La "cella zero" delle carceri
disumane
A
Poggioreale per decenni è esistito un luogo del terrore dove i detenuti
venivano picchiati. Pratiche illegali che hanno preso piede anche in altri
penitenziari, come dimostrano gli esposti dei Garanti dei detenuti del Lazio e
del Piemonte.
"Solo una lampada accesa.
Tutt'intorno il nulla, solo quattro mura sporche di sangue e muffa. All'inizio
c'era un cappio appeso. Era l'illuminazione del terrore. Centinaia e centinaia
di detenuti ci sono passati". Pietro Ioia è stato il primo che ha
denunciato le torture e le violenze che avvenivano nella cosiddetta "cella
zero" del carcere di Poggioreale a Napoli. Bastava un pretesto, una scusa
qualsiasi e il detenuto veniva portato nella stanza al piano terra. Senza
telecamere, senza finestre.
"Era il 1982 la prima volta
che sono stato portato lì e picchiato", racconta Pietro. Erano, quelli, i
tempi della guerra tra la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e la
Nuova famiglia, una guerra i cui effetti si ripercuotevano anche sui penitenziari
napoletani. "Noi ragazzini venivamo obbligati dai boss a custodire le armi
in carcere. Ci fu un'irruzione dei Nocs. Furono loro che crearono una stanza
del terrore per ottenere confessioni".
Così nasce la "cella
zero". Che per oltre 30 anni è sopravvissuta nel silenzio totale. Ed è
contando su tale silenzio che, secondo le testimonianze, la "squadra della
Uno bianca" prelevava detenuti per riempirli di botte, calci, schiaffi.
C'era Ciondolino, così chiamato dai detenuti per il rumore del suo voluminoso
mazzo di chiavi; Melella, dal nome delle guance rosse che gli si facevano
quando beveva; e poi Piccolo boss, 'O sfregiat, Zorro, Bei capelli. "Il
mio compagno di cella era un lavorante addetto alla pulizia" racconta
ancora Pietro che, uscito da Poggioreale, ha aperto un'associazione che
raccoglie ex detenuti a Napoli.
"Quando un agente gli diceva
"comincia dalla zero" capiva che la sera c'era passato qualcuno. E si
metteva i guanti perché ci sarebbe stato tanto sangue da togliere". Un
orrore che oggi è reso visibile dalle tante testimonianze che si sono
susseguite a quelle di Ioia. Tutte oggi agli atti e tutte drammaticamente
simili. Svegliati spesso nella notte, per futili o magari pretestuosi motivi,
portati al piano terra, fatti denudare.
E lì minacciati, torturati,
picchiati. Emblematica la storia di F., costretto a fare "molte flessioni
ricevendo tra l'altro percosse e calci". Il giorno dopo, per via dei tanti
dolori soprattutto al lato sinistro del viso, richiede una visita medica. Ma "era
presente lo stesso agente che la sera prima aveva effettuato gli abusi che mi
ha personalmente interrogato sui motivi della visita".
Peggio ancora è andata a un ex
tossicodipendente che doveva scontare sei mesi di carcere, finito addirittura
in coma con evidenti fratture ed ematomi sparsi in tutto il corpo. "Mi
hanno portato nella cosiddetta "cella zero" per picchiarmi fino a
farmi andare in coma, mi hanno colpito per tutto il corpo, anche ai testicoli
per farmi perdere i sensi", ha denunciato pochi mesi fa intervistato da
Fanpage.
Storie incredibili che raccontano
di una pratica che, pur non coinvolgendo in toto la polizia penitenziaria,
rischia di diventare un usus comune e reiterato nel tempo. A Napoli come, pare,
anche a Viterbo. Il garante dei detenuti di Lazio e Umbria, Stefano Anastasia,
solo pochi mesi fa ha consegnato in procura un esposto sulle violenze nel
carcere Mammagialla di Viterbo. In quel documento si legge che almeno dieci
detenuti sarebbero stati picchiati.
Nei locali doccia, sulle scale o in
stanze in uso alla sorveglianza. Tutte zone lontane dalle telecamere di
sicurezza. "Quando ci portano lì sappiamo che è per essere
picchiati", ha ammesso un detenuto. Un altro, invece, ha raccontato di
essere stato "trasportato presso le scale dell'istituto e lì un gruppo di
circa dieci agenti di polizia penitenziaria" lo avrebbe pestato. Ma col
volto coperto dai passamontagna per non farsi riconoscere.
