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mercoledì 2 gennaio 2019







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martedì 10 maggio 2016


Venerdì 13 maggio, alle ore 14,30, presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa  in Napoli



In occasione della inaugurazione del Corso di Balistica Forense e Scena del Crimine


RIEVOCAZIONE DEL PROCESSO PER IL DELITTO DEL SINDACALISTA SALVATORE CARNEVALE CON QUATTRO PERIZIE BALISTICHE

Sommario:  Sarà l’Avv. Giuseppe Garofalo, penalista, che era il difensore della mamma della vittima, a ricostruire il  processo alla mafia siciliana.  Ne furono protagonisti inoltre: Sandro Pertini, Giovanni Leone, Pietro Nenni, Alfredo De Marsico, Ettore Botti, Pietro Scaglione, (l’alto magistrato assassinato da Luciano Liggio) Giovanni e Francesco Porzio. Lo scrittore Carlo Levi ne trasse il libro “Le parole sono pietre”. Paolo e Vittorio Taviani dalla vicenda ne fecero il film “Un uomo da bruciare”. Il delitto avvenne nel 1955 a Sciara,  in Sicilia nel latifondo della famiglia della principessa  Notarbartolo.  Il processo  fu assegnato nel 1961 per legittima suspicione alla Corte di Assise di  Santa Maria Capua Vetere. Quattro perizie balistiche.




 Venerdì 13 maggio, alle ore 15.00, presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa in Napoli, in occasione della inaugurazione del Corso di Balistica Forense e Scena del Crimine, organizzato dal Formed di Caserta, in convenzione con la suddetta Universita’,Giuseppe Garofalo, penalista, scrittore e storico terrà una “lectio magistralis” su un processo celebratosi per legittima suspicione nel 1961, presso la Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

 Fu il primo processo in cui la perizia balistica rappresentò un dato essenziale ai fini  dell’accertamento delle responsabilità.  In realtà, tre anni di dibattimenti, imperniati su controverse perizie balistiche, non  chiarirono  se i proiettili trovati sul luogo dell’uccisione furono sparati dalle armi degli imputati. Basterà ricordare quale fu lo scontro degli  “esperti” .

 Infatti uno dei punti centrali su cui si svolgeva la lotta fra i difensori e i legali della parte civile era questo: se i bossoli trovati vicino al cadavere di Salvatore Carnevale appartenevano o no alle cartucce sparate da otto fucili sequestrati durante le indagini, perché di proprietà di alcuni imputati. La prima perizia, fatta però solo su quattro fucili (gli altri non erano stati ancora trovati), fatta dal prof. Ideale Del Carpio, dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Palermo e da un ufficiale di artiglieria, Paolo Cutitta, lo escluse. 

La seconda e la terza perizia, ( richieste espressamente dall’avv. Giuseppe Garofalo) compiute dal tenente colonnello Giuseppe Brundo Cateno, pure del servizio tecnico di Artiglieria e direttore pirotecnico di Capua, stabilirono che quattro di quei bossoli erano stati esplosi dai fucili sequestrati. La quarta perizia, compiuta da tre esperti di “chiara fama” tutti del servizio tecnico di Artiglieria, il maggiore generale Roberto Boragine, il tenente colonnello Vincenzo Vecchione, e il maggiore Fulvio Pettirossi, dette pienamente torto al direttore del pirotecnico, affermando che nessuno di quei bossoli era mai stato toccato dai percussori delle otto armi da caccia (nel frattempo erano stati sequestrati anche gli altri quattro fucili). 


 Fu  un vero e proprio processo alla mafia e non solo il processo agli assassini. Un delitto efferato, rimasto impunito. Due colpi alla testa ed uno in bocca. Così muore Salvatore Carnevale, sindacalista, socialista, vicino a una cava di pietra. Quel cervello non deve più funzionare, quella bocca non deve più parlare. E’ il 6 marzo 1955,  a Sciara in Sicilia, Carnevale aveva organizzato i contadini e occupato le terre incolte. Ora lavora nella cava, undici ore al giorno, per lui niente diritti. Organizza uno sciopero, un successo. 

