GRAZIE AL CONTRIBUTO DELL’ARCHIVIO
FOTOGRAFICO
CARBONE DI NAPOLI
ABBIAMO AVUTO IMMAGINI INEDITE
Ve le proponiamo riassumendo il
duplice delitto del
MARCHESE LUCIANO CHIANESE
CHE UCCISE
I DUE FIGLI DEL SUO FATTORE
Pretendeva piantare un frutteto – Spalleggiato dai suoi dipendenti assassinò Salvatore e Giovannina Belardo . Una
latitanza di anni coperta da una omertà a dai suoi soldi. Una famiglia di contadini che In quella terra
oltre a versare il suo sudore ha versato anche il sangue.
L’ANTEFATTO
Il 4 marzo del 1953, metà della
famiglia Vincenzo Belardo (i figli
Salvatore e Giovannina) cadeva
tragicamente sotto i colpi di pistola di Luciano
Chianese e Antonio De Rosa.
Quale il motivo di questa strage? Sembra impossibile, ma la cruda realtà ci dimostra
che il delitto fu la reazione inumana
alla giusta opposizione alla consumazione di un sopruso. Il delitto, perciò,
nella sua essenza, oltre che per le conseguenze, è di una gravità eccezionale.
Quella dozzina di colpi di pistola che stroncarono due giovani vite è la esplosione più tipica
della prepotenza.
I precedenti remoti e quelli
immediati ci mostrano gli uomini con i loro veri volti e illuminano il delitto. Vincenzo Belardo, lavoratore della terra, nel 1947 dal suo paese
Giugliano in Campania, si trasferì con
tutta la famiglia nella desolata terra della tenuta “Bartolotto” in agro di Castel
Volturno. Con un contratto di mezzadria ampiò il podere di proprietà di Luciano Chianese (il marchese
apparteneva ad una nobile e ricca famiglia di Villaricca) e con il lavoro delle sue braccia, e di quelle della famiglia, iniziò un lavoro improbo: il dissodamento di
una terra incolta e molte volte ingenerosa. Gli anni passarono e la famiglia
Belardo continuò il suo duro lavoro con
piena soddisfazione del Chianese. Fino ad allora, cioè dal 1947 al 1953,
nessuno screzio era avvenuto tra il proprietario ed il mezzadro.
Dopo sei anni di massacrante
lavoro, quando la terra era stata portata, a costo di enormi sacrifici, ad un
discreto stato di coltivazione, tanto da potervi piantare un frutteto, i
Belardo si accorsero che Chianese voleva scalzarli da quella terra. Evidentemente Chianese riteneva esaurito il
loro compito e tentava per vie traverse di allontanarli. Infatti, il
proprietario sapendo di non poter battere la via maestra dello sfratto, sia per
ragioni giuridiche che per evidenti
motivi di convenienza iniziò una manovra subdola.
Nel 1952, infatti, si fece
cedere dal Belardo parte del terreno da questi condotto per piantarvi un
frutteto, rendendogliene una equivalente estensione in altro posto. La ragione
di questa scelta è evidente: la terra di
Belardo era stimata la migliore tanto da poter piantare una cultura pregiata
come il frutteto. E’ questa la riprova del duro lavoro fatto in quegli anni
dalla famiglia Belardo. Pur risolvendosi questa permuta ai danni dei Belardo,
tuttavia questi ammettevano pur di non dispiacere il Chianese. L’anno seguente
ciascuno ritornò al suo posto essendo il frutteto in gran parte fallito, però
si convenne che il Chianese sarebbe rimasto proprietario delle piante
superstiti (e qui è evidente il fraudolento mutamento da parte del Chianese del
contratto di mezzadria) con l’obbligo, però, di non sostituire le piante morte.
In sostanza il Belardo dopo un anno riaveva il suo fondo menomato dal fatto che
in esso vi erano delle piante da frutta di cui egli non aveva diritto.
Tuttavia, accettò la menomazione e continuò la lavorazione della terra.
E’ opportuno ricordare ciò che
i carabinieri scrivono nel loro rapporto a tal proposito: “Risulta allo scrivente che
Chianese è persona facoltosa mentre i Belardo sono contadini i quali con sforzi
sovrumani – perché hanno sempre lavorato come bestie – sono riusciti a
trasformare il fondo e renderlo sempre più fertile e redditizio e procurandosi
un discreto benessere in famiglia. Quanto ha dichiarato Vincenzo Belardo
– scrivono ancora i carabinieri nella loro informativa – circa il terreno tenuto a
mezzadria e le condizioni man mano imposte dal padrone è stato confermato da
molti contadini del vicinato”.
