prontamente sul luogo trovarono davanti allo stabile segnato con il civico 5,
ove abitava la famiglia Russo una folla di persone. Dalle indagini prontamente
eseguite fu possibile ricostruire i fatti come segue: Luciano Di Dona, fidanzato ufficialmente con Elena Russo, della quale frequentava la casa, era stato poi
allontanato perché in paese si era sparsa ed aveva poi presa consistenza la
voce che esso Di Dona aveva avuto rapporti intimi con la sua precedente
fidanzata, Francesca Costanzo. Intanto
il fratello maggiore della ragazza Armando
Russo, seriamente preoccupato del fallo commesso dal Di Dona, la credette
suo dovere imporre a costui di “lasciare
la sorella e di non frequentare più la sua casa” fino a quando non avesse
chiarito la sua posizione nei confronti della Costanzo. Sebbene a malincuore il
Di Dona, sembrò ubbidire allo invito del Russo ma, furtivamente, si mise
d’accordo con la Elena Russo, e con il compiacente assenso di una zia di questa
ultima Teresa Russo, i due giovani, all’insaputa del fratello,
solevano incontrarsi nella casa della Teresa. Uno di tali convegni era avvenuto
quella domenica mentre Armando Russo e la moglie avrebbero dovuto intervenire
ad un battesimo in casa del fratello di costui. Senonché il Russo, avendo
scoperto l’inganno ritirandosi a casa,
in preda ad un giusto risentimento sulla condotta della sorella prese ad infierire contro costei alla quale diede
alcuni ceffoni. Si frappose l’altra sorella Maria Russo ma Armando,
per liberarsi di lei, le sferrò un pugno e con un corpo contundente le produsse
una piccola lesione alla testa. Mentre l’Armando era alle prese con la
moglie, Elena approfittandone se n’era
scappata via riparando nella vicina casa di un’amica Teresa Truosolo. Il fratello, notata la presenza dell’Elena, uscì subito dalla casa per cercare la moglie,
la quale, per paura che perquisizione di nuovo la sorella pregò tale Amedeo
d’Alessandro, di seguire il marito ed d’Alessandro infatti seguì il Russo.
I due procedevano di poco distanziati l’uno dall’altro quando in fondo alla via
avevano svoltato a sinistra da dietro un
muro il d’Alessandro vide sbucare una persone che non riuscì a riconoscere.
Avv. Prof. Alberto Martucci |
Il Russo, narra il
D’Alessandro, dovette invece riconoscere quella persona perché deviò dal suo
cammino, dirigendosi verso di essa. Giunto a pochi passi, aveva detto: “Tu sei ancora qua?”. Risposta: “Sì,
ancora qua perché? e metti giù la pistola”… ma l’altro per tutta
risposta aveva fatto fuoco esplodendo quattro colpi in successione che fecero
afflosciare il povero giovane, dandosi poi alla fuga.
Questa la scena,
rapida e tragica, narrata da dal d’Alessandro, unico testimone oculare.
Egli in una deposizione successiva chiarì che si era avvicinato al Di Dona
invocando che non “sparasse”; ricevendo una risposta negativa e rammaricandosi
che non era riuscito a disarmarlo, poi sollevò la vittima da terra che chiedeva
soccorso e incominciò a gridare: “ Aiuto!…
aiuto!”.. Accorsero sul posto Aurelio Truosolo e Pasquale
Menditto che sollevarono il ferito trasportandolo all’ospedale di Aversa. Anche costoro fecero il nome di Di Dona quale feritore. Sul posto del delitto né sulla persona del
ferito fu trovata alcuna arma. Il
d’Alessandro raccontò che il Russo, non portava in mano né pistola né alcun altra
cosa. All’ospedale, ancora una volta il Russo – quasi moribondo - confermò l’accusa contro il Di Dona.
Il
ferito ricevuto le cure urgenti fu - su richiesta dei congiunti - trasportato a casa avendo la diagnosi parlato
di “imminente pericolo di vita”.
