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sabato 20 ottobre 2018








La "cella zero" delle carceri disumane




A Poggioreale per decenni è esistito un luogo del terrore dove i detenuti venivano picchiati. Pratiche illegali che hanno preso piede anche in altri penitenziari, come dimostrano gli esposti dei Garanti dei detenuti del Lazio e del Piemonte.

 

"Solo una lampada accesa. Tutt'intorno il nulla, solo quattro mura sporche di sangue e muffa. All'inizio c'era un cappio appeso. Era l'illuminazione del terrore. Centinaia e centinaia di detenuti ci sono passati". Pietro Ioia è stato il primo che ha denunciato le torture e le violenze che avvenivano nella cosiddetta "cella zero" del carcere di Poggioreale a Napoli. Bastava un pretesto, una scusa qualsiasi e il detenuto veniva portato nella stanza al piano terra. Senza telecamere, senza finestre.

"Era il 1982 la prima volta che sono stato portato lì e picchiato", racconta Pietro. Erano, quelli, i tempi della guerra tra la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e la Nuova famiglia, una guerra i cui effetti si ripercuotevano anche sui penitenziari napoletani. "Noi ragazzini venivamo obbligati dai boss a custodire le armi in carcere. Ci fu un'irruzione dei Nocs. Furono loro che crearono una stanza del terrore per ottenere confessioni".

Così nasce la "cella zero". Che per oltre 30 anni è sopravvissuta nel silenzio totale. Ed è contando su tale silenzio che, secondo le testimonianze, la "squadra della Uno bianca" prelevava detenuti per riempirli di botte, calci, schiaffi. C'era Ciondolino, così chiamato dai detenuti per il rumore del suo voluminoso mazzo di chiavi; Melella, dal nome delle guance rosse che gli si facevano quando beveva; e poi Piccolo boss, 'O sfregiat, Zorro, Bei capelli. "Il mio compagno di cella era un lavorante addetto alla pulizia" racconta ancora Pietro che, uscito da Poggioreale, ha aperto un'associazione che raccoglie ex detenuti a Napoli.

"Quando un agente gli diceva "comincia dalla zero" capiva che la sera c'era passato qualcuno. E si metteva i guanti perché ci sarebbe stato tanto sangue da togliere". Un orrore che oggi è reso visibile dalle tante testimonianze che si sono susseguite a quelle di Ioia. Tutte oggi agli atti e tutte drammaticamente simili. Svegliati spesso nella notte, per futili o magari pretestuosi motivi, portati al piano terra, fatti denudare.


E lì minacciati, torturati, picchiati. Emblematica la storia di F., costretto a fare "molte flessioni ricevendo tra l'altro percosse e calci". Il giorno dopo, per via dei tanti dolori soprattutto al lato sinistro del viso, richiede una visita medica. Ma "era presente lo stesso agente che la sera prima aveva effettuato gli abusi che mi ha personalmente interrogato sui motivi della visita".

Peggio ancora è andata a un ex tossicodipendente che doveva scontare sei mesi di carcere, finito addirittura in coma con evidenti fratture ed ematomi sparsi in tutto il corpo. "Mi hanno portato nella cosiddetta "cella zero" per picchiarmi fino a farmi andare in coma, mi hanno colpito per tutto il corpo, anche ai testicoli per farmi perdere i sensi", ha denunciato pochi mesi fa intervistato da Fanpage.

Storie incredibili che raccontano di una pratica che, pur non coinvolgendo in toto la polizia penitenziaria, rischia di diventare un usus comune e reiterato nel tempo. A Napoli come, pare, anche a Viterbo. Il garante dei detenuti di Lazio e Umbria, Stefano Anastasia, solo pochi mesi fa ha consegnato in procura un esposto sulle violenze nel carcere Mammagialla di Viterbo. In quel documento si legge che almeno dieci detenuti sarebbero stati picchiati.

Nei locali doccia, sulle scale o in stanze in uso alla sorveglianza. Tutte zone lontane dalle telecamere di sicurezza. "Quando ci portano lì sappiamo che è per essere picchiati", ha ammesso un detenuto. Un altro, invece, ha raccontato di essere stato "trasportato presso le scale dell'istituto e lì un gruppo di circa dieci agenti di polizia penitenziaria" lo avrebbe pestato. Ma col volto coperto dai passamontagna per non farsi riconoscere.