Chianese, dunque, menò piede
nel terreno dei Belardo piantandovi un frutteto
rimasto di sua esclusiva
pertinenza, riavuto il terreno che aveva dato in permuta al Belardo tentò il
colpo mancino. Nel marzo – ormai a coltivazione avanzata - si presentò nel fondo e pretese, in dispregio
a quanto era stato precedentemente convenuto, di sostituire le piante morte.
Ciò significava la estromissione completa del Belardo dal fondo perciò,
giustamente costui si oppose alla illegittima e fraudolenta pretesa del Chianese. L’opposizione dei Belardo creò
il putiferio nell’entourage del marchese. Essa non venne neppure discussa si
ricorse ai carabinieri. Il proposito del Chianese era di far intervenire i
carabinieri, per timore dei quali i Belardo avrebbero cambiato opinione. Ma i
carabinieri si dichiararono incompetenti e non si mossero. Chiesero se vi
fossero state minacce da parte dei Belardo ma la risposta fu negativa.
Allora i carabinieri, proprio per non
farli andare via a mani vuote, promisero
un intervento conciliativo per il giorno seguente. Chianese e De Rosa restarono
delusi, i Belardo si erano opposti, i carabinieri non ne avevano voluto sapere
e allora? Allora tirando le somme non
restava che la brutta figura che avevano fatto di fronte a se stessi, ai
Belardo e agli operai che avevano
portato da Villaricca.
IL
DELITTO
Qui conviene sorprendere gli
imputati nei loro atteggiamenti per poter spiegare in ogni aspetto il rapido e
sommario svolgimento del delitto. Fu nella caserma dei carabinieri che il
delitto sorse irrevocabile nella mente degli imputati. Chianese non poteva rassegnarsi al naufragio
della sua pretesa, perché egli – come dirà qualche istante prima della consumazione del delitto – in
quelle terre la legge la fa lui -.
Infatti, quando il brigadiere
dei carabinieri aveva già scritto i biglietti di invito per i Belardo per
l’indomani, quando sembrava che la questione dovesse decidersi sul piano
della discussione, sia pure con l’intervento amichevole dei carabinieri, il
marchese Luciano Chianese,
nell’andar via dalla caserma chiese al piantone Enrico Bonavita: “E se quelli (i Belardo) ci minacciano
dobbiamo sparare?”.
Che significa questo
linguaggio? Se si era rimasti d’accordo che
se ne sarebbe parlato l’indomani, com’è che il Chianese ne prospettò l’eventualità di essere minacciato?
Se l’impegno preso era quello di non andare, per quel giorno, dai Belardo, dove
la possibilità di ricevere minacce ad opera di questi? La verità è che Chianese
e De Rosa si infischiarono della mediazione offerta dai carabinieri e mentre questi tentavano di esperire una
conciliazione, essi già andavano con la loro mente al sopruso e alla violenza.
Questo è l’esempio tipico della rappresentazione dell’evento, anche se la sua
gravità e intimità dipendono dalle circostanze contingenti.
Nell’infausta giornata del 4
marzo Luciano Chianese e Antonio
De Rosa (spalleggiati da Vincenzo De
Rosa e Pietro Papa, armati di
tutto punto) si recarono due volte
presso i Belardo: una prima volta al mattino ed una seconda al pomeriggio e fu
in questa ultima occasione che avvenne il delitto. Ma quale la differenza dalla
prima alla seconda gita del Chianese? In
mattinata andò in compagnia del sola De Rosa a chiedere di poter eseguire la
sostituzione delle piante. In quel momento l’idea del delitto ancora non vi era
e Chianese sapeva che doveva chiedere il consenso del mezzadro. Nel pomeriggio
la situazione mutò. Chianese e De Rosa capeggiarono una vera e propria
spedizione punitiva, così come esattamente la definisce la requisitoria del
pubblico ministero. Eloquentissima la scorta armata di Pietro Papa e Vincenzo De Rosa! Ma perché De Rosa e Chianese
decisero di andare nuovamente dai Belardo? Non certo per chiarire perchè
Belardo la mattina era stato esplicito: “Solo se la legge ve lo consento vi farò
mettere le piante”, tanto è vero che Chianese ricorse ai carabinieri.
Non fu neppure per tentare un bonario componimento, perché tale tentativo era
stato rinviato all’indomani.