Lo minacciano, non cede. Tre giorni dopo l’ammazzano, perché chi deve capire capisca. Questa è la storia di un processo-farsa, con i testimoni che fanno i nomi dei mafiosi, e alla fine non vengono creduti. Uno di loro ritratta, viene messo in carcere. Ma nella stessa cella degli imputati. E la sua memoria svanisce.  Il processo che ne seguì fu un parterre sul quale si avvicendarono nomi importanti della storia del nostro Paese. Sandro Pertini, (poi nominato Presidente della Repubblica), in difesa di Francesca Serio, madre del giovane assassinato barbaramente; Giovanni Leone, (altro Presidente della Repubblica) in difesa di un imputato. Fu il magistrato  Pietro Scaglione (che sarà poi assassinato da Luciano Liggio nel 1971) a chiedere il rinvio a giudizio dei quattro “campieri” per l’omicidio del sindacalista. 

Lo scrittore Carlo Levi,  nel suo  libro “Le parole sono pietre”, descrisse come una donna “di bellezza dura, asciutta, violenta, opaca, come una pietra, spietata, apparentemente disumana”,Francesca Serio, la madre coraggio che – per la prima volta – sfidò la mafia. Nel 1962,Paolo Vittorio Taviani dalla vicenda realizzarono  il film “Un uomo da briciare”, con Gian Maria VolontèMarina Malfatti e Turi Ferro. Premiato dalla critica alla Mostra di Venezia. L’avv. Alfredo De Marsico, alla richiesta dei quattro ergastoli pronunciò un’arringa di 4 ore in difesa degli imputati esordendo con queste parole: “Signori della Corte, voi parlate con una persona che è stata ministro della Giustizia e poi condannata a morte in contumacia”


 A Santa Maria Capua Vetere, per la parte civile anche l’avv. Giuseppe Garofalo, su personale sollecitazione di Pietro Nenni, allora leader del Partito Socialista.  In appello la pubblica accusa fu sostenuta dal famigerato Roberto Angelone, mentre in Cassazione (molto criticato per le sue parole) dal Procuratore Generale Tirro Parlatore. La sentenza della Corte di Assise di Appello di Napoli “stracciò” letteralmente quella di primo grado, assolvendo tutti gli imputati.

 Un delitto, insomma che – con le stesse prove – merita a S. Maria C.V. l’ergastolo e nello stesso tempo a Napoli l’assoluzione. Questa sembra essere una delle grandi contraddizioni della giustizia in Italia. La Corte di Assise di primo grado fu presieduta da Prisco Palmiero, giudice a latere Giulio Tavassi, Pubblico Ministero, Nicola Damiani. All’ergastolo furono condannati per l’assassinio del sindacalista:  Giorgio PanzecaLuigi Tardibuono, (morto nel carcere di Santa Maria perché sofferente di cuore,  qualche mese prima del giudizio di appello: 1963), Antonino Mangiafridda  Giovanni Di Bella. 



Nei tre gradi di giudizio furono inoltre impegnati gli avvocati: Antonio Schettino, Ciro Maffuccini,  Giuseppe Cordone, Ettore Botti, Carlo Cipullo, Salvatore Mornino, Giuseppe Di Giovanni, Francesco Porzio, Giovanni Porzio, Pompeo Rendina, Lelio Basso, Francesco Taormina, Antonino Sorge Clemente La Porta.

















