UCCISE LA MOGLIE CON UNA PIETRA
La
donna morì per spappolamento della milza. Il medico che era suo datore di
lavoro diagnosticò il decesso come morte naturale. Una lettera anonima dei
cittadini di Casolla fece riaprire il caso…
Il delitto accadde nella Frazione Casolla di Caserta il I° Ottobre del 1954
Caserta
- Dopo
alcuni giorni dal decesso della donna pervenne una lettera anonima alla
Procura. “Ill/mo Procuratore della
Repubblica di Santa Maria Capua Vetere il 30 settembre u.s. è deceduta in
Casolla (Frazione di Caserta) la signora Lucia
D’Amico la quale è stata sempre percossa e maltrattata dal marito. Le voci
che circolano nel paese e che hanno delle fondamenta sono che negli ultimi tre
giorni di vita la D’Amico ha subito continue percosse le quali le hanno
procurato la morte. La sorella della defunta di nome Nanninella, intervenuta poche ore prima della morte, richiese
l’intervento del medico, Dottor Mario
Piazza, il quale ha constatato
che la donna non aveva alcuna malattia – ma che le sue condizioni erano gravi –
a causa delle percosse riscontrate. Difatti, dopo poche ore la D’Amico è
deceduta. Se non che il medico dietro le premure dei familiari – che ritengono
che un procedimento penale a carico del marito della defunta possa pregiudicare
l’avvenire dei bambini, non ha fatto il suo dovere di presentare regolare
denuncia all’Autorità giudiziaria. Tanto si rende informata V.S. Ill/ma perché
dietro constatazione dei fatti ed autopsia della povera D’Amico, venga fatta
giustizia. I cittadini di Casolla (Caserta)”.
A
seguito della predetta segnalazione la Procura iniziava una indagine ordinando
l’esumazione e l’autopsia del cadavere della D’Amico, affidando l’incarico ai
responsabili della medicina legale di Caserta, Dr. Franco Agresti e Carmelo
Pitea, i quali constatarono che “la morte era stata cagionata a causa
violenta, per rottura della milza ed era stata provocata da un colpo violento,
inferto all’ipocondrio sinistro a mezzo di un corpo contundente”.
Dunque la
denuncia anonima aveva messo in moto la macchina della giustizia ed i fatti,
fino a quel momento, avevano accertato la veridicità dell’assunto; che la donna
veniva continuamente percossa dal marito Domenico
Gentile, ma anche la palese “collaborazione” del medico, il Dottor Mario Piazza, che aveva diagnosticato
una morte naturale. Le pronte indagini portarono al sequestro della scheda di
morte della D’Amico, in cui il Dr. Piazza attestava che “la malattia o stato
morboso che aveva direttamente causato il decesso era stata la
bronco-polmonite”. A seguito dell’esumazione, dell’autopsia e degli esami
istologici si accertava che la morte della D’Amico – che presentava ben nove
ecchimosi – era stata cagionata non già dalla “bronco-polmonite” di cui non vi
era traccia nell’apparato polmonare bensì da due lunghi squarci della milza
provocati da corpo contundente vibrato con forza all’ipocondrio sinistro e da
conseguente anemia acuta. Intanto i carabinieri e la Questura, interessati alle
indagini concordemente riferivano che la D’Amico la mattina del 27 settembre si
era recata a Napoli per una visita di controllo –onde ottenere essendo affetta
da varici ed ernia ombelicale – la pensione come bracciante agricola. Di ritorno a casa verso le15,00 aveva avuto un alterco
con il marito – venuto a conoscenza nel frattempo – che ella aveva per sé
trattenute 1000 lire delle 5000 consegnatele qualche giorno prima pel pagamento
del canone di fitto di un giardino condotto in locazione col marito da uno zio
dello stesso, Pietro Gentile. Per sottarsi alle ira del marito la
donna aveva creduto opportuno rifugiarsi presso la propria madre in Tuoro, ma,
durante il percorso, era stata raggiunta dal marito che l’aveva colpita fra
l’altro al fianco sinistro con una grossa pietra rinvenuta infatti all’inizio
del viottolo dove la donna era stata colpita. Pertanto veniva iniziato
procedimento penale, sia contro il
Gentile (per omicidio) che contro il
medico Mario Piazza per la diagnosi “compiacente”. Nel corso degli
interrogatori il Gentile, pur ammettendo di essere stato informato del fitto
proprio il giorno 27 settembre – durante la visita medica della moglie a Napoli
- insistette nel precisare che il giorno
precedente aveva litigato con la moglie (e non il 27 settembre) ma alla quale aveva dato però solo uno
“schiaffetto”. Escluse inoltre di aver aggredito la moglie ed anzi precisava
che la stessa era stata colpita da improvviso malore ed era caduta a terra
sulla strada per Tuoro mentre andava a
casa della mamma ed egli avvisato da
alcuni vicini l’aveva soccorsa e l’aveva portata a casa.