Tra i ragazzi ascoltati da Anastasia c'era anche Sharaf Hassan, 21enne egiziano. Nell'esposto si legge che Hassan diceva di essere stato picchiato il 20 marzo "da alcuni agenti di polizia penitenziaria", i quali "con molta probabilità gli avevano lesionato il timpano dell'orecchio sinistro", perché "sentiva come il rumore di un fischio". Il ragazzo avrebbe mostrato le sue ferite al garante: segni rossi sulle gambe e tagli sul petto.

"Ho paura di morire", avrebbe detto. Pochi mesi dopo, il 23 luglio, Hassan è stato trovato morto in cella: si sarebbe impiccato con un asciugamano. Accertamenti, però, sono ancora in corso per capire cosa sia accaduto. E cosa accada ancora oggi a Viterbo: secondo quanto risulta a Left, sarebbero addirittura due le inchieste in corso sul Mammagialla.

Spostiamoci al Nord. Più precisamente a Ivrea. Già nella scorsa legislatura sono state presentate interrogazioni per l'utilizzo, anche qui, di una cella liscia. L'acquario, la chiamano. È lì che sarebbero stati portati alcuni detenuti la notte del 25 ottobre 2016, quando "le guardie hanno usato violenza indiscriminata. Chiamata la squadra di supporto da Vercelli e riuniti in forza, armati di idranti e manganelli hanno distrutto dei compagni detenuti riducendone due quasi in fin di vita".

Questa la denuncia che un detenuto è riuscito a far avere al garante in Piemonte, il quale ha immediatamente presentato un esposto. Un altro dei procedimenti nasce, invece, dalla testimonianza di due detenuti che, dallo spioncino del blindo che chiude il reparto "semiliberi", avrebbero visto gli agenti prelevare H. e pestarlo. Una circostanza che troverebbe conferma nel diario clinico di H., da cui si evince che anche il medico che l'ha visitato ha parlato di "sanguinamento nasale" e di "escoriazioni su gambe, braccia e polsi".

Interrogato, è stato lo stesso H. a raccontare cosa sarebbe accaduto: dopo la sua protesta perché voleva tornare nel reparto ordinario e andar via dall'isolamento, gli agenti lo avrebbero completamente bagnato con l'idrante antincendio e picchiato con calci, schiaffi e pugni in faccia e "nell'occasione mi rompevano anche il naso".

Ma i drammi non finiscono qui e spesso possono assumere anche tinte tragiche. Come nel caso di Alfredo Liotta. È il 26 luglio 2012 quando il suo corpo viene ritrovato ormai senza vita in una cella del carcere di Siracusa. All'inizio si dirà che Alfredo è morto per un presunto sciopero della fame. Peccato però che di tale sciopero non ci sia alcuna traccia nel diario clinico. I familiari avevano denunciato invano un dimagrimento di 40 kg tanto da ridurlo su una sedia a rotelle: solo dopo si capirà che Alfredo soffriva di una grave crisi anoressica di cui nessuno, in carcere, si sarebbe fatto carico.

Oggi per la morte del ragazzo sono imputate nove persone, ma c'è il rischio che non si giunga mai alla verità: dopo una serie di rinvii, la prima udienza è stata fissata per il 28 maggio 2019. "Abbiamo depositato una richiesta al presidente del tribunale per anticipare la trattazione del procedimento - spiega Simona Filippi, legale dell'associazione Antigone. Non si può far partire un processo a quasi sette anni dalla morte della vittima".

Dal tribunale, però, non è arrivata alcuna risposta. Di uguale negligenza sarebbe stato vittima Stefano Borriello: ha solo 29 anni quando muore nel carcere di Pordenone. Causa della morte: un'infezione polmonare. Di cui nessuno, neanche il medico della Casa circondariale, si sarebbe avveduto. E oggi proprio il medico è rinviato a giudizio perché avrebbe omesso di diagnosticare la malattia, non provvedendo ad alcune analisi che avrebbero "evidenziato con estrema probabilità" i caratteri della polmonite. Funziona così. Chi muore di polmonite e chi perché è caduto dalle scale.

Fonte: di Carmine Gazzanni/ Left, 19 ottobre 2018






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