Chianese e De Rosa andarono
dai Belardo decisi a seminare le piante – anche con la violenza. La presenza
degli operai con i fasci di piante indica la irreversibilità della decisione
presa, mentre la scorta armata prova chiaramente di quali mezzi essi
intendevano avvalersi per tradurla in atto.
Irreversibilità che balza evidente dalle prime parole che il Chianese
pronunziò allorché ebbe al suo cospetto il Belardo.
Questi infatti disse: “Giunti
al cospetto il mio padrone disse: “ Belardo io debbo mettere le piante”. Io
risposi: “ Vuie i piante non e mittite; vediamo quello che fa la legge”. Lui
rispose: “Che legge e cazzo la legge la faccio io”. E rivolgendosi agli operai
diede ordine di piantare le pesche”.
Lo stesso dialogo viene
riferito da altra fonte attendibilissima dall’imputato Papa. “Il Chianese
rivolgendosi a Vincenzo Belardo
disse: “Belardo io debbo mettere le piante”, e Belardo rispose: “Vedete
se la legge dice che Le dovete mettere e le mettete”. Il Chianese
rispose: “Mettete le piante la legge la faccio io”. E così dicendo, sia il fattore che il mio padrone, tirarono fuori le pistole e cominciarono a
sparare”.
Il tentativo della difesa di
dare una versione diversa è miseramente
naufragato. I testi edotti – oltre che essere in evidenti contraddizioni – tra
di loro – cozzano contro le dichiarazioni di Pietro Papa e di Maria De Rasmi. In sostanza la difesa
vorrebbe accreditare che il primo a cadere fu Salvatore Belardo, ucciso da Antonio
De Rosa mentre tentava di entrare in casa per armarsi e che la Giovannina Belardo, fu uccisa per
errore e fu accidentalità nel tentativo da lui fatto di disarmare il Chianese.
Versione destituita da
qualsiasi fondamento. Perché Vincenzo
Belardo, Maria De Rasmi, e lo
stesso Pietro Papa, concordemente asseriscono, che la prima a cadere sotto i colpi fu la Giovannina Belardo. Infatti, il Salvatore Belardo, vista la sorella
cadere tentò di guadagnare la porta, ma fu inchiodato sulla soglia di essa, da
ben 9 colpi di pistola, di cui tre lo
attinsero e gli altri si conficcarono nella porta. Dall’autopsia del cadavere di Salvatore Belardo si rileva altresì che
egli fu colpito prima ancora che tentasse di guadagnare la porta. Infatti uno
dei colpi lo attinse mentre si trovava in posizione frontale al suo aggressore.
Il numero di colpi esplosi – non meno di undici – (sei sulla porta, tre sul
cadavere di Salvatore Belardo, e uno
su quello di Giovannina, e uno alla gamba del Vincenzo Belardo), dimostrano che il De Rosa e il Chianese
scaricarono quasi del tutto le loro pistole. Se non ci fu un terzo cadavere, lo
si deve sola alla forza della disperazione che spinse Vincenzo Belardo ad afferrare la pistola del Chianese, tanto che se
ne venne in mano un pezzo dell’arma rendendola così inutilizzabile.
IL
PROCESSO
Dopo ben 4 processi il
marchese venne condannato a 13 anni di
reclusione. Diciassette per il suo complice. I Belardo vennero risarciti con
100 milioni.
Luciano
Chianese, Antonio De Rosa, Pietro Papa e Vincenzo De Rosa, tratti a giudizio per duplice omicidio, innanzi la Corte di Assise di S. Maria C .V.,
presieduta da Giovanni Morfino, con
l’esclusione di Pietro Papa e Vincenzo De
Rosa, (presenti al delitto ma che non vi presero parte) la Corte condannò
il marchese Luciano Chianese (con le
attenuanti generiche e quelle del risarcimento del danno – i Belardo
incassarono circa 100 milioni delle
vecchie lire) a 13 anni di reclusione ed a 17 anni il De Rosa.
Nel processo furono impegnati
per la Parte civile: Avv. Giuseppe
Garofalo e Giovanni Porzio, per Belardo Vincenzo e D’Angelo Giuseppina. E per gli
imputati gli Avv.ti Luigi Palumbo,
Ciro Maffuccini, Alfredo De Marsico, Alberto Martucci, Pasquale Fortini, Orazio
Cicatelli Carlo Savelli, Velia Di Pippo,
Giovanni Leone, Francesco Lugnano.