sabato 3 marzo 2012



I grandi processi della Corte di Assise di S. Maria C.V. –

Processo alla mafia - ERGASTOLO PER I PRESUNTI ASSASSINI DEL SINDACALISTA SALVATORE CARNEVALE UCCISO IN SICILIA

La Corte di Assise fu presieduta da Prisco Palmiero, giudice a latere Giulio Tavassi, P.M. Nicola Damiano. Questi gli avvocati per gli imputati: Antonio Schettino, Ciro Maffuccini, Alfredo De Marsico, Giuseppe Cordone, Ettore Botti, Carlo Cipullo, Salvatore Mornino, Giuseppe Di Giovanni, Francesco Porzio, Giovanni Porzio e Giovanni Leone. Invece per la parte civile: Sandro Pertini, Pompeo Rendina, Giuseppe Garofalo, Lelio Basso, Francesco Taormina, Antonino Sorge e Clemente La Porta. In occasione del processo Carlo Levi scrisse un libro sulla vicenda: “LE PAROLE SONO PIETRE”- Ucciso da Liggio il giudice Nicola Scaglione che aveva firmato la requisitoria per il rinvio a giudizio. La madre della vittima FRANCESCA SERIO, parte civile, venne nella nostra città e per ordine di Pietro Nenni venne difesa da Giuseppe Garofalo. L’incontro con la Serio e la professoressa Maria Luisa Chirico e l’evento Gomorra del 2006 con Roberto Saviano