Dal canto suo il
Dottor Piazza, nel premettere che egli
proprio come medico curante della donna aveva indirizzato la stessa per la
pratica della pensione, poiché la stessa
era affetta da bronchite cronica, lieve miocardia, ernia ombelicale e varici.
Il medico confermò inoltre che la donna la sera del 30 settembre – quando cioè
era stata l’unica volta chiamato dal Gentile – le aveva riscontrato focolai di
bronco-polmonite e le aveva prescritto iniezioni di penicillina e cataplasmi. Precisò
che non aveva avuto motivi per la chiarezza dei sintomi rilevati di visitare
minuziosamente l’inferma, che d’altronde, si era mostrata vergognosa di
mostrargli le altri parti del corpo in quanto anche i suoi familiari nulla gli
avevano detto delle lesioni che l’ammalata avrebbe presentato. In conseguenza
avendo appreso l’indomani dal Gentile che la moglie era deceduta non aveva
esitato, come medico curante, e non come
necroscopo, di att4estare nella scheda di morte che la causa del decesso era
stata appunto la riscontrata bronco-polmonite. Gli inquirenti osservarono che
non vi era dubbio che la causa della morte della D’amico era stata la grave
lesione alla milza e la conseguente emorragia interna, come non poteva
dubitarsi che tale lesione era stata la conseguenza di un forte trauma subito
dalla donna all’ipocondrio sinistro e ad opera proprio del marito Domenico Gentile. La D’amico, infatti,
non venne trovata affetta dai periti settori né della bronco polmonite
attestata nella scheda di morte né da altra malattia idonea a trarla a morte fra il 27 settembre, giorno sicuro della sua
gita a Napoli, ed il primo di ottobre del 1954. La sua milza invece fu riscontrata infarcita
di sangue e squarciata longitudinalmente per lungo tratto in ben due punti, con
fuoriuscita addirittura di gran parte della polpa splesica. Non può perciò non
affermarsi – stabilirono i periti – che la emorragia derivatane, tanto
imponente da invadere tutto il bacino, sia stata la causa determinante della
morte della D’Amico. Così cospicui duplice rottura della milza non potette per
altro essere la conseguenza delle pretese due cadute della donna a seguito di
improvviso rinnovatosi malore nelle quali ha tanto insistito l’imputato,
giacchè esse non costituiscono, come è noto, cause sufficienti per la loro
stessa modestia a determinare la lesione (e per giunta duplice così imponente)
della milza che viene al contrario provocata
solo da notevoli traumi.