Difatti giunto a casa il Russo cessò di vivere senza poter rendere alcun
altra dichiarazione. Il Di Dona, dopo tre giorni di latitanza, si costituì a
carabinieri di Trentola. Interrogato fornì questa versione dei fatti adombrando
una aggressione ed una conseguente legittima difesa. Come avveniva da qualche tempo, la domenica si
era incontrato con Elena Russo in
casa di Teresa Russo trattenendosi fino alle 19,00; aveva poi sostato nella sede della Democrazia
Cristiana, fino alle 21, indi si era recato alla fermata del filobus per
tornare al suo paese. Avendo notato che i filobus erano immobili e c’erano dei
ritardi notevoli, per non perdere tempo in attesa del mezzo, aveva deciso di
proseguire a piedi. Si era appena avviato quando improvvisamente sentì gridare
alla sue spalle: ”Armando fermati, non ti
mettere nei guai, hai una famiglia”; ed
un’altra persona rispondere: “Dove lo
trovo quel disgraziato lo debbo ammazzare”; dopo queste parole, ebbe appena il tempo di girarsi
per rendersi conto di chi aveva
pronunciato le frasi che si sentì afferrare alla gola una persona sopraggiunta
e che prima a prima vista non riconobbe. Mentre con la mano destra lo
sconosciuto lo stringeva la gola, con la sinistra gli punta una pistola nel
basso ventre. Egli ebbe chiara la sensazione che la pressione esercitata nel
basso ventre proveniva dalla pistola, tant’è che istintivamente con la mano
sinistra tentò di spostare l’arma letteralmente, per evitare di essere colpito.
Tutto ciò avveniva mentre aggressore gli ripeteva: “Disgraziato ti devo uccidere”.
Avv. Giuseppe Garofalo |
Finalmente riconobbe in Armando Russo e una ulteriore conferma
che si trattasse di lui la ebbe dagli abiti
che lo stesso indossava e dall’altezza della sua persona. Avvertì nel frattempo
lo scatto dell’arma che azionata aveva fatto cilecca e non era partito il colpo
tanto più che l’aggressore, lasciata la presa, liberata la destra, tentava di
introdurre un altro colpo in canna, estratto dalla tasca del cappotto la
propria pistola calibro nove fece fuoco a bruciapelo esplodendo contro
l’avversario quattro colpi consecutivi. Visto che il Russo si abbatteva al
suolo scappò via per la campagna dove rimase nascosto fino al giorno della sua
spontanea costituzione. In merito ai precedenti
rapporti con la famiglia del Russo narrò che Armando Russo - a differenza degli altri famigliari - era favorevole al suo fidanzamento con la
sorella Elena. Successivamente e precisamente il 2 novembre del precedente
anno, il Russo modificò il suo atteggiamento scacciandolo senza alcun motivo
dalla casa imponendogli di non farsi vedere più. In quell’occasione
intervennero in suo favore le sorelle dell’Armando. Successivamente tre o quattro giorni dopo la
scenata di violenza l’Armando impose alla sorella Elena di restituire al Di
Dona i regali da costui ricevuti, ma costei non si piegò alla ingiunzione
fraterna e apertamente ebbe a dichiarare che “se non avesse sposato il suo amore
avrebbe fatto una brutta fine. Paventando un probabile suicidio. Di fronte alla risolutezza della sorella l’Armando
si appartò e non volle più fare vita in comune con l’altro fratello Angeloantonio e con le sorelle. In
seguito a tali avvenimenti il Di Dona si allontanò dalla casa della fidanzata e
col consenso del fratello maggiore e della sorella, si incontrava con la Elena
in casa di una zia di costei soprannominata “strappatora”,
ovvero Teresa Russo. Aggiungendo che
il Di Dona - a suo parere - la causa della quale Armando Russo ostacolava i
suoi rapporti amorosi con la Elena era tutto di natura economica in quanto non voleva
dare la sorella la somma di Lire. 1.650.000 spettante quale sua quota
ereditaria. Confermò poi al giudice nel corso di un ulteriore interrogatorio
che il Russo faceva andare malvestita la sorella tanto era vero che gli aveva
dovuto dare del denaro alla fidanzata perché si comprasse un abito e un
cappotto.
