Al centro la madre della piccola vittima ma già conosce la verità: la figlia è stata uccisa dal padre |
UCCISA A BOTTE DAL PADRE
LA “CAPPUCCETTO
ROSSO” DI MONDRAGONE
Maria Pellegrino, nonostante i suoi 12 anni era quasi donna... |
Il delitto avvenne il 7 agosto del 1954 a Mondragone in località “Areviti” nella
“Masserietta” di proprietà dell’assassino
Il padre simulò il tutto imbavagliando la figlia per far credere ad una aggressione sessuale |
Tra i primi sospettati un evaso dal manicomio che era transitato a
piedi nella località. Un
gruppo di agricoltori offrì al sindaco
dell’epoca avv. Francesco Beatrice, la somma
di un milione quale premio per la identificazione dell’assassino. Era andata a portare la
minestra allo zio ma si addormentò nel bosco e per questo venne ammazzata a
botte dal padre Luigi Pellegrino. Questi alterò la scena del crimine per simulare una
violenza carnale. Poi accusò
ingiustamente (pur sapendoli innocenti )
i fratelli Nunzio e Pasquale
Fardella. Condannato chiese la revisione del processo protestandosi
innocente svelando gli autori di un
assassinio che era rimasto ignoto. Due
carabinieri sotto il tavolaccio della
camera di sicurezza in cui erano ristrette le donne sospettate sentirono che la
donna rimproverava la figlia per essersi lasciata convincere a confessare e la
Savina prima rispose che aveva detto la verità e poi promise che non avrebbe
più parlato. Intanto il Pellegrino anche dopo la condanna, dal carcere di
Sulmona, dopo 8 anni dal delitto
continuava, insomma, nel suo piano criminoso, ispirato al più “sfacciato
mendacio”. La Cassazione lo smentì per
ben due volte negandogli la revisione del processo
Luigi Pellegrino, l'assassino |
Mondragone
– Alle ore 21,40 del 7 agosto 1954, il contadino Luigi Pellegrino, di anni 32, sposato e con una figlia, si presentò
nella caserma dei carabinieri per denunciare, appunto, che la sua figliuola
Maria, di anni 12 non era ancora rientrata in paese dalla contrada “Areviti” ove si era recata nel
pomeriggio per governare alcuni animali in un fondicino di loro proprietà detto
“Massarietta” e per recapitare della
minestra al vecchio zio Davide
Piglialarmi, che lavorava in un terreno pure sito nella zona. Precisò il
Pellegrino che il Piglialarmi, tornato in paese verso le 20 non aveva saputo
dare notizie della ragazza ed anzi aveva escluso perfino che la stessa gli
avesse portata la minestra e, pertanto,
egli si era impensierito ed insieme alla moglie Filomena Sanfelice, ed al fratello Silvio era andato ad effettuare
ricerche nella “Masserietta”. Dette
ricerche erano risultate negative benché egli avesse avuto cura anche di
scendere in due pozzi per ispezionarli. I carabinieri benché avessero notato che
il denunziante indossava abiti che non presentavano tracce della discesa nei
pozzi, che peraltro a suo dire sarebbe stata effettuata strisciando lungo le
pareti, ed aveva un comportamento alquanto strano (per esempio esprimeva la
convinzione che si trattasse di un delitto seppure appariva tranquillo e non
insisteva affatto perché le ricerche da parte dell’Arma fossero iniziate ed anzi
si dichiarava convinto che le ricerche notturne sarebbero rimaste vane),
iniziarono le indagini alla mattina successiva. Nelle prime ore del 18 agosto
peraltro pervenne in caserma la notizia che la Maria Pellegrino era stata trovata dallo zio Silvio
Pellegrino, cadavere nel vigneto di
tale Giovanni Caruso sito nella
contrada “Areviti” alla distanza di
alcune centinaia di metri dalla
Il paniere con il vitto per lo zio |
Decisisi a dare inizio alle indagini i verbalizzanti si recarono nella
località in cui era stato rinvenuto il cadavere e rilevarono che questo giaceva
supino e aveva gli arti superiori flessi sul busto e legati, all’altezza dei
polsi, da un fazzoletto di seta multicolore e da una gonna le mani congiunte,
