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mercoledì 27 maggio 2020





A Casaluce un natale di sangue del dicembre 1954
Una macchina sgommando fece imbizzarrire il cavallo. La reazione del guidatore sfociata in un delitto

 Gaetano Di Bello di anni 21, da San Cipriano d’Aversa, venne inseguito da un mandato di cattura – firmato dal giudice istruttore, Vincenzo Cimmino e accusato dell’omicidio di Paride Romolo Pagano, di anni 20, per averlo ucciso con un colpo di pistola, che spaccava in due la testa dell’avversario, il 19 dicembre del 1954 in Casaluce. Subito dopo il suo gesto si dava alla latitanza. A marzo dell’anno successivo l’assassino veniva catturato.  Intanto il P.M. chiedeva il rinvio a giudizio di Gaetano Di Bello innanzi alla Corte di Assise per omicidio volontario aggravato.  Diverse e contrastanti erano però state le deposizioni dei presenti che avevano ribaltato le asserzioni del Di Bello. Antonio Iorio, che aveva chiesto un passaggio sul biroccio e che per poco non ci rimise la pelle dichiarò: “Nel corso della lite il Di Bello ha preso la pistola che portava nel cassettino del biroccio – sotto il cuscino ove eravamo seduti – ed ha tirato un colpo all’avversario colpendolo alla testa. Né il ferito né lo Statuto avevano armi”.  

Significativa fu anche la deposizione di Rodolfo Statuto il quale dichiarò: “Il Di Bello aveva fermato il calesse ed aveva detto rivolto all’autista: “Così si fanno le curve?”. Al che l’autista aveva risposto: “Non vedi che vado piano?”. La discussione era proseguita ed il Di Bello preso una pistola automatica che teneva sotto il cuscino del calesse si era precipitato verso la macchina ed aveva costretto il Pagano a scendere a terra. Esso Iorio aveva tenuto di far allontanare il Di Bello che era per venire alle mani con il Pagano che da parte sua non mostrava di avere intenzioni di litigare ed era alla me dell’ira dell’altro ma il Di Bello gli aveva gridato: “Levati che adesso me la vedo io”.  Immediatamente il Di Bello aveva sparato un colpo di pistola e il Pagano - che trovavasi ad un metro dall’avversario -  si accasciava al suolo”.

Nel prosieguo del dibattimento lo Iorio – nella vana speranza di aiutare il suo amico – aveva cambiato registro- cioè erano stati gli occupanti della macchina ad aggredire il Di Bello e che il colpo era partito accidentalmente. Puntualizzò, addirittura, che lui ed il Di Bello datisi alla fuga – erano stati sparati con colpi di pistola e fucili dal padre di Rodolfo Statuto. Che infine egli era stato raggiunto e fermato da un fratello di Rodolfo Statuto che gli aveva puntato contro una pistola e che era stato condotto in casa di una donna a Casapesenna e poi in Caserma dai carabinieri. Questi ultimi indagarono anche sui rapporti tra il Pagano e lo Statuto e venne fuori che i due erano stati coinvolti in altri casi di violenza e minacce per incidenti stradali. Il Pagano in effetti lavorava come muratore presso l’impresa edile dello Statuto. Giovanni Manfellotti e Nicola Guarino avevano raccontato, l’uno che nel dicembre del 1954 mentre era alla guida di un autobus della ditta Vozza di Casagiove era stato aggredito dallo Statuto e dal Pagano solo per aver fatto loro rilevare che l’auto aveva eseguito una manovra pericolosa. Mentre il secondo aveva avuto a Melito una questione con lo Statuto.

I carabinieri sulla questione della sparatoria sui fuggitivi da parte del fratello e del padre dello Statuto riferirono che Raffaele e Domenico Statuto avevano respinto l’accusa limitandosi a dire che loro avevano semplicemente inseguiti in motocicletta i due, insieme a tale Antonio Giangrande e una volta fermati e condotti prima presso l’abitazione di tale Albina Veneziano e poi alla caserma dei carabinieri.





 

La versione dell’assassino non confermata però dalle perizie balistiche a da quella autoptica e smentita dai testi oculari