L’avv. Porzio instaurò nella mente dei giudici
il dubbio che il Chianese, con le sue
larghe disponibilità, avesse potuto
comprare giudici e giurati…”il denaro, il denaro…”
Dal canto suo Giuseppe
Garofalo, tentò di parare il colpo, fornendo una versione dei fatti più aderente
alla realtà. “L’aggressione – disse
tra l’altro - fu di
una rapidità sconcertante e ben
riuscita, perché frutto di una ferma decisione. Dove sono le minacce ai danni
di Chianese e De Rosa che la difesa
vorrebbe sostenere? Innanzitutto non ne parla nessuno, allinfuori di
quei testi la cui attendibilità è da escludersi. Ma i Belardo non sono persone
da minacciare alcuno. Gli stessi carabinieri li descrivono lavoratori indefessi
e persone abituate a subire, tanto che l’anno prima padre e figlio furono
percossi da una sola persona. Figuriamo se capaci di pronunciare minacce di fronte a tante persone armate”.
“Pietro
Papa fornisce un elemento significativo della mitezza di Vincenzo Belardo
allorchè riferisce che il Belardo alla vista dei due figli cadaveri rivolto al
Chianese disse:” Obbirite che mavito fatto?”. In una tragedia così immane nel
fondo della voce del Belardo ci resta ancora il rispetto che egli ha umile
lavoratore della terra per il suo padrone. La posizione processuale di Antonio
De Rosa e del Luciano Chianese – chiarisce l’avvocato Garofalo
nella sua lunga ed appassionante arringa in difesa della parte delle vittime – è
altrettanto chiara e altrettanto chiara è quella di Pietro Papa e
Vincenzo De Rosa”.
E’
opportuno esaminare rapidamente la posizione di costoro, prima, durante e dopo
il delitto per trarne delle conseguenze gravi. Innanzitutto è chiaro che
entrambi gli imputati sapevano della questione avvenuta al mattino. Per uno era
interessato alla questione e ne andava del prestigio del padre, per l’altro la
questione interessava il suo padrone e non poteva non essere solidale. E’
gravissimo che entrambi si trovavano armati di fucili sul luogo del delitto.
Essi non sono intervenuti onde evitare incidenti. E’ vero che essi non avevano
l’obbligo giuridico di intervenire per evitare reati ma il loro mancato intervento è prova che essi
erano a conoscenza delle intenzioni del Chianese e del De Rosa. E quando vi è
la conoscenza delle intenzioni delittuosi di un individuo (limitate sia pure ad
un sopruso) non si va con lui armato a sostenerlo. a nulla vale in il dire che essi non sono
materialmente intervenuti nella esecuzione del delitto non avendo fatto uso
delle armi. In effetti non c’era più bisogno del loro intervento perché ormai gli altri due avevano già
sterminato quasi tutti i Belardo, non
c’era rimasto che il vecchio Vincenzo Belardo, ma questi era ferito e
disarmato.
E’
opportuno esaminare rapidamente la condotta di ciascuno dei due prima,
durante e dopo il delitto per trarre
delle conseguenze gravi. Vincenzo De
Rosa è armato sul posto del delitto a fare spalla forte al padre e al
Chianese suo datore di lavoro. Fugge insieme ai due dopo il delitto. Si diede alla
latitanza e, arrestato, nega la sua presenza sul luogo del delitto. Se egli non
ha nulla da rimproverarsi perché nega la sua presenza sul luogo del delitto?
Presenza provata da tutti i testimoni.
Pietro Papa assume preliminarmente di essere stato
armato da Antonio De Rosa che lo
aveva invitato ad accompagnarlo dai Belardo per sostituire delle piante.
E’ facile rilevare che questo lavoro non
si va a fare armato di fucile! Il fucile sarebbe stato scarico. E’ l’ultima
tavola di salvezza a cui tenta di aggrapparsi. Da quando in qua i contadini
girano per le campagne inospitali di Castelvolturno con i fucili scarichi? E
che se ne fa egli del fucile scarico se
glielo ha dato De Rosa? Inconsciamente – sostiene ancora l’avv.
Garofalo – l’imputato si è tradito. Fugge
dal luogo del delitto insieme agli altri e se questa circostanza può essere
giustificata per Vincenzo De Rosa – che doveva fare causa comune con il padre –
non può esserlo per il Papa Se egli fosse stato estraneo al delitto sarebbe
rimasto sia pure per tentare un ormai inutile soccorso alle vittime. Si rende latitante per alcuni giorni.
Interrogato dai carabinieri deduce di non ricordare nulla e nega di essere
stato presente al delitto. Solo in seguito al confronto con la teste Maria De
Rosmi – che lo riconosce – ammette di essere stato presente. Chianese e De Rosa
furono latitanti per anni
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