SANTA MARIA CAPUA VETERE (Caserta) - (di Ferdinando Terlizzi)
– Ricordo particolarmente questo processo, celebratosi nell’aula della Corte di Assise di S. Maria C.V., quando avevo appena 24 anni ( oggi ne conto 71 ) e da poco avevo avuto approccio presso le redazioni dei giornali ( a quell’epoca frequentavo la redazione de “IL TEMPO”, diretta da Riccardo Scarpa, con Franco Tontoli e Nicola Barletta: una vera fucina di buoni giornalisti. Scarpa era anche il direttore-redattore della “Gazzetta di Caserta” Edita da Cavallina, alla quale io avevo iniziato a collaborare, poi sono passato al “laboratorio” di Federico Scialla, allorquando iniziai a collaborare con il “Napoli Notte” e “Il Roma” ). Ricordo, non senza qualche emozione, quella sera scura e fredda del 21 dicembre del 1961, allorquando, Prisco Palmiero, presidente della locale Corte di Assise (padre del capo della Digos di Caserta dr. Vincenzo Palmiero) aveva “affibbiato” quattro ergastoli ai campieri siciliani, accusati del delitto del sindacalista Salvatore Carnevale, detto Turiddu, avvenuto a Sciara, in Sicilia, il 16 maggio del 1955. E ricordo anche che, proprio nel 1963, quando stava per iniziare il processo ad Aurelio Tafuri ( sul quale ho scritto un libro, che sarà prossimamente pubblicato con il titolo “Il delitto di un uomo normale”) era in discussione, in grado di appello, il processo a carico di Antonino Mangiafridda, Giorgio Panzeca, Giovanni Di Bella e Luigi Tardibuono ( quest’ultimo morto in carcere prima dell’appello ), accusati di far parte della mafia di Sciara e di essere autori e mandanti del delitto Carnevale. Turiddu era socialista, sindacalista della Cgil e lavorava in una cava di pietre che faceva parte del feudo della famiglia della principessa Notarbartolo costituito da una estensione di 1400 ettari di terra. Il padre della principessa Notarbatolo, barone e notaio era stato assassinato nel 1893 dalla mafia siciliana per ordine dell’On. Palizzolo.
Il primo omicidio eccellente: il delitto Notarbartolo
Il 1° febbraio 1893 su un treno proveniente da Messina, nel tratto fra Termini Imerese e Trabia, veniva ucciso con ventisette coltellate Emanuele Notarbartolo, politico siciliano, uomo eccellente per onestà e abilità amministrativa. Nonostante l’arma del delitto, usata per lo più nei delitti passionali, la “voce pubblica” ipotizzò un delitto di mafia. Il procuratore generale Sighele, inoltre, parlò di “alta mafia” nella relazione al guardasigilli del 26 febbraio 1894. Per cercare di capire questo fatto di sangue che, per la prima volta, nel 1894 aveva visto come protagonista un uomo politico, è necessario chiedersi chi fosse Notarbartolo e quale fosse il suo ruolo nel contesto storico politico siciliano e italiano. Marchese di San Giovanni, discendente dei duchi di Villarosa, Emanuele Notarbartolo aderì da giovane alla causa garibaldina unendosi ai Mille e si distinse nelle battaglie di Milazzo e nell’occupazione di Messina. Nel periodo in cui fu sindaco di Palermo, dal 1873 al 1876, trasformò la città in un grande cantiere completando il mercato degli Aragonesi, la copertura del Politeama, diede il via all’ammodernamento della rete viaria, il collegamento della stazione centrale con il porto, posò la prima pietra per la realizzazione del teatro Massimo. Durante il suo mandato combatté il fenomeno della corruzione nelle dogane. Risanò le finanze comunali attirandosi per questo molti nemici i quali cercarono in ogni modo di isolarlo, mettendolo nella condizione di dover lasciare l’incarico. Dal 1876 al 1890 fu presidente del Banco di Sicilia. La situazione del Banco di Sicilia all’arrivo di Notarbartolo era disastrosa: l’istituto si trovava quasi sull’orlo del fallimento derivante da speculazioni azzardate e un’amministrazione a dir poco avventurosa, la quale aveva permesso l’utilizzo agli speculatori di un capitale di otto milioni e ottocento mila lire e una riserva metallica di tredici milioni. Per risanare l’istituto Notarbartolo optò per un regime di austerità, invitando, da un lato, i direttori delle sedi a far rientrare i clienti più scoperti e consentire crediti solo ai titoli protetti da solide garanzie e, dall’altro, denunciando i nomi degli speculatori all’allora Ministro dell’agricoltura Micieli. La strategia ebbe in ben quattro anni ottimi risultati. Allo stesso tempo apportò modifiche allo statuto dell’istituto in modo da eliminare le componenti politiche in favore di quelle essenzialmente commerciali. Questo inasprì ancora di più gli animi