gli arti inferiori divaricati di circa 50 centimetri, la bocca imbavagliata con
un pezzo di stoffa bianca annodata sulla guancia sinistra. Intanto le
investigazioni “a strascico” ordinate dal Procuratore della Repubblica e
coordinate dal Questore iniziavano a dare i primi risultati. Un guardiano della
zona tale Salvatore La Torre, dichiarò che verso le ore 16,30 del 17 agosto
aveva visto la Maria Pellegrino
scendere dalla strada provinciale “Mondragone-Falciano”, nella stradetta
campestre che conduce alla contrada “Areviti”
e un quarto d’ora dopo transitare in bicicletta nello stesso posto un
marinaio del luogo tale Michele Degli
Schiavi, e ciò mentre sulla provinciale in prossimità dell’incrocio con la
stradetta tre donne, Rosina Rappa, Maria Di Landi e Raffaela Valloppa si esercitavano ad andare in bicicletta. Il Degli
Schiavi fermato e sospettato di essere il “mostro”
che aveva ucciso e violentata la “Cappuccetto
rosso” di Mondragone, dichiarò che aveva percorso in bicicletta la
provinciale, aveva visto solo le tre donne anzidette, ma non alle 16,30 ma
molto prima. Aggiunse che si era portato a Casanova di Carinola dal suo amico Giovanni Piscopo e poi a Cascano di
Sessa Aurunca, presso tale Maria
Cosentino e che aveva fatto ritorno a Mondragone alle 18,30. Chiariti gli
orari e messi a confronto con quanto dichiarato dal guardiano La Torre i
carabinieri trassero il loro convincimento che il marinaio poteva essere
l’assassino della fanciulla per questo lo arrestarono.
La strada di accesso al luogo del delitto |
Le tre
donne, dal canto loro, riferirono che si erano esercitate sulle biciclette per
un quarto d’ora e che probabilmente
doveva trattarsi delle 15 o 15,30. Che la Pellegrino fosse passata sulla
provinciale alle 17 circa e quindi dopo il Degli Schiavi era anche confermato
dal fatto che la ragazza che portava degli involti (contenente il vitto del
Piglialarmi) era stata vista nei pressi del bivio formato dalla provinciale e
dalla strada campestre anche da Francesco
Pacifico, Carlo Abbate e Luigi Taglialatela e costoro, benchè
l’avessero avvertita che lo zio non aveva più bisogno del vitto perché sarebbe
tornato a casa per pernottare, aveva proseguito nella sua strada dicendo che
doveva recarsi lo stesso in campagna per governare gli animali. Dopo queste
dichiarazioni il Degli Schiavi venne scarcerato. Non emersero elementi concreti
di prova neppure a carico di tale Giovanni
Bochettino, un pazzo evaso proprio in quei giorni dal manicomio di
Aversa –
che in un primo momento era stato anche lui sospettato quale autore
dell’omicidio, in quanto risultava che egli era passato lungo la nazionale
Appia in quei giorni, essendo invece diretto
a piedi al Santuario di Pompei.
A quindici giorni dal delitto i carabinieri
procedettero al fermo di Maria Filosa
e della cognata Adele Vellucci,
indicate da Luigi Pellegrino padre
della ragazza uccisa, come sospettate autrici del delitto. Le due donne, però,
forniva degli alibi precisi ed anche
esse venivano scarcerate. Successivamente
Davide Piglialarmi riferiva
che la nipote, la mattina del 17 agosto, recatasi sul suo fondo gli aveva
chiesto se desiderava che gli portasse da mangiare al che egli aveva risposto “fa come vuoi”; che poi la fanciulla non
si era più fatta viva, che al suo ritorno a casa la moglie Letizia Pellegrino gli aveva
detto che aveva affidato alla Maria la minestra da portargli, e saputo da lei
che la piccola non aveva adempiuto allo incarico aveva avvertito i genitori
della predetta. La madre della ragazza, Filomena
Sanfelice, a sua volta confermò che la figlia era partita da casa verso le
16 per andare a governare gli animali e per
portare al Piglialarmi la minestra datale dalla zia. Ma a questo punto –
visto il comportamento frastornato e contraddittorio di tutti i familiari – i
sospetti dei carabinieri cominciarono a concentrarsi sui familiari della Maria.
Tra l’altro l’autopsia aveva escluso che l’uccisa avesse subito violenza
carnale, pur avendo accertato che aveva avuto rapporti sessuali, nonostante la
sua giovane età – (ma aveva un fisico abbastanza sviluppato) – e però non si
seppe con chi anche se i sospetti caddero sul padre.
Quest’ultimo risultava
autore di una violenza carnale compiuto con un suo amico ai danni di una
bellissima ragazzina, Elisabetta Franciosa, trovata in campagna violentata ed in
condizioni pietose. Per questo delitto era stato anche condannato a vari anni
di reclusione. In quegli stessi giorni giunse ai carabinieri una lettera
anonima che accusava lo zio della piccola quale autore del delitto e pertanto
si procedette al fermo dei fratelli Silvio
e Michele Pellegrino. Ma Luigi
Pellegrino si presentò, infatti,
nuovamente in caserma e con atteggiamento concitato – tenendo stretta una
pistola - si dette ad abbracciare ed a baciare i verbalizzanti e gridò che
aveva trovato gli assassini della figlia: Francesco gli aveva detto che si
trattava dei fratelli Nunzio e Pasquale Fardella. I due Fardella
furono immediatamente fermati e condotti in caserma ove vennero a contatto con
Luigi Pellegrino che però, lungi dallo scagliarsi contro di essi, come c’era da attendersi dato l’atteggiamento
animoso tenuto poco prima, li trattò normalmente e rispose perfino al loro
saluto. I predetti dettero tutti i chiarimenti loro richiesti da cui risultava
che il giorno del delitto non erano stati in località “Areviti”. Ed il piccolo Francesco, posto a confronto con loro
disse: “Nun li conosco, zia Savina me
l’ho ha detto”… e solo quando il padre gli dette uno scappellotto finì per
dichiarare: “Sono isso”.
Ma,
nonostante tutte queste messinscena gli inquirenti sospettavano sempre di più
di Luigi Pellegrino non solo perché era evidente la contraddittorietà di alcune
affermazioni (come quella che il cadavere era stato rintracciato secondo una
visione apparsa in sogno il giorno precedente), ma perché il padre della
ragazza uccisa, poi, durante l’autopsia del cadaverino si era mostrato freddo
addirittura cinico unicamente preoccupato di concedere interviste ai
giornalisti, di barattare fotografie della morta; non aveva neppure mostrato
commozione alla vista delle vesti insanguinate appartenenti alla uccisa; ma
tentava di nascondere alla vista degli altri la propria mano destra sulla quale
appariva una forte contusione. Il 24 agosto, però, gli inquirenti, scarcerati i
fratelli Fardella ordinarono il fermo di Luigi
Pellegrino, Filomena Sanfelice, Savina Pellegrino, Giovanni Pellegrino,
e Davide Piglialarmi. Tutti
fortemente indiziati del delitto della “Cappuccetto rosso” di Mondragone. Dalle prime conferme fu escluso il
Piglialarmi che fu subito escarcerato perché estraneo al delitto. Nei suoi
nuovi interrogatori Luigi Pellegrino spiegò che la lesione alla mano destra
l’aveva riportata a seguito di un morso di asino in data 16 agosto, ma venne
smentito da suo cugino Alessandro
Iannino, il quale dichiarò che lo aveva tenuto a lavorare con sè il 17
agosto in contrada “Limato”, ed aveva
notato che lavorava con somma facilità segno che non aveva lesioni alle mani.
Spiegò ancora che il 17 agosto (giorno del delitto) era partito da casa per
cercare la figlia, insieme al Silvio e alla Sanfelice (come dichiarata da
quest’ultima) ma era stato in effetti
preceduto dalla moglie e da Silvio nelle ricerche in quanto si era recato ad
acquistare delle sigarette nella rivendita di Antonio Corvino.
Senonché anche il Corvino lo smentì recisamente.
Attraverso le successive indagini il delitto della piccola venne così
ricostruito. Luigi Pellegrino, irritato per il fatto che la figlia non aveva
portato la minestra allo zio e non era neppure rincasata, era andato per primo
a cercarla verso le 20,15. Avendola trovata, però, addormentata nella “Masserietta” – in un impeto d’ira –
l’aveva uccisa mediante percosse. La Sanfelice e Silvio preoccupatisi avevano
seguito Luigi nella località ma non avevano potuto impedire il delitto. Indi si
era escogitata la versione della aggressione e provveduto a collocare il
cadavere legato e imbavagliato nel luogo in cui fu trovato. A tale ricostruzione
gli inquirenti pervennero in base alle deposizioni della Savina. Costei,
infatti, il 30 e 31 agosto si decise a confessare prima al tenente dei
carabinieri Antonio Micheluzzi e poi
al Pretore di Carinola che aveva saputo da Silvio Pellegrino che i fatti si
erano svolti come raccontato e che egli aveva propalato falsamente la notizia
che aveva visto in un sogno il cadavere in un vigneto per allontanare i
sospetti da sé e dagli altri familiari. Ma i rappresentanti della Fedelissima
non trascurarono nulla per arrivare alla
verità ed addirittura (con i mezzi rudimentali dell’epoca, non
disponendo di tecnologie per le intercettazioni ambientali) escogitarono un
sistema di intercettazione che si rivelò efficace ai fini della prova. Due
carabinieri, Antonio Vilardi e Giuseppe Covato nascostisi in giorni successivi sotto il
tavolaccio della camera di sicurezza in cui erano ristrette la Savina e la di
lei madre Maria La Torre, che pure
era stata fermata, sentirono che la donna rimproverava la figlia per essersi
lasciata convincere a confessare e la Savina prima rispose che aveva detto la
verità e poi promise che non avrebbe più parlato.
A seguito di tali risultanze i carabinieri
denunziarono – in stato di arresto – Luigi
Pellegrino, Silvio Pellegrino
e Filomena
Sanfelice e rimisero in libertà gli altri fermati.
Si procedette quindi con il rito formale a carico di Luigi Pellegrino per i reati di
omicidio preterintenzionale aggravato per motivi futili e per il rapporto di
parentela con la vittima, di porto di pistola, di occultamento di cadavere, di
simulazione di reato (per avere mediante denunzia falsa accusato ignoti di
omicidio volontario a scopo di
stupro in danno della figlia, dopo avere
artefatto la posizione del cadavere simulando essere stata la stessa aggredita
a scopo di violenza carnale) di calunnia (per avere accusato in prosieguo di
tempo i fratelli Fardella quali autori del delitto in danno della figlia),
nonché a carico
della Sanfelice e di Silvio Pellegrino per concorso nei reati
di occultamento di cadavere, di simulazione di reato e di calunnia. Il G.I.,
con sentenza del 16 febbraio del 1959, rinviava definitivamente il Pellegrino
innanzi alla Corte di Assise in stato di custodia preventiva per rispondere del
“delitto di omicidio preterintenzionale”, aggravato per motivi futili e perché
commesso in danno di una discendente così modificata la precedente imputazione.
Nel dibattimento veniva contestato al Pellegrino la recidiva reiterata generica
e quella specifica nei 5 anni. Con
sentenza del 24 giugno del 1959, la Corte condannò Luigi Pellegrino ad anni 22
e mesi otto di reclusione per omicidio preterintenzionale, calunnia aggravata e
simulazione. Ad anni uno e mesi sei la Sanfelice,
per simulazione di reato e la Savina
Pellegrino, per falsa testimonianza ad anni uno e mesi sei. Le condanne furono confermate in appello ed i
ricorsi in data 14 settembre 1962, respinti
in Cassazione. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati gli
avvocati: On. Guido Cortese, Antonio Simoncelli, Alberto e Alfonso Martucci,
Arturo Tucci, Alberto Narni Mancinelli e On. Luigi Renato Sansone.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
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