a cura di Giulia Merlo
Il Dubbio, 11 giugno 2016
"Il processo mediatico è da
stigmatizzare, ma si può combattere solo se le professioni si
autodisciplinano", e ancora "tutelare la professione di avvocato
significa tutelare le libertà fondamentali dei cittadini".
Esordisce così, il Ministro della
Giustizia Andrea Orlando, intervistato dagli avvocati nella cornice delle
celebrazioni del Cinquantenario dell'Aiga, l'associazione italiana giovani
avvocati. Nell'inedita veste giornalistica, il presidente del Consiglio
Nazionale Forense Andrea Mascherin, il quale ha affrontato con il ministro i
temi all'ordine del giorno nel dibattito pubblico sulle professioni.
Come si inserisce la figura
dell'avvocato nella tensione sociale tra economia e tutela dei diritti dei
cittadini?
"Gli avvocati hanno sperimentato
sulla loro pelle l'infondatezza del paradigma liberale secondo cui i processi
di integrazione dei mercati creano più ricchezza per tutti. Il brusco
risveglio si è avuto con la crisi, che ha dimostrato come i mercati non
rispondano agli interessi sociali e anzi, abbiano trovato un equilibrio
comprimendo l'idea stessa di cittadinanza e diritto. Così, i diritti civili
sono diventati un lusso e l'idea stessa di democrazia è stata messa in crisi.
L'avvocatura, in questo nuovo panorama, rischia di venire assimilata a tutte
le altre professioni che forniscono servizi e dunque di cadere in una logica
unicamente economica. Questo processo va interrotto, ma la strada non è
quella del corporativismo. Serve una nuova via, fatta di apertura e di integrazione
positiva anche con il mercato".
Quale ruolo sociale può allora giocare
il professionista, in questo panorama così difficile?
"L'avvocato è presidio delle
libertà fondamentali e tutelare la professione significa tutelare queste
libertà. Però è necessario che la categoria assuma in pieno il suo ruolo di
classe dirigente del Paese, non dicendo solo no e chiudendosi nel
corporativismo, ma dicendo anche qualche sì ai cambiamenti. Alcune forme di
evoluzione sono necessarie e non più rinviabili, come ad esempio le
specializzazioni, altrimenti ci si autocondanna all'irrilevanza. In questa
direzione è andato anche il mio intervento di accelerazione per
l'approvazione della riforma forense".
Lei come Ministro ha scelto la strada di
restituire un ruolo tecnico alla figura dell'avvocato, soprattutto per quanto
riguarda i meccanismi deflattivi. È questa una delle strade per combattere la
crisi della giurisdizione?
"Premetto che il numero degli
avvocati non c'entra nulla con la crisi della giurisdizione, nè si può pensare
di ridurlo con un decreto. È necessario invece un cambio mentale, in cui gli
avvocati non stanno solo in tribunale e davanti a un giudice ma diventano
soggetti che ricompongono ex ante i conflitti, attraverso strumenti
deflattivi come la mediazione e la negoziazione assistita. Una risposta è
anche il processo civile telematico, che è stato immediatamente appoggiato
dall'avvocatura giovane perché ne intuiva i risvolti professionali di
riequilibrio generazionale. Come Ministro, ho intenzione di proporre un ruolo
pieno degli avvocati all'interno dei consigli giudiziari, ma deve essere
sfruttato per creare meccanismi virtuosi di miglioramento della governance.
Abbiamo misurato le performance dei tribunali italiani e io ho personalmente
visitato i 10 peggiori d'Italia. Quello che ho riscontrato è che in sei non
esiste alcuna carenza di personale amministrativo. È evidente dunque che
manca organizzazione, e questo vale da nord a sud. La Sicilia, per esempio, è
divisa in due: metà tribunali hanno risultati tra i migliori d'Italia e metà
tra i peggiori. L'obiettivo oggi del ministero è di efficientare
l'organizzazione, creare un turnover della magistratura e riscrivere un
ordinamento che sia meno in funzione dei magistrati e più nell'interesse
complessivo".
I processi oggi sembrano farli i
criminologi nelle televisioni, e di questo parte della responsabilità è anche
dell'avvocatura, ma siamo arrivati alla giuria popolare che condanna come nel
far west. Si tratta però di una battaglia culturale che devono combattere
avvocatura, magistratura e Ministero. Come si affronta?
"È un fenomeno inquietante che va
contrastato. Non penso lo si possa fare attraverso una legge, perché usare la
norma per disciplinare l'esercizio della libertà di espressione potrebbe
provocare danni ancora maggiori. Possono operare e far rispettare i principi
deontologici solo i soggetti interessati, come gli avvocati e i giornalisti.
Sono contrario a introdurre sanzioni per i giornalisti per comportamenti che
ledono i diritti di terzi, però vorrei che la professione mettesse più forza
nell'indignarsi di fronte a questi processi distorti. Questi fenomeni sono il
frutto di una domanda dell'opinione pubblica, che detta i tempi e non vuol
sapere chi è il colpevole, ma vuole un colpevole. Solo le professioni stesse
possono mettere un freno a questa giustizia sommaria, attraverso i loro
principi di autoregolamentazione e la deontologia professionale".
Come si comporterà il Ministero,
rispetto alla sentenza del Tar che censura il decreto sulle specializzazioni?
"Il Ministero impugnerà la sentenza
del Tar, perché è ingiustificata e inaccettabile. La sentenza contesta il
criterio con cui sono individuate le branche di specializzazione, ma si
tratta di una scelta che rientra nella discrezionalità politica. Inoltre, nel
decreto è prevista revisione periodica delle specializzazioni, in modo da
poter partire e poi rivedere ex post in base alla sperimentazione".
Il legislatore è spesso condizionato
dall'esigenza di consenso popolare e non sempre punta all'equilibro
nell'ordinamento.
"Un politico che si disinteressa
del consenso è un imbecille, ma se non pensa anche all'equilibrio è un
mascalzone. Bisogna bilanciare entrambe, rispondendo anche alla domanda di
rassicurazione sociale, che esiste nel Paese. Però devo dire che il compito è
reso più arduo dal fatto che in pochi alimentano il dibattito culturale su
questi temi. Un diritto penale senza limiti certi produce impunità, ma per
far passare questo concetto bisogna intervenire nella società, con una
battaglia di tipo culturale. E un tema che mi sta molto a cuore e che, glielo
assicuro, non mi porterà certo più consenso, è quello del carcere. Ho dato il
mio contributo culturale promuovendo gli Stati generali sullo stato del
carcere. Ho sentito, infatti, il dovere di affermare il principio che una
persona rimane una persona, a prescindere dagli errori che ha commesso. In
questo lavoro, ho avuto tre alleati soprattutto: l'ex Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, Papa Francesco e Marco Pannella".
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domenica 12 giugno 2016
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