Tra i ragazzi ascoltati da
Anastasia c'era anche Sharaf Hassan, 21enne egiziano. Nell'esposto si legge che
Hassan diceva di essere stato picchiato il 20 marzo "da alcuni agenti di
polizia penitenziaria", i quali "con molta probabilità gli avevano
lesionato il timpano dell'orecchio sinistro", perché "sentiva come il
rumore di un fischio". Il ragazzo avrebbe mostrato le sue ferite al
garante: segni rossi sulle gambe e tagli sul petto.
"Ho paura di morire",
avrebbe detto. Pochi mesi dopo, il 23 luglio, Hassan è stato trovato morto in
cella: si sarebbe impiccato con un asciugamano. Accertamenti, però, sono ancora
in corso per capire cosa sia accaduto. E cosa accada ancora oggi a Viterbo:
secondo quanto risulta a Left, sarebbero addirittura due le inchieste in corso
sul Mammagialla.
Spostiamoci al Nord. Più
precisamente a Ivrea. Già nella scorsa legislatura sono state presentate
interrogazioni per l'utilizzo, anche qui, di una cella liscia. L'acquario, la
chiamano. È lì che sarebbero stati portati alcuni detenuti la notte del 25
ottobre 2016, quando "le guardie hanno usato violenza indiscriminata.
Chiamata la squadra di supporto da Vercelli e riuniti in forza, armati di
idranti e manganelli hanno distrutto dei compagni detenuti riducendone due
quasi in fin di vita".
Questa la denuncia che un detenuto
è riuscito a far avere al garante in Piemonte, il quale ha immediatamente
presentato un esposto. Un altro dei procedimenti nasce, invece, dalla
testimonianza di due detenuti che, dallo spioncino del blindo che chiude il
reparto "semiliberi", avrebbero visto gli agenti prelevare H. e
pestarlo. Una circostanza che troverebbe conferma nel diario clinico di H., da
cui si evince che anche il medico che l'ha visitato ha parlato di
"sanguinamento nasale" e di "escoriazioni su gambe, braccia e
polsi".
Interrogato, è stato lo stesso H. a
raccontare cosa sarebbe accaduto: dopo la sua protesta perché voleva tornare
nel reparto ordinario e andar via dall'isolamento, gli agenti lo avrebbero
completamente bagnato con l'idrante antincendio e picchiato con calci, schiaffi
e pugni in faccia e "nell'occasione mi rompevano anche il naso".
Ma i drammi non finiscono qui e
spesso possono assumere anche tinte tragiche. Come nel caso di Alfredo Liotta.
È il 26 luglio 2012 quando il suo corpo viene ritrovato ormai senza vita in una
cella del carcere di Siracusa. All'inizio si dirà che Alfredo è morto per un
presunto sciopero della fame. Peccato però che di tale sciopero non ci sia
alcuna traccia nel diario clinico. I familiari avevano denunciato invano un
dimagrimento di 40 kg tanto da ridurlo su una sedia a rotelle: solo dopo si
capirà che Alfredo soffriva di una grave crisi anoressica di cui nessuno, in
carcere, si sarebbe fatto carico.
Oggi per la morte del ragazzo sono
imputate nove persone, ma c'è il rischio che non si giunga mai alla verità:
dopo una serie di rinvii, la prima udienza è stata fissata per il 28 maggio
2019. "Abbiamo depositato una richiesta al presidente del tribunale per
anticipare la trattazione del procedimento - spiega Simona Filippi, legale
dell'associazione Antigone. Non si può far partire un processo a quasi sette anni
dalla morte della vittima".
Dal tribunale, però, non è arrivata
alcuna risposta. Di uguale negligenza sarebbe stato vittima Stefano Borriello:
ha solo 29 anni quando muore nel carcere di Pordenone. Causa della morte:
un'infezione polmonare. Di cui nessuno, neanche il medico della Casa
circondariale, si sarebbe avveduto. E oggi proprio il medico è rinviato a
giudizio perché avrebbe omesso di diagnosticare la malattia, non provvedendo ad
alcune analisi che avrebbero "evidenziato con estrema probabilità" i
caratteri della polmonite. Funziona così. Chi muore di polmonite e chi perché è
caduto dalle scale.
Fonte: di Carmine Gazzanni/ Left, 19
ottobre 2018
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