dei suoi nemici al punto da ordinarne l’omicidio. Il delitto fu eseguito da due uomini, armati rispettivamente di pugnale triangolare e coltello a lama larga a doppio taglio con il manico d’osso. Le prime indagini si concentrarono subito sul conduttore del treno, Giuseppe Carollo, il quale fu arrestato immediatamente dopo l’omicidio dalla polizia ferroviaria. Questi, incorso in varie contraddizioni fin dal primo interrogatorio, fu ritenuto il maggiore indiziato. Ma già agli inizi dell’estate dello stesso anno si assistette ad una clamorosa rivelazione ad opera del carabiniere Giuseppe Garrito, il quale dichiarò di essere venuto a conoscenza di un brindisi a favore della morte di Notarbartolo avvenuto nella tenuta La Montagnola, di proprietà dell’on. Palizzolo, brindisi tenuto da un gruppo di mafiosi. Un successivo rapporto dei carabinieri indicava come esecutore materiale Giuseppe Fontana, autore di almeno venti omicidi dei quali era stato assolto per insufficienza di prove. Questi, “intimo” di Palizzolo, era il capo della cosca di Villabate, che a quei tempi contava oltre 240 affiliati, dei quali almeno 24 avevano brindato a La Montagnola. Gli indizi raccolti non furono ritenuti sufficienti dal Tribunale di Palermo che emise una sentenza di assoluzione nei confronti di tutti gli imputati, senza sentire neppure come teste il Palizzolo. Due anni più tardi, nel 1895 un detenuto, Augusto Bartolani, dichiarò sotto giuramento che responsabili del delitto Notarbartolo erano il ferroviere Carollo e il killer Fontana. Tali dichiarazioni indussero la magistratura di Palermo a riaprire il caso, ma anche stavolta il Fontana fu assolto per insufficienza di prove, mentre Carollo e Baruffi, anch’egli ferroviere, furono rinviati a giudizio. Il figlio della vittima, Leopoldo, il quale si era sempre battuto per ottenere giustizia, riuscì a mobilitare l’opinione pubblica, in particolare Colajanni e De Felice Giuffrida, e, costituendosi parte civile, ottenne il rinvio del processo a Milano per legittima suspicione. Leopoldo Notarbartolo denunciò in tribunale la dilagante corruzione del Banco di Sicilia e i suoi sospetti su Raffaele Palizzolo. Con don Palizzolo, “u Cignu”, come fu detto, il marchese Notarbartolo si era più volte scontrato in passato, per aver cercato di ostacolarne le spregiudicate operazioni finanziarie di cui l’onorevole si era reso autore. Le carte processuali dimostrano in maniera copiosa che la mano omicida fu mafiosa e che il Palizzolo era un bravo “guanto giallo” sempre in ottimi e intimi rapporti con i mafiosi. L’istruttoria, infatti, evidenziò vecchi sodalizi fra il deputato parlamentare siciliano e la malavita palermitana e trapanese, a favore della quale egli si era prodigato più volte ottenendo scarcerazioni e riduzioni delle pene, al fine di conquistarne il sostegno elettorale. Il processo di Milano, inoltre, evidenziò un sistema di corruzione generale che coinvolgeva le istituzioni dello Stato. Divennero in tal senso imputati la mafia e le istituzioni statali presenti in Sicilia. Per la prima volta l’opinione pubblica sentì parlare di “mafia”, termine nuovo, associato al territorio siciliano e che vedeva nell’atteggiamento omertoso degli imputati, tenuto durante tutto il corso del processo, un carattere peculiare. Il processo di Milano si concluse con la condanna solo degli autori materiali del delitto. Il vero processo a carico di Palizzolo si svolse dinnanzi alla Corte d’Assise di Bologna nell’autunno 1901, dopo che l’anno precedente era giunta l’autorizzazione a procedere da parte del Parlamento nazionale con 230 voti favorevoli e soltanto 18 contrari. Palizzolo era diventato “l’onorevole padrino”, il simbolo dei connubi fra mafia e politica. Dalla Corte bolognese Palizzolo fu condannato a trenta anni di reclusione insieme a Fontana, mentre Garufi e gli altri imputati furono assolti. Il clima di generale indignazione e di superficiale classificazione nei confronti della Sicilia, che si era instaurato durante i processi portò all’esplosione di vive reazioni di protesta da parte dei siciliani, ma anche di autorevoli intellettuali fra cui Pitrè e De Roberto. Essi, infatti, costituirono un Comitato pro-Sicilia per riscattare l’isola da tali infamie. Quale potè essere il motivo di una simile scelta? Essi, in realtà, volevano riscattare la Sicilia da quell’onta mafiosa che già da processo di Milano era stata attribuita a quel territorio, volevano evitare che il termine “mafia” potesse connotare tutti i siciliani, anche