Il fatto accadde a
Casal di Principe nel 1954
Francesco Carannante e
Luigi Borriello furono accusati di aver ucciso per vendetta Giovanni Petrillo
Il
Carannante era stato affrontato
dal Petrillo, disarmato e fatto segno anche a dei colpi di pistola. Movente?
Perchè il Petrillo era venuto a
conoscenza che l’altro amoreggiava con una sua sorella, Mafalda Petrillo.
Casal di Principe - Francesco
Carannante, di anni 21 da San Cipriano d’Aversa e Luigi Borriello, di anni 27 da Casal di
Principe, furono accusati il 22 novembre del 1954, il primo, di aver ucciso con
premeditazione Giovanni Petrillo con
un colpo di fucile; il secondo, per concorso nell’omicidio, per aver prestato
all’assassino assistenza morale e anche materiale affiancandosi a lui durante la
perpetrazione del delitto.
Il 22 novembre del 1954, i
Carabinieri di Casale di Principe segnalavano che Francesco Carannante, aveva esploso contro Giovanni Petrillo un colpo di fucilo a pallettoni producendogli
una ferita al cavo ascellare sinistro. Il Petrillo, trasportato all’Ospedale di
Aversa, decedeva il giorno 24 a seguito delle lesioni riportate; il Carannante
si costituiva ai Carabinieri il primo dicembre. Le indagini portavano ad
accertare che il Carannante aveva agito a scopo di vendetta poichè il giorno
precedente al grave fatto di sangue egli era stato affrontato dal Petrillo, nei
pressi del locale Cimitero, disarmato di una pistola che portava e per giunta
offeso ed, alla fine fatto segno anche a dei colpi di pistola da
parte dell’avversario. Tutto ciò
perchè il Petrillo era venuto a conoscenza che l’altro amoreggiava con una sua sorella,
Mafalda Petrillo.
I Carabinieri accertavano
altresì che al momento dell’esplosione del colpo di fucile contro il Petrillo era
presente anche tale Luigi Borriello il
quale dichiarò che “la mattina del fatto mentre si tratteneva con il Carannante
in Via San Lorenzo - nei pressi dell’abitazione di una sua sorella – aveva
visto sbucare improvvisamente il
Petrillo che, nello scorgere l’avversario della sera innanzi, aveva puntato
subito contro di lui la pistola mentre il Carannante, da parte sua, imbracciava
il fucile di cui era armato. Per intrusione del Borriello tutto finì in sul
nascere ed ognuno dei due si allontanò per opposte direzioni”.
A seguito dell’avvertimento di
“stare attento” datogli da una donna sconosciuta, il Carannante, però, era
rimasto con il fucile in posizione di sparo ed infatti, giunto quasi all’altezza
dell’incrocio fra via Croce e via San Lorenzo dall’angolo di via Croce si era
sporto il Petrillo con pistola in pugno pronto a far fuoco. Ma il Carannante fu
più svelto a sparare colpendo l’altro che, ferito, si accasciò al suolo
lasciando cadere la pistola, una Beretta 7,65 che fu raccolta dallo stesso
Borriello e consegnata, più tardi, nella giornata ai carabinieri.
Costituitosi il Carannante ed
ammetteva di avere amoreggiato con la sorella della vittima Mafalda, ed appunto
una sua frase sul diniego opposto dal Petrillo a tale relazione – male riferita
a quest’ultimo da un comune amico – Giacinto
Corvino, aveva provocato il risentimento del Petrillo medesimo.
La reazione del Petrillo:
convocò il fidanzato di sua sorella in una località isolata, lo disarmò, lo
ingiuriò e gli esplose - a scopo intimidatorio - tre colpi di pistola sfiorandolo e per
umiliarlo, si allontanò con la pistola dell’avversario.
Pronta fu anche la risposta del Carannante, in
quanto, all’indomani, armatosi del fucile del padre, si avviò verso Casal di
Principe. Ma poco dopo – nei pressi del cimitero il caso vuole che il Carannante incontri il
suo amico Borriello al quale confidò l’accaduto e questi gli promise che
avrebbe fatto da paciere e che avrebbe ottenuto finanche la restituzione
dell’arma. I due poi si recarono presso una sorella del Borriello per sorbire
un caffè e mentre erano all’interno del palazzo si sentì bussare pesantemente
al portone d’ingresso. Fuori di ogni logica aperto il portone si presentò il
Petrillo che – pistola in pugno (nonostante il Carannante impugnasse il fucile)
minacciò di uccidere il Carannante.
Confermata la usanza che lo schiaffo rappresenta una caparra per la
morte. In perfetto stile della zona il ferito in fin di vita non rivelò il nome
del suo aggressore
Casal di Principe - Andato via
il Petrillo anche il Carannante uscì di casa in compagnia del Borriello,
preoccupandosi di prendere una direzione opposta all’avversario se non che all’incrocio con via San Lorenzo scorse il
Petrillo far capolino da un muro con la pistola puntata al suo indirizzo pronto
a far fuoco per cui sparò per legittima difesa!
Ma, come spesso accade le
versioni dei testimoni, dei parenti delle vittime e degli stessi assassini è frutto di complicità e di aggiustamenti
adatti a sostenere questa o quella tesi. Ma i magistrati sono attenti a queste insidie trabocchetti. Infatti venne a
galla – dalla testimonianza di Rosa
Petrillo - cugina di primo grado della vittima, la quale disse ai
carabinieri di aver visto la mattina del 22 novembre, poco prima del fatto, di
aver visto il cugino in compagnia del Borriello mentre si dirigeva a casa di
quest’ultimo. Insomma la versione era che il Borriello avesse costretto il
Petrillo ad andare a casa sua dove già era presente il Carannante e fargli
chiedere scuse e restituire anche la pistola in quanto avendo lui fatto da
garante per la riappacificazione non poteva fare brutta figura. Questa ipotesi
gli è costata poi l’accusa di concorso in omicidio.
Era giunto quindi per gli
inquirenti la certezza della colpevolezza sia del Carannante che del Borriello
per cui venivano entrambi arrestati. Venivano, frattanto, espletate le perizie:
rilievi fotografici e planimetrici; quella autoptica accertava che la morte del Petrillo era avvenuta per
copiosa emorragia colpito con una rosa di pallini a caprioli. La pistola sequestrata – attribuita alla vittima, si
accertò, invece, che non aveva da tempo sparato ed era di proprietà di Antonio Carannante, fratello
dell’omicida. Pertanto il giudice istruttore chiedeva il rinvio a giudizio
innanzi la Corte di Assise per omicidio per entrambi gli imputati.
Ma nel corso del dibattimento
i fatti apparvero ben diversamente di come erano stati prospettati dalle
indagini. Si appurò, infatti, che il movente del delitto era da ricercarsi
nella tresca amorosa tra la Mafalda, sorella della vittima, e l’omicida,
Francesco Carannante. Che le proposte di fidanzamento non furono bene accolte
dal fratello della ragazza motivate dal fatto che costui era un tipo poco di
buono e senza una stabile occupazione. Questa la ragione del diniego e poiché,
evidentemente, il Carannante non desisteva dal suo proposito, Giovanni
Petrillo, onde dargli una lezione lo invitò – la sera del 21 novembre – a
seguirlo in un luogo deserto, lo minacciò e addirittura gli tolse l’arma.
Questo atto indubbiamente dovette suonare come una grande offesa
per il Carannante e data la mentalità della gente del posto, usa a risolvere
con le armi tutte le proprie questioni personali il pensiero del Carannante fu
portato subito alla vendetta. Ma Mafