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domenica 29 gennaio 2017




Al centro la madre della piccola vittima ma già conosce la verità: la figlia è stata uccisa dal padre 


UCCISA A BOTTE DAL PADRE
LA  “CAPPUCCETTO ROSSO” DI MONDRAGONE
Maria Pellegrino, nonostante i suoi 12 anni era quasi donna...

Il delitto avvenne il  7 agosto del 1954 a Mondragone in località “Areviti” nella
“Masserietta” di proprietà dell’assassino


Il padre simulò il tutto imbavagliando la figlia per far credere ad una aggressione sessuale

Tra i primi sospettati un evaso dal manicomio che era transitato a piedi nella località. Un gruppo di agricoltori offrì al   sindaco dell’epoca avv. Francesco Beatrice, la somma  di un milione quale premio per la identificazione  dell’assassino.  Era andata a portare la minestra allo zio ma si addormentò nel bosco e per questo venne ammazzata a botte dal padre Luigi Pellegrino.  Questi alterò  la scena del crimine per simulare una violenza carnale.  Poi accusò ingiustamente (pur sapendoli innocenti )  i fratelli  Nunzio e Pasquale Fardella.  Condannato  chiese la revisione del processo protestandosi innocente  svelando gli autori di un assassinio che era rimasto ignoto.  Due carabinieri  sotto il tavolaccio della camera di sicurezza in cui erano ristrette le donne sospettate sentirono che la donna rimproverava la figlia per essersi lasciata convincere a confessare e la Savina prima rispose che aveva detto la verità e poi promise che non avrebbe più parlato.  Intanto il Pellegrino anche dopo la condanna, dal carcere di Sulmona,  dopo 8 anni dal delitto continuava, insomma, nel suo piano criminoso, ispirato al più “sfacciato mendacio”.  La Cassazione lo smentì per ben due volte negandogli la revisione del processo

Luigi Pellegrino, l'assassino 


Mondragone –    Alle ore 21,40 del 7 agosto  1954, il contadino Luigi Pellegrino, di anni 32, sposato e con una figlia, si presentò nella caserma dei carabinieri per denunciare, appunto, che la sua figliuola Maria, di anni 12 non era ancora rientrata in paese dalla contrada “Areviti” ove si era recata nel pomeriggio per governare alcuni animali in un fondicino di loro proprietà detto “Massarietta” e per recapitare della minestra al vecchio zio Davide Piglialarmi, che lavorava in un terreno pure sito nella zona. Precisò il Pellegrino che il Piglialarmi, tornato in paese verso le 20 non aveva saputo dare notizie della ragazza ed anzi aveva escluso perfino che la stessa gli avesse portata la minestra e,  pertanto, egli si era impensierito ed insieme alla moglie Filomena Sanfelice, ed al fratello Silvio era andato ad effettuare ricerche nella “Masserietta”. Dette ricerche erano risultate negative benché egli avesse avuto cura anche di scendere in due pozzi per ispezionarli. I carabinieri benché avessero notato che il denunziante indossava abiti che non presentavano tracce della discesa nei pozzi, che peraltro a suo dire sarebbe stata effettuata strisciando lungo le pareti, ed aveva un comportamento alquanto strano (per esempio esprimeva la convinzione che si trattasse di un delitto seppure appariva tranquillo e non insisteva affatto perché le ricerche da parte dell’Arma fossero iniziate ed anzi si dichiarava convinto che le ricerche notturne sarebbero rimaste vane), iniziarono le indagini alla mattina successiva. Nelle prime ore del 18 agosto peraltro pervenne in caserma la notizia che la Maria Pellegrino era stata trovata  dallo zio Silvio Pellegrino,  cadavere nel vigneto di tale Giovanni Caruso sito nella contrada “Areviti” alla distanza di alcune centinaia di metri dalla
Il paniere con il vitto per lo zio 
“Massarietta”.



Decisisi a dare inizio alle indagini i verbalizzanti si recarono nella località in cui era stato rinvenuto il cadavere e rilevarono che questo giaceva supino e aveva gli arti superiori flessi sul busto e legati, all’altezza dei polsi, da un fazzoletto di seta multicolore e da una gonna le mani congiunte, gli arti inferiori divaricati di circa 50 centimetri, la bocca imbavagliata con un pezzo di stoffa bianca annodata sulla guancia sinistra. Intanto le investigazioni “a strascico” ordinate dal Procuratore della Repubblica e coordinate dal Questore iniziavano a dare i primi risultati. Un guardiano della zona tale  Salvatore La Torre, dichiarò che verso le ore 16,30 del 17 agosto aveva visto la Maria Pellegrino scendere dalla strada provinciale “Mondragone-Falciano”, nella stradetta campestre che conduce alla contrada “Areviti” e un quarto d’ora dopo transitare in bicicletta nello stesso posto un marinaio del luogo tale Michele Degli Schiavi, e ciò mentre sulla provinciale in prossimità dell’incrocio con la stradetta tre donne, Rosina Rappa, Maria Di Landi e Raffaela Valloppa si esercitavano ad andare in bicicletta. Il Degli Schiavi fermato e sospettato di essere il “mostro” che aveva ucciso e violentata la “Cappuccetto rosso” di Mondragone, dichiarò che aveva percorso in bicicletta la provinciale, aveva visto solo le tre donne anzidette, ma non alle 16,30 ma molto prima. Aggiunse che si era portato a Casanova di Carinola dal suo amico Giovanni Piscopo e poi a Cascano di Sessa Aurunca, presso tale Maria Cosentino e che aveva fatto ritorno a Mondragone alle 18,30. Chiariti gli orari e messi a confronto con quanto dichiarato dal guardiano La Torre i carabinieri trassero il loro convincimento che il marinaio poteva essere l’assassino della fanciulla per questo lo arrestarono. 

La strada di accesso al luogo del delitto 

 Le tre donne, dal canto loro, riferirono che si erano esercitate sulle biciclette per un quarto d’ora e che probabilmente  doveva trattarsi delle 15 o 15,30. Che la Pellegrino fosse passata sulla provinciale alle 17 circa e quindi dopo il Degli Schiavi era anche confermato dal fatto che la ragazza che portava degli involti (contenente il vitto del Piglialarmi) era stata vista nei pressi del bivio formato dalla provinciale e dalla strada campestre anche da Francesco Pacifico, Carlo Abbate e Luigi Taglialatela e costoro, benchè l’avessero avvertita che lo zio non aveva più bisogno del vitto perché sarebbe tornato a casa per pernottare, aveva proseguito nella sua strada dicendo che doveva recarsi lo stesso in campagna per governare gli animali. Dopo queste dichiarazioni il Degli Schiavi venne scarcerato. Non emersero elementi concreti di prova neppure a carico di tale Giovanni Bochettino, un pazzo evaso proprio in quei giorni dal manicomio di Aversa  –  che in un primo momento era stato anche lui sospettato quale autore dell’omicidio, in quanto risultava che egli era passato lungo la nazionale Appia in quei giorni, essendo  invece diretto a piedi al Santuario di Pompei.

 A quindici giorni dal delitto i carabinieri procedettero al fermo di Maria Filosa e della cognata Adele Vellucci, indicate da Luigi Pellegrino padre della ragazza uccisa, come sospettate autrici del delitto. Le due donne, però, forniva degli alibi  precisi ed anche esse venivano scarcerate. Successivamente  Davide Piglialarmi riferiva che la nipote, la mattina del 17 agosto, recatasi sul suo fondo gli aveva chiesto se desiderava che gli portasse da mangiare al che egli aveva risposto “fa come vuoi”; che poi la fanciulla non si era più fatta viva, che al suo ritorno a casa la moglie Letizia Pellegrino  gli aveva detto che aveva affidato alla Maria la minestra da portargli, e saputo da lei che la piccola non aveva adempiuto allo incarico aveva avvertito i genitori della predetta. La madre della ragazza, Filomena Sanfelice, a sua volta confermò che la figlia era partita da casa verso le 16 per andare a governare gli animali e per  portare al Piglialarmi la minestra datale dalla zia. Ma a questo punto – visto il comportamento frastornato e contraddittorio di tutti i familiari – i sospetti dei carabinieri cominciarono a concentrarsi sui familiari della Maria. Tra l’altro l’autopsia aveva escluso che l’uccisa avesse subito violenza carnale, pur avendo accertato che aveva avuto rapporti sessuali, nonostante la sua giovane età – (ma aveva un fisico abbastanza sviluppato) – e però non si seppe con chi anche se i sospetti caddero sul padre. 


