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domenica 15 maggio 2016




Il delitto accadde a Lusciano il 
10  febbraio del 1952

LUCIANO DI DONA
 UCCISE 
ARMANDO RUSSO 
 fratello  della sua fidanzata 
che  ostacolava le nozze  

Il luogo del delitto 



Lusciano – Verso le ore 21,30 del 10 febbraio del 1952, i carabinieri della stazione di Lusciano, venivano a conoscenza che in via Costanzo   era venuto un grave fatto di sangue. Portatesi prontamente sul luogo trovarono davanti allo stabile segnato con il civico 5, ove abitava la famiglia Russo una folla di persone. Dalle indagini prontamente eseguite fu possibile ricostruire i fatti come segue: Luciano Di Dona, fidanzato ufficialmente con Elena Russo, della quale frequentava la casa, era stato poi allontanato perché in paese si era sparsa ed aveva poi presa consistenza la voce che esso Di Dona aveva avuto rapporti intimi con la sua precedente fidanzata, Francesca Costanzo. Intanto il fratello maggiore della ragazza Armando Russo, seriamente preoccupato del fallo commesso dal Di Dona, la credette suo dovere imporre a costui di “lasciare la sorella e di non frequentare più la sua casa” fino a quando non avesse chiarito la sua posizione nei confronti della Costanzo. Sebbene a malincuore il Di Dona, sembrò ubbidire allo invito del Russo ma, furtivamente, si mise d’accordo con la Elena Russo, e con il compiacente assenso di una zia di questa ultima Teresa Russo,  i due giovani, all’insaputa del fratello, solevano incontrarsi nella casa della Teresa. Uno di tali convegni era avvenuto quella domenica mentre Armando Russo e la moglie avrebbero dovuto intervenire ad un battesimo in casa del fratello di costui. Senonché il Russo, avendo scoperto l’inganno ritirandosi  a casa, in preda ad un giusto risentimento sulla condotta della sorella prese ad  infierire contro costei alla quale diede alcuni ceffoni. Si frappose l’altra sorella Maria Russo ma Armando, per liberarsi di lei, le sferrò un pugno e con un corpo contundente le produsse una piccola lesione alla testa. Mentre l’Armando era alle prese con la moglie,  Elena approfittandone se n’era scappata via riparando nella vicina casa di un’amica Teresa Truosolo. Il fratello, notata la presenza dell’Elena,  uscì subito dalla casa per cercare la moglie, la quale, per paura che perquisizione di nuovo la sorella pregò  tale Amedeo d’Alessandro, di seguire il marito ed d’Alessandro infatti seguì il Russo. I due procedevano di poco distanziati l’uno dall’altro quando in fondo alla via avevano svoltato a sinistra  da dietro un muro il d’Alessandro vide sbucare una persone che non  riuscì a riconoscere. 

Avv. Prof. Alberto Martucci 
Il Russo, narra il D’Alessandro, dovette invece riconoscere quella persona perché deviò dal suo cammino, dirigendosi verso di essa. Giunto a pochi passi, aveva detto: “Tu sei ancora qua?”. Risposta: “Sì,  ancora qua perché? e metti giù la pistola”… ma l’altro per tutta risposta aveva fatto fuoco esplodendo quattro colpi in successione che fecero afflosciare il povero giovane, dandosi poi alla fuga. Questa  la scena, rapida e tragica,  narrata da  dal d’Alessandro, unico testimone oculare. Egli in una deposizione successiva chiarì che si era avvicinato al Di Dona invocando che non “sparasse”; ricevendo una risposta negativa e rammaricandosi che non era riuscito a disarmarlo, poi sollevò la vittima da terra che chiedeva soccorso e incominciò a gridare: “ Aiuto!… aiuto!”..  Accorsero sul posto Aurelio Truosolo  e Pasquale Menditto che sollevarono il ferito trasportandolo all’ospedale  di Aversa. Anche  costoro fecero il nome di Di Dona quale feritore.  Sul posto del delitto né sulla persona del ferito fu trovata alcuna arma. Il  d’Alessandro raccontò che il Russo,  non portava in mano né pistola né alcun altra cosa. All’ospedale, ancora una volta il Russo – quasi moribondo -  confermò l’accusa contro il Di Dona. 