D’altra parte basta considerare l’infruttuoso
tentativo dello imputato di indicar come
presenti al preteso primo malore della moglie, oltre la compiacente cognata Giovannina Capasso moglie di suo
fratello, le vicine di casa Addolorata
Trabante e Camilla Natale per
avere la riprova – scrissero gli investigatori nei loro rapporti – della
inesistenza dello improvviso malore della D’amico, rinnovatosi di giunta di lì
a poco, inesistenza che si rileva altresì dal fatto che la povera donna aveva
sbrigato faccende a Napoli normalmente e da sola in quanto suo fratello Raffaele si era limitato ad
accompagnarla la mattina al policlinico e non ebbe a notare in lei disturbi di
sorta. La lesione alla milza fu invece l’esito di un forte trauma subito dalla
D’amico a causa di percosse ricevute, siccome è dato rilevare anche dalle
molteplici ecchimosi rilevate in varie parti del corpo. In definitiva
nonostante le testimonianze (tutte a favore dell’imputato ma false) e le ferite
riportate Domenico Gentile si protestò innocente. E’ vero tuttavia che egli non
colpì la donna con intenzione di ucciderla tanto è vero che poi il giudice
istruttore lo rinviò al giudizio della Corte di Assise per rispondere
“soltanto” di uxoricidio preterintenzionale.
Fonte: Archivio di Stato di
Caserta
Sette anni per l’uxoricidio preterintenzionale e
assoluzione per insufficienza di prove per il medico
Sentenza
della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere del (Presidente Giovanni Morfino; giudice a latere, Renato Mastrocinque) contro Domenico Gentile, di anni 42 e Mario Piazza, medico, di anni 45
accusati il primo di omicidio aggravato per avere cagionato con atti idonei a
commettere lesioni personali, con il lancio di un grosso sasso, la morte della
propria moglie; il secondo per avere nell’esercizio di una professione
sanitaria – attestato falsamente – nella scheda di morte che Lucia D’Amico era deceduta per bronco –
polmonite pur non avendo rilevato sulla
paziente da lui curata i sintomi di tale malattia consentendo l’interro della
salma mentre il decesso derivò dal fatto delittuoso. Nel dibattimento
l’imputato si è difeso: ” Nego l’addebito, io ebbi una discussione con mia
moglie per la questione delle 5000 mila lire da versare a mio zio Pietro
Gentile in quella occasione le detti solo uno schiaffetto. Al ritorno da Napoli
mia moglie cadde su due o tre scalini del basso dove abitiamo io e mia cognata Giovannina Capasso la facemmo sedere.
Dopo poco si riprese e si avvio verso Tuoro per avvisare la madre dell’esito
della visita per la pensione avuta a Napoli”. Anche il medico nel dibattimento si
protestò innocente. “Malgrado l’atteggiamento processuale dell’imputato, spiegabile
d’altronde di fronte alle tragiche conseguenze non volute e non previste della
sua azione violenta, e malgrado altresì egli fosse solito percuotere la moglie
– scrissero id giudici nella sentenza di condanna - siccome la madre ci costei non ha esitato a
contestargli , è il caso di concedere le attenuanti generiche in considerazione
dei buoni precedenti dell’imputato e la misere sue condizioni economiche che lo
spinsero a reagire con tanta violenza al non grave di certo non provocatorio
atto della moglie, e di considerare anzi le dette attenuanti prevalenti
sull’aggravante del rapporto coniugale. La pena di anni 10 comminata pel
delitto non aggravato e che si ritiene di fissare come pena base può pertanto
essere ridotta ad anni sette. In quanto al dott. Piazza – che la denunzia
anonima indica chiaramente quale autore di un falso sia pure per favorire il
Gentile, la Corte ritiene che le prove della sua conoscenza non siano
sufficienti. Non è dato infatti accertare se il certificato da lui sottoscritto
sia ideologicamente falso e rilasciato con la coscienza e la volontà di
attestare il falso oppure sia frutto di superficialità e di equivoco nella
diagnosi determinata anche dal silenzio di coloro che assistettero alla visita
che egli la sera del 30 settembre indubbiamente fece alla D’Amico. L’equivoco
infatti non è del tutto da escludersi e non già per le cure che egli avrebbe
ordinate ma piuttosto a causa della piccola zona iperonica riscontrata dai
periti al polmone destro. Non c’è la prova certa che il dottor Piazza attestò
il falso per favorire il Gentile che era suo fittuario e perciò va assolto per insufficienza di
prove”. Nel processo furono impegnati
gli avvocati: Francesco Lugnano, Leopoldo Terracciano e Ciro Maffuccini.
Fonte: Archivio di Stato di
Caserta
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