Quest’ultimo risultava autore di una violenza carnale compiuto con un suo amico ai danni di una bellissima ragazzina,  Elisabetta Franciosa,  trovata in campagna violentata ed in condizioni pietose. Per questo delitto era stato anche condannato a vari anni di reclusione. In quegli stessi giorni giunse ai carabinieri una lettera anonima che accusava lo zio della piccola quale autore del delitto e pertanto si procedette al fermo dei fratelli Silvio e Michele Pellegrino. Ma Luigi Pellegrino  si presentò, infatti, nuovamente in caserma e con atteggiamento concitato – tenendo stretta una pistola - si dette ad abbracciare ed a baciare i verbalizzanti e gridò che aveva trovato gli assassini della figlia: Francesco gli aveva detto che si trattava dei fratelli Nunzio e Pasquale Fardella. I due Fardella furono immediatamente fermati e condotti in caserma ove vennero a contatto con Luigi Pellegrino che però, lungi dallo scagliarsi contro di essi,  come c’era da attendersi dato l’atteggiamento animoso tenuto poco prima, li trattò normalmente e rispose perfino al loro saluto. I predetti dettero tutti i chiarimenti loro richiesti da cui risultava che il giorno del delitto non erano stati in località “Areviti”. Ed il piccolo Francesco, posto a confronto con loro disse: “Nun li conosco, zia Savina me l’ho ha detto”… e solo quando il padre gli dette uno scappellotto finì per dichiarare: “Sono isso”. 


Ma, nonostante tutte queste messinscena gli inquirenti sospettavano sempre di più di Luigi Pellegrino non solo perché era evidente la contraddittorietà di alcune affermazioni (come quella che il cadavere era stato rintracciato secondo una visione apparsa in sogno il giorno precedente), ma perché il padre della ragazza uccisa, poi, durante l’autopsia del cadaverino si era mostrato freddo addirittura cinico unicamente preoccupato di concedere interviste ai giornalisti, di barattare fotografie della morta; non aveva neppure mostrato commozione alla vista delle vesti insanguinate appartenenti alla uccisa; ma tentava di nascondere alla vista degli altri la propria mano destra sulla quale appariva una forte contusione. Il 24 agosto, però, gli inquirenti, scarcerati i fratelli Fardella ordinarono il fermo di Luigi Pellegrino, Filomena Sanfelice, Savina Pellegrino, Giovanni Pellegrino, e Davide Piglialarmi. Tutti fortemente indiziati del delitto della “Cappuccetto rosso” di Mondragone.  Dalle prime conferme fu escluso il Piglialarmi che fu subito escarcerato perché estraneo al delitto. Nei suoi nuovi interrogatori Luigi Pellegrino spiegò che la lesione alla mano destra l’aveva riportata a seguito di un morso di asino in data 16 agosto, ma venne smentito da suo cugino Alessandro Iannino, il quale dichiarò che lo aveva tenuto a lavorare con sè il 17 agosto in contrada “Limato”, ed aveva notato che lavorava con somma facilità segno che non aveva lesioni alle mani. Spiegò ancora che il 17 agosto (giorno del delitto) era partito da casa per cercare la figlia, insieme al Silvio e alla Sanfelice (come dichiarata da quest’ultima) ma era stato in effetti preceduto dalla moglie e da Silvio nelle ricerche in quanto si era recato ad acquistare delle sigarette nella rivendita di Antonio Corvino.