Il ferito ricevuto le cure urgenti fu - su richiesta dei congiunti -  trasportato a casa avendo la diagnosi parlato di “imminente pericolo di vita”.   Difatti giunto a casa il Russo cessò di vivere senza poter rendere alcun altra dichiarazione. Il Di Dona, dopo tre giorni di latitanza, si costituì a carabinieri di Trentola. Interrogato fornì questa versione dei fatti adombrando una aggressione ed una conseguente legittima difesa.  Come avveniva da qualche tempo, la domenica si era incontrato con Elena Russo in casa di Teresa Russo  trattenendosi fino alle 19,00;  aveva poi sostato nella sede della Democrazia Cristiana, fino alle 21, indi si era recato alla fermata del filobus per tornare al suo paese. Avendo notato che i filobus erano immobili e c’erano dei ritardi notevoli, per non perdere tempo in attesa del mezzo, aveva deciso di proseguire a piedi. Si era appena avviato quando improvvisamente sentì gridare alla sue spalle: ”Armando fermati, non ti mettere nei guai, hai una famiglia”;  ed un’altra persona rispondere: “Dove lo trovo quel disgraziato lo debbo ammazzare”;  dopo queste parole, ebbe appena il tempo di girarsi per rendersi conto di chi  aveva pronunciato le frasi che si sentì afferrare alla gola una persona sopraggiunta e che prima a prima vista non riconobbe. Mentre con la mano destra lo sconosciuto lo stringeva la gola, con la sinistra gli punta una pistola nel basso ventre. Egli ebbe chiara la sensazione che la pressione esercitata nel basso ventre proveniva dalla pistola, tant’è che istintivamente con la mano sinistra tentò di spostare l’arma letteralmente, per evitare di essere colpito. Tutto ciò avveniva mentre aggressore gli ripeteva: “Disgraziato ti devo uccidere”. 
Avv. Giuseppe Garofalo 


Finalmente riconobbe in Armando Russo e una ulteriore conferma che si trattasse di lui la ebbe  dagli abiti che lo stesso indossava e dall’altezza della sua persona. Avvertì nel frattempo lo scatto dell’arma che azionata aveva fatto cilecca e non era partito il colpo tanto più che l’aggressore, lasciata la presa, liberata la destra, tentava di introdurre un altro colpo in canna, estratto dalla tasca del cappotto la propria pistola calibro nove fece fuoco a bruciapelo esplodendo contro l’avversario quattro colpi consecutivi. Visto che il Russo si abbatteva al suolo scappò via per la campagna dove rimase nascosto fino al giorno della sua spontanea costituzione. In merito ai precedenti  rapporti con la famiglia del Russo narrò che Armando Russo  - a differenza degli altri famigliari  - era favorevole al suo fidanzamento con la sorella Elena. Successivamente e precisamente il 2 novembre del precedente anno, il Russo modificò il suo atteggiamento scacciandolo senza alcun motivo dalla casa imponendogli di non farsi vedere più. In quell’occasione intervennero in suo favore le sorelle dell’Armando.  Successivamente tre o quattro giorni dopo la scenata di violenza l’Armando impose alla sorella Elena di restituire al Di Dona i regali da costui ricevuti, ma costei non si piegò alla ingiunzione fraterna e apertamente ebbe a dichiarare che “se non avesse sposato il suo amore avrebbe fatto una brutta fine. Paventando un probabile suicidio.  Di fronte alla risolutezza della sorella l’Armando si appartò e non volle più fare vita in comune con l’altro fratello Angeloantonio e con le sorelle. In seguito a tali avvenimenti il Di Dona si allontanò dalla casa della fidanzata e col consenso del fratello maggiore e della sorella, si incontrava con la Elena in casa di una zia di costei soprannominata “strappatora”, ovvero Teresa Russo. Aggiungendo che il Di Dona -  a suo parere -  la causa della quale Armando Russo ostacolava  i suoi rapporti amorosi con la Elena era tutto di natura economica in quanto non voleva dare la sorella la somma di Lire. 1.650.000 spettante quale sua quota ereditaria. Confermò poi al giudice nel corso di un ulteriore interrogatorio che il Russo faceva andare malvestita la sorella tanto era vero che gli aveva dovuto dare del denaro alla fidanzata perché si comprasse un abito e un cappotto.  