Avv. Prof. Giovanni Leone |
Volle precisare, inoltre, che
l’Armando, la sera del delitto, impugnava una pistola di marca tedesca come
egli in altri tempi aveva avuto occasione di constatare; che l’arma stessa non
era stata trovata perché qualche
interessato l’aveva fatta sparire. Posto
a confronto con d’Alessandro costui lo smentiva recisamente. La vedova e gli
altri congiunti del Russo - dal canto
loro - concordemente dichiararono che questi alla morte del padre e della madre
(vittime di un bombardamento aereo)
aveva amministrato i loro beni con soddisfazione comune senza far mancare nulla neppure per l’abbigliamento
personale. Che l’accusa mossa per il possesso di una pistola era falsa in quanto vi era in casa soltanto un fucile del loro
defunto genitore. Sulla base di tali risultanze processuali Di Dona venne rinviato
a giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere per rispondere di
omicidio volontario.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta
LA CONDANNA FU AD ANNI 18 DI RECLUSIONE, RIDOTTA IN APPELLO
CON LA CONCESSIONE DEL BENEFICIO DELLA PROVOCAZIONE AD ANNI 14.
La sentenza della Corte di
Appello di Napoli, del maggio 1956, in riforma di quella della Corte di Assise
di Santa Maria Capua Vetere ( Presidente, Giovanni
Morfino; giudice a latere, Victor
Ugo De Donato; pubblico ministero, Nicola
Damiani; cancelliere, Domenico
Aniello; ufficiale giudiziario, Giuseppe
Giardi) del 30 giugno 1954, con la quale l’imputato Luciano Di Dona, che aveva ucciso il fidanzato della sorella Elena,
Armando Russo, era stato condannato
ad anni 18 di reclusione, ridusse la pena, con la concessione del beneficio
della provocazione ad anni 14. Nel giudizio di primo grado la difesa
dell’imputato aveva invocato la legittima difesa, disattesa, però, dai giudici.
La Corte di Assise di Appello di Napoli chiari che “Innanzitutto è necessario muovere da un punto fermo che del resto
non è stato neppure contestato dalla stessa difesa. Il Russo è uscito di casa
dopo la lite con la sorella Maria andava in cerca dell’altra sorella della
Elena e soltanto di questa. Egli non pensava più a Di Donna, ignorava
completamente la sua presenza, non la sospettava neppure. Questa verità trova
la immediata conferma nel fatto che egli, come suo primo passo, si fermò davanti
alla casa di Teresa nella quale voleva entrare, appunto perché persuaso (ed era
in ciò nel vero) che la Elena si fossi ivi rifugiata.
Ma poiché la Truosolo, che
voleva evitare l’incontro del fratello con la sorella, si fece subito all’uscio
della casa più decisamente mentendo, con l’affermare che l’Elena non c’era, si
allontanò, avviandosi per raggiungere la casa della zia Teresa Russo, dove,
incontrò la sorella. E che al pari del Russo neppure Nunzia Amarillo moglie di
costui e lo stesso teste d’Alessandro pensasse neppure più a Di Dona c’è la
conferma quanto il d’Alessandro ebbe a dichiarare in dibattimento”. “Sì anche
sostenuto – conclusero i giudici di appello, nella loro motivazione della
sentenza - che in ogni caso dovrebbe
ravvisarsi la legittima difesa putativa. Ma di legittima difesa putativa
potrebbe parlarsi, se vi fosse stato un atto, un gesto, un atteggiamento che
avesse potuto far sorgere nell’animo del Di Dona il ragionevole dubbio dell’esistenza di un
imminente pericolo, per quanto è insistente, ma giustificato dall’altro il
comportamento.
Avv. Prof. Alfredo De Marsico |
Qui manca del tutto questo necessario presupposto, giacché non
basta che un presunto avversario si avvicini a noi per sparargli addosso ed
ucciderlo, tanto più quando l’avversario è palesemente disarmato, mentre noi
siamo in possesso di una pistola, che può sempre proteggerci nel caso in cui il
nostro avversario accenni a passare a vie di fatto. Si deve in conseguenza
escludere che il Di Dona si è trovato nella necessità di respingere con la
violenza un pericolo attuale che lo sovrastava, per cui non ricorre lo stato di
legittima difesa reale o putativa. Restando questa esclusa non è più
ipotizzabile l’eccesso colposo”.
La Cassazione confermò in toto il giudicato di secondo grado. Nel processo
furono impegnati – nei tre gradi di giudizio -
gli avvocati: Carmine Gentile,
Giuseppe Garofalo, Alfredo De Marsico, Alberto Martucci e Giovanni Leone.
Fonte: Archivio di Stato di
Caserta
Nessun commento:
Posta un commento