Gaetano Di Bello in merito al delitto dichiarò: “Verso le 13 e 30 del 19 dicembre del 1954 partii da casa con un biroccio trainato da un cavallo, per strada un tale Armando Iorio, diretto come me a Casaluce mi chiese un passaggio. Erto diretto in quella località perché dovevo riscuotere una somma di denaro da tale Carmine Messina al quale in precedenza avevo venduto  una partita di paglia. A Frignano Maggiore prese posto nel biroccio anche Nazzareno Festeggiato che era stato il mediatore. Giunsi a Casaluce nel Corso principale procedevo a passo d’uomo quando tutto d’un tratto – proveniente dalla strada di Teverola –sbucò una macchina Fiat 500 Belvedere (poi si accertò che era guidata da Adolfo Statuto) la quale improvvisamente abbordò la curca e per poco non ci investì. Il cavallo si imbizzarrì. Io protestai vivamente: “Sono questi i modi di fare una curva?”. E l’autista di rimando: “ Perché forse la sai fare meglio tu?”.  La macchina si fermò. Ne discese l’autista ed altra persona sbattendo le portiere con veemenza e avvicinandosi minacciosi verso di noi. Intanto l’altro occupante Iorio era sceso per tenere il cavallo per la biglia, mentre io lo tenevo per le redini stando seduto sul biroccio. In quel frangente il compagno dell’autista si avventò contro il mio amico Iorio prendendolo a pugni e schiaffi afferrandolo per il bavero della giacca. Poiché lo Iorio era menomato ad un braccio io – vistolo in pericolo – scesi per aiutarlo. Poi l’aggressore di Iorio lasciò costui e si avventò contro di me prendendo a pugni e schiaffi dicendomi: ”Mo vi imparo io a fare gli uomini”. Poiché anche l’altro occupante della macchina si avviava contro di me con faro minaccioso per difendermi dalla duplice aggressione estrassi la pistola e con essa impugnandola con la canna colpii la testa della persona che poi ho saputo chiamarsi Paride Pagano. Appena lo colpii partì un colpo di pistola. Sono certo di non aver esploso il colpo volontariamente perché io non avevo neppure il dito sul grilletto. Io non avevo alcuna intenzione di fare fuoco contro il Pagano altrimenti avrei potuto farlo avendolo a brevissima distanza da me e potendo mirare all’addome. Appena esplose il colpo mi diedi alla fuga. Dietro di me correva Iorio. Percorso un certo tratto di campagna sentii esplodere vari colpi di armi da fuoco di fucile e di pistola. Mi voltai e mi accorsi che gli sparatori erano l’autista della macchina che impugnava una pistola e l’altro che sparava con un fucile. Volendo avrei potuto far fuoco contro costoro-  che attentavano alla mia vita – ma ne ne astenni per non “inguaiarmi”. Sono certo che i due volessero uccidermi perché sentivo le pallottole che fischiavano alle mie orecchie. All’incrocio della nazionale Capua-Aversa lo Iorio fu raggiunto da 2 persone a bordo di una motocicletta che aveva attraversato una strada campestre.  I due smontati dalla moto fermarono lo Iorio e fattole alzare le mani gli puntarono l’arma in faccia. Nello stesso tempo uno dei due esplose un colpo di pistola al mio indirizzo. Io aumentai la mia corsa e non so che fine abbia fatto il mio amico Iorio.

La sentenza: Agì  per un impulso dovuto alla  propria dell’età giovanile e non già per abituale inclinazione al male.  Per l’omicidio con la concessione delle attenuanti generiche  va inflitta in luogo dell’ergastolo quella di anni 22 di reclusione.


Innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Eduardo Cilento; giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero, Gennaro Calabrese) vennero esaminati tutti i fatti.  Sul luogo del delitto erano stati  eseguiti rilievi planimetrici e fotografici. I periti avevano eseguito  l’autopsia del Pagano e conclusero la loro relazione affermando che il Pagano aveva riportato “un foro da colpo da arma da fuoco a canna corte e che era deceduto per lo spappolamento del cervello”. Il perito balistico Ten.  Col. Pietro Monsurrò, esaminati i reperti concluse che la scheggia si apparteneva alla pallottola della pistola automatica Beretta cal. 7,65 trovata dopo l’omicidio presso la chiazza di sangue e che il colpo era stato sparato “a contatto”. Il Magg. Salvatore Vicinanza, consulente tecnico-balistico, nominato dal padre di Paride Pagano (Raffaele Pagano,  costituitosi parte civile), espresse invece l’avviso che il colpo doveva essere stato sparato “non a contatto ma a una distanza ravvicinata con direzione dalla zona occipitale a quella frontale”. Dal contrasto sorgeva la necessità di una super perizia balistica che veniva affidata ad un collegio di periti: Ten. Col. Giuseppe Cateno Brundo, Ten. Col. Modestino Pellecchia e Magg. Domenico Tornar. Detti periti – esaminata anche la teca cranica del Pagano – all’uopo riesumata, e ricevuti altri chiarimenti dai periti settori così conclusero: “Nel momento in cui partì il colpo l’arma si trovava a contatto con il capo del Pagano”. Quindi, la tesi secondo la quale il Di Bello aveva usato la pistola come un martello prendeva piede.  Ma la parte civile presentava altre due consulenze, una medico-legale del Prof. Vincenzo M. Palmieri,  il quale affermava non essere provato che “la lunetta descritta dal collegio di periti balistici fosse l’esito di un meccanismo contusivo” e una balistica del Magg.  Raffaele Vicinanza per dimostrare che la pistola Beretta per le sue caratteristiche costruttive e per la qualità dei materiali impegnati “non può dar luogo allo sparo se non viene esercitata una adeguata pressione sul grilletto dopo avere eliminato la sicurezza”.  A chiusura del dibattimento dopo la requisitoria del pubblico ministero che chiese, con la concessione delle attenuanti generiche “24 anni di reclusione” e dopo le arringhe difensive che conclusero “con l’esimente della legittima difesa o eccesso colposo di legittima difesa putativa, mancanza della volontà omicida e l’aggravante del motivo futile”. Ma la Corte ritenne enormemente sproporzionata il delitto in base al movente che ebbe a determinarlo ma nonostante la gravità del delitto, considerando che l’imputato che è appena ventenne e incensurato, agì certamente per un improvviso impulso dovuto alla sconsideratezza propria dell’età giovanile e non già per abituale inclinazione al male, “stima opportuno concedere in ordine all’omicidio le attenuanti generiche e va inflitta in luogo dell’ergastolo quella di anni 22 di reclusione”. La sentenza del 8 novembre del 1958, appellata non sortì effetto migliore. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Alfredo De Marsico, Stefano Riccio, Ettore Botti, Giuseppe Garofalo e Alfonso Martucci.     

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