Avv. Prof. Giovanni Leone
Volle precisare, inoltre, che l’Armando, la sera del delitto, impugnava una pistola di marca tedesca come egli in altri tempi aveva avuto occasione di constatare; che l’arma stessa non era stata trovata perché  qualche interessato l’aveva  fatta sparire. Posto a confronto con d’Alessandro costui lo smentiva recisamente. La vedova e gli altri congiunti del Russo  - dal canto loro - concordemente dichiararono che questi alla morte del padre e della madre  (vittime di un bombardamento aereo) aveva amministrato i loro beni con soddisfazione  comune senza far mancare nulla neppure per l’abbigliamento personale.  Che l’accusa mossa per il  possesso di una pistola era falsa in quanto  vi era in casa soltanto un fucile del loro defunto genitore. Sulla base di tali risultanze processuali Di Dona venne rinviato a giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere per rispondere di omicidio volontario.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta




  


LA CONDANNA FU  AD ANNI 18 DI RECLUSIONE, RIDOTTA IN APPELLO CON LA CONCESSIONE DEL BENEFICIO DELLA PROVOCAZIONE  AD ANNI 14.



La sentenza della Corte di Appello di Napoli, del maggio 1956, in riforma di quella della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere ( Presidente, Giovanni Morfino; giudice a latere, Victor Ugo De Donato; pubblico ministero, Nicola Damiani; cancelliere, Domenico Aniello; ufficiale giudiziario, Giuseppe Giardi) del 30 giugno 1954, con la quale l’imputato Luciano Di Dona, che aveva ucciso il fidanzato della sorella Elena, Armando Russo, era stato condannato ad anni 18 di reclusione, ridusse la pena, con la concessione del beneficio della provocazione ad anni 14. Nel giudizio di primo grado la difesa dell’imputato aveva invocato la legittima difesa, disattesa, però, dai giudici. La Corte di Assise di Appello di Napoli chiari che “Innanzitutto è necessario muovere da un punto fermo che del resto non è stato neppure contestato dalla stessa difesa. Il Russo è uscito di casa dopo la lite con la sorella Maria andava in cerca dell’altra sorella della Elena e soltanto di questa. Egli non pensava più a Di Donna, ignorava completamente la sua presenza, non la sospettava neppure. Questa verità trova la immediata conferma nel fatto che egli, come suo primo passo, si fermò davanti alla casa di Teresa nella quale voleva entrare, appunto perché persuaso (ed era in ciò nel vero) che la Elena si fossi ivi rifugiata. 


Ma poiché la Truosolo, che voleva evitare l’incontro del fratello con la sorella, si fece subito all’uscio della casa più decisamente mentendo, con l’affermare che l’Elena non c’era, si allontanò, avviandosi per raggiungere la casa della zia Teresa Russo, dove, incontrò la sorella. E che al pari del Russo neppure Nunzia Amarillo moglie di costui e lo stesso teste d’Alessandro pensasse neppure più a Di Dona c’è la conferma quanto il d’Alessandro ebbe a dichiarare in dibattimento”. “Sì anche sostenuto – conclusero i giudici di appello, nella loro motivazione della sentenza -  che in ogni caso dovrebbe ravvisarsi la legittima difesa putativa. Ma di legittima difesa putativa potrebbe parlarsi, se vi fosse stato un atto, un gesto, un atteggiamento che avesse potuto far sorgere nell’animo del Di Dona  il ragionevole dubbio dell’esistenza di un imminente pericolo, per quanto è insistente, ma giustificato dall’altro il comportamento. 

Avv. Prof. Alfredo De Marsico 
Qui manca del tutto questo necessario presupposto, giacché non basta che un presunto avversario si avvicini a noi per sparargli addosso ed ucciderlo, tanto più quando l’avversario è palesemente disarmato, mentre noi siamo in possesso di una pistola, che può sempre proteggerci nel caso in cui il nostro avversario accenni a passare a vie di fatto. Si deve in conseguenza escludere che il Di Dona si è trovato nella necessità di respingere con la violenza un pericolo attuale che lo sovrastava, per cui non ricorre lo stato di legittima difesa reale o putativa. Restando questa esclusa non è più ipotizzabile l’eccesso colposo”. La Cassazione confermò in toto il giudicato di secondo grado. Nel processo furono impegnati – nei tre gradi di giudizio -  gli avvocati: Carmine Gentile, Giuseppe Garofalo, Alfredo De Marsico, Alberto Martucci e Giovanni Leone.

Fonte: Archivio di Stato di Caserta



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