i siciliani onesti. Tali proteste, unite all’interessamento da parte di Cosa Nostra della vicenda Palizzolo, portarono alla inattuazione della sentenza bolognese, la quale venne portata in Cassazione e poi definitivamente annullata con il rinvio alla Corte di Assise di Firenze. Ritorna a Palermo su una nave, a mo quasi di trionfo Raffaele Palizzolo, onorevole e consigliere d’amministrazione del Banco di Sicilia, il quale, dopo esserci arricchito con la liquidità dei risparmiatori, esser stato condannato per l’omicidio di colui che era stato preposto all’istituto di credito per risanarne la situazione, fu assolto e acclamato dal popolo siciliano che preferì lasciare un delitto insoluto piuttosto che vedersi attribuito l’appellativo di “ mafia”.
Il processo a Santa Maria per l’assassinio del sindacalista Carnevale
Francesca Serio, madre coraggio, che Carlo Levi nel suo “Le parole sono pietre”, descrisse come una donna “di bellezza dura, asciutta, violenta, opaca, come una pietra, spietata, apparentemente disumana”, venne nella nostra città, per testimoniare contro gli assassini del figlio. Recentemente, il 28 maggio del 2006, a S. Maria C.V., in occasione della presentazione del libro di Roberto Saviano “Gomorra”, la professoressa Maria Luisa Chirico ha voluto ricordare con una intervista ad un giornale locale i giorni in cui la Francesca Serio andò a Frignano dove, nell’occasione, fu intitolata al figlio Salvatore la locale sezione del P.S.I. Nella circostanza vi furono discorsi dei politici locali e di esponenti di spicco del P.S.I. come Vittorio Giordano, Pasquale Schiano e Vincenzo Chirico, per lungo tempo sindaco di Frignano, padre della docente universitaria Maria Luisa. Il processo per il delitto del sindacalista siciliano, fu trasferito a S. Maria C.V., con un provvedimento della Cassazione per motivi di ordine pubblico. Gli avvocati della mamma di Salvatore furono prima Sandro Pertini, futuro Presidente della Repubblica, che accompagnò personalmente la Francesca Serio, presso la Procura di Palermo, per presentare un esposto con il quale accusò dell’orrendo omicidio la mafia di Sciara e poi in dibattimento Giuseppe Garofalo ( su personale sollecitazione di Pietro Nenni ) ed infine l’On. Francesco Taormina, Deputato Regionale Sicliano per il PSI. Fu il Procuratore Generale di Palermo, Pietro Scaglione (che sarà poi assassinato da Luciano Liggio nel 1971 ) a chiedere il rinvio a giudizio dei quattro “campieri” per l’omicidio del sindacalista. Nel giudizio di secondo grado, fece la sua comparsa, quale difensore di Antonino Mangiafridda, Giovanni Leone, anche lui in futuro, destinato a ricoprire l’alto incarico di Presidente della Repubblica. Ma non basta. Anche Alfredo De Marsico ( entrambi sono presenti nel processo ad Aurelio Tafuri ) era già presente in questo processo quale difensore di Giovanni Di Bella. In appello la pubblica accusa fu sostenuta dal famigerato Roberto Angelone, mentre in Cassazione ( molto criticato per le sue parole ) dal Procuratore Generale Tirro Parlatore. La sentenza della Corte di Assise di Appello di Napoli “stracciò” letteralmente quella di primo grado, assolvendo tutti gli imputati. Un delitto, insomma che – con le stesse prove – merita a S. Maria C.V. l’ergastolo e nello stesso tempo a Napoli l’assoluzione. Questo sembra essere una delle grandi contraddizioni della giustizia in Italia. Ma torniamo alla mafia e al suo delitto. Due colpi in testa, uno in bocca. Così muore Salvatore Carnevale, sindacalista, socialista, vicino a una cava di pietra. Quel cervello non deve più funzionare, quella bocca non deve più parlare. E’ il 6 marzo 1955, Carnevale aveva organizzato i contadini e occupato le terre incolte. Ora lavora nella cava, undici ore al giorno, per lui niente diritti. Organizza uno sciopero, un successo. Lo minacciano, non cede. Tre giorni dopo l’ammazzano, perché chi deve capire capisca. Questa è la storia di un processo-farsa, con i testimoni che fanno i nomi dei mafiosi, e alla fine non vengono creduti. Uno di loro ritratta, viene messo in carcere. Ma nella stessa cella degli imputati. E la sua memoria svanisce. In primo grado gli ergastoli. In appello e in Cassazione sentenza annullata. C’è una Madre Coraggio, Francesca Serio. Mamma Carnevale non avrà giustizia, non toglierà il velo nero del lutto. Un delitto di mafia rimasto impunito. Come tanti delitti di camorra. E mi domando “non sono forse questi delitti perfetti?”.

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