Senonché anche il Corvino lo smentì recisamente. Attraverso le successive indagini il delitto della piccola venne così ricostruito. Luigi Pellegrino, irritato per il fatto che la figlia non aveva portato la minestra allo zio e non era neppure rincasata, era andato per primo a cercarla verso le 20,15. Avendola trovata, però, addormentata nella “Masserietta” – in un impeto d’ira – l’aveva uccisa mediante percosse. La Sanfelice e Silvio preoccupatisi avevano seguito Luigi nella località ma non avevano potuto impedire il delitto. Indi si era escogitata la versione della aggressione e provveduto a collocare il cadavere legato e imbavagliato nel luogo in cui fu trovato. A tale ricostruzione gli inquirenti pervennero in base alle deposizioni della Savina. Costei, infatti, il 30 e 31 agosto si decise a confessare prima al tenente dei carabinieri Antonio Micheluzzi e poi al Pretore di Carinola che aveva saputo da Silvio Pellegrino che i fatti si erano svolti come raccontato e che egli aveva propalato falsamente la notizia che aveva visto in un sogno il cadavere in un vigneto per allontanare i sospetti da sé e dagli altri familiari. Ma i rappresentanti della Fedelissima non trascurarono nulla per arrivare alla  verità ed addirittura (con i mezzi rudimentali dell’epoca, non disponendo di tecnologie per le intercettazioni ambientali) escogitarono un sistema di intercettazione che si rivelò efficace ai fini della prova. Due carabinieri, Antonio Vilardi e Giuseppe Covato  nascostisi in giorni successivi sotto il tavolaccio della camera di sicurezza in cui erano ristrette la Savina e la di lei madre Maria La Torre, che pure era stata fermata, sentirono che la donna rimproverava la figlia per essersi lasciata convincere a confessare e la Savina prima rispose che aveva detto la verità e poi promise che non avrebbe più parlato. 




La condanna  fu a 22 anni di reclusione per omicidio, calunnia e simulazione.



 A seguito di tali risultanze i carabinieri denunziarono – in stato di arresto – Luigi Pellegrino, Silvio PellegrinoFilomena Sanfelice e rimisero in libertà gli altri fermati. 


Si procedette quindi con il rito formale  a carico di Luigi Pellegrino per i reati di omicidio preterintenzionale aggravato per motivi futili e per il rapporto di parentela con la vittima, di porto di pistola, di occultamento di cadavere, di simulazione di reato (per avere mediante denunzia falsa accusato ignoti di omicidio volontario a scopo di 


stupro in danno della figlia, dopo avere artefatto la posizione del cadavere simulando essere stata la stessa aggredita a scopo di violenza carnale) di calunnia (per avere accusato in prosieguo di tempo i fratelli Fardella quali autori del delitto in danno della figlia), nonché a carico 


della Sanfelice e di Silvio Pellegrino per concorso nei reati di occultamento di cadavere, di simulazione di reato e di calunnia. Il G.I., con sentenza del 16 febbraio del 1959, rinviava definitivamente il Pellegrino innanzi alla Corte di Assise in stato di custodia preventiva per rispondere del “delitto di omicidio preterintenzionale”, aggravato per motivi futili e perché commesso in danno di una discendente così modificata la precedente imputazione. Nel dibattimento veniva contestato al Pellegrino la recidiva reiterata generica e quella specifica nei 5 anni.  Con sentenza del 24 giugno del 1959, la Corte condannò Luigi Pellegrino ad anni 22 e mesi otto di reclusione per omicidio preterintenzionale, calunnia aggravata e simulazione. Ad anni uno e mesi sei la Sanfelice, per simulazione di reato e la Savina Pellegrino, per falsa testimonianza ad anni uno e mesi sei.  Le condanne furono confermate in appello ed i ricorsi  in data 14 settembre 1962, respinti in Cassazione. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: On. Guido Cortese, Antonio Simoncelli, Alberto e Alfonso Martucci, Arturo Tucci, Alberto Narni Mancinelli e On. Luigi Renato Sansone.


Fonte: Archivio di Stato di Caserta






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