41bis, ergastolo e semilibertà in Italia:
un'intervista a chi ci è passato
Il grande Carmelo Musumeci un esempio per tutti dentro e fuori dal carcere... |
In carcere da 25 anni e dopo un'esperienza al 41bis, a Carmelo Musumeci è
stata concessa la semilibertà.
Nel 1991, l'allora 36enne Carmelo Musumeci
è stato arrestato con l'accusa di
omicidio e di essere organizzatore di un'associazione mafiosa che si
occupava di bische, delitti contro il patrimonio e spaccio di cocaina. Un anno
dopo, è arrivata la sentenza definitiva che lo ha condannato all'ergastolo.
Da allora sono passati 25 anni: Musumeci
ha girato diversi penitenziari italiani, preso due lauree in giurisprudenza e
una in filosofia, e infine —nel novembre del 2016, mentre era nel penitenziario
di Padova— gli è stata concessa la semilibertà, da lui richiesta tramite istanza. Nonostante l'ergastolo, grazie al regime della
semilibertà ha la possibilità di uscire durante le ore diurne per prestare
attività di volontariato (nel suo caso, sostegno scolastico e ricreativo a
persone portatrici di handicap presso una struttura).
Negli ultimi tempi, Musumeci ha pubblicato
diversi libri, l'ultimo dei quali intitolato L'urlo di un uomo ombra.
Da anni tiene anche un diario sul suo sito, e si spende per una campagna contro la formula detentiva dell'ergastolo:
è così che è diventato una delle figure pubbliche più note per chi si
trova nella sua stessa condizione.
Per capire cosa si prova a scontare una
pena a vita e mettere piede fuori dal cacere dopo 25 anni di reclusione,
ho incontrato Musumeci in una delle sue ore di semilibertà—cercando di
sospendere il giudizio sui reati che ha commesso per parlare liberamente
di sistema penitenziario, del concetto di ergastolo e di come ha ritrovato
il mondo che aveva lasciato.
VICE: Raccontami come sei finito in
carcere.
Carmelo Musumeci: Sono cresciuto in un paesino ai piedi
dell'Etna. Eravamo poveri, e io ho cominciato a nutrirmi della cultura di
strada già da piccolo. Mia nonna, per esempio, mi ha insegnato a rubare al
supermercato quando ero ancora un bambino, e così la prima volta sono finito in
carcere che ero ancora minorenne.
Intorno ai 15 anni i miei genitori si sono
separati e sono stato mandato in un collegio al nord. Là ho iniziato a covare
rabbia nei confronti del mondo e delle istituzioni, e quando poi sono tornato a
casa ho trovato le stesse difficoltà economiche che avevo lasciato: in quel
momento, forse inconsapevolmente, avevo già imboccato le strade sbagliate. Ho
iniziato con una serie di piccoli reati e poi, dopo aver visto che si poteva
guadagnare, ho alzato il tiro: nel 1972 sono stato arrestato durante una rapina
in un ufficio postale.
Quando sono uscito mi sono ributtato in
quel mondo. Fino a una sera del 1990 in cui, in uno scontro tra bande rivali,
mi beccai sei pallottole. Sono sopravvissuto, ma quello era un ambiente in cui
o ammazzi o vieni ammazzato. Così poi è successo quello che è successo.
A cosa hai pensato quando ti è arrivata la
sentenza definitiva?
Quando sono stato arrestato sono stato considerato un criminale di spessore, e
quindi nel 1991 sono stato sottoposto al 41bis. Mentre stavo in isolamento per
un anno e sei mesi, in una cella buia con l'impossibilità di parlare con
qualcuno, mi è arrivato il telegramma della mia compagna che confermava
l'ergastolo. Be', inutile dire come mi è crollato il mondo addosso: avevo la
consapevolezza che non sarei mai più uscito da là.
Il 41bis è il regime carcerario più duro del nostro ordinamento—è l'isolamento totale: personalmente
non riesco a pensare a come ci si possa convivere. Com'è stato?
Erano gli anni in seguito alla strage di Capaci e lo Stato era in lotta con
l'anti-stato, la mafia: io, tra le accuse, avevo anche quella di associazione
mafiosa, e quell'articolo permetteva dei trattamenti più duri per creare
collaboratori di giustizia. In pratica vivevo in una cella quasi
totalmente buia, ricevevo da mangiare da uno spioncino, avevo poca acqua e sono
stato offeso da guardie sbronze. Venivo torturato.
Non hai mai pensato di ucciderti?
Ci ho pensato costantemente: sarebbe stata la via di fuga più facile. Mi sento
anche di dire che chi pensa a togliersi la vita non è vero che non l'ama: chi
si toglie la vita in quelle condizione ama la vita talmente tanto che non vuole
vedersela appassire. Ho sempre ammirato chi ha avuto il coraggio di farcela
perché anche oggi soffro per quello che ho vissuto in quei giorni.
Mi fa ancora male parlarne, non perché ero
innocente ma perché ho sofferto per nulla, e tutto questo non aiutava né lo
Stato né i parenti delle vittime. Ma quando hai dei figli, hai una
responsabilità. Non potevo andarmene così.
Nel tuo diario online definisci le notti
passate in carcere, dopo una giornata di quasi libertà, il
tuo "ritorno all'inferno." Quali sono le cose più brutte
che hai visto?
Paradossalmente, le cose che ti succedono intorno. Quella che forse mi
fa ancora male è del 1992, quando ho visto il trattamento ai ragazzi della
strage di Gela [lafaida tra gruppi criminali che nel giro di poche
ore, nel novembre del 1990, innescò una catena di agguati mortali]. Erano ancora dei
ragazzini, non credo sapessero quello che stavano facendo: ho visto strappargli
la vita per sempre in quelle mura. Quello che voglio dire è che il carcere
dovrebbe far capire al condannato dove ha sbagliato, ma l'unica cosa che vedevo
in quegli anni era un processo che portava al "io ho ucciso ma tu [il
carcere] mi stai uccidendo lentamente, giorno dopo giorno."
Penso che la cosa che fa più paura
a un criminale è il perdono sociale, perché perdi tutti gli alibi e dici
"cazzo, ho fatto del male e queste persone mi stanno perdonando."
Quando invece vieni trattato male ogni singolo giorno ti dimentichi del male
che hai fatto, e quello che provi non è certamente il rimorso.
Quanto a te, come si svolgeva una tua
regolare giornata in carcere?
Dopo i primi anni ho cambiato carcere spesso: ogni carcere è uno stato a sé,
con le proprie regole e i propri ritmi. Ma in generale è tutto molto piatto: mi
svegliavo verso l'alba e iniziavo a studiare, nell'ora d'aria facevo una
corsetta, e poi verso mezzogiorno mangiavo a mensa. Il pomeriggio rientravo in
cella e la sera mi cucinavo qualcosa da mangiare. Questo per migliaia e
migliaia di giornate.
È scontato da dire, ma immagino che in una
situazione del genere trovare uno scopo ti aiuti ad affrontare le
giornate. Come nel caso dello studio. Come funzionava, e come ti procuravi i
libri necessari?
Sì, se non fosse stato per lo studio sarei impazzito. Ho anche iniziato a
scrivere, oltre a studiare per laurearmi in giurisprudenza e filosofia: penso
che in Italia manchi una letteratura sociale carceraria. Voglio dire, la
letteratura è l'anima e la storia di un paese, per questo m'illudo di crearne
una con i miei romanzi.
Per quanto riguarda i libri, dopo il 41bis
ho potuto averne, fortunatamente. A volte non dovevano essere più di tre, non
potevano avere la copertina dura—e nonostante fossi iscritto all'università—mi
mancavano sempre dei manuali. Il solo fatto che cambiavo spesso carcere rendeva
sempre difficilissimo l'iter universitario.
A cosa erano dovuti i costanti spostamenti
di carcere?
Diciamo che ero un detenuto scomodo. Dopo un po' che studiavo chiedevo
sempre più cose che mi appartenevano come diritto, e questo può dare fastidio
ai dirigenti. Era un attivismo scomodo e infatti a chiunque dovesse andare in
carcere consiglio assolutamente di procurarsi un codice per capire i propri
diritti—diritti che spesso vengono trascurati.
Nel tuo caso però a un certo punto sei
riuscito a ottenere la semilibertà, caso raro per un ergastolo
ex ostativo, per prestare servizio in una comunità. Qual è stata la prima
cosa a cui hai pensato?
Ero sicuro di non avere speranza e di morire in carcere. Quando dopo
svariati tentativi mi è stata concessa la semilibertà, non so cosa ho
provato—qualcosa di inspiegabile, forse, ma molto simile all'ansia e alla
paura. Ho pensato alla mia famiglia, ai miei nipoti...
E quando sei effettivamente uscito cosa ti
ha sorpreso di più?
Le piccole cose, paradossalmente, come affacciarsi a una finestra o guardarmi
allo specchio—in carcere ci sono solo specchi piccolissimi. Mi sono guardato
allo specchio e ho visto tutto il mio corpo, ma non era più il mio corpo. Era
quello di una persona che non sapevo chi fosse. Poi un'infinità di sensazioni e
cose di cui mi ero completamente dimenticato—cose come percepire la sabbia tra
le dita dei piedi, l'odore del mare, la pelle dei miei figli.
In che modo hai trovato cambiato il mondo?
Voglio dire, ti sei perso l'esplosione di Internet...
Quando sono uscito la prima volta mi sono fermato, e per un po' mi sono
guardato intorno immobile. Tutto mi sembrava irreale e diverso da come mi
ricordavo il mondo. Le persone sono cambiate, così il modo di vivere e adesso
anche prendere un semplice treno, con le persone connesse ai loro pc—è come
guardare un film di fantascienza. Insomma, è tutto molto strano e mi ci sto
abituando piano piano, ma sono dannatamente felice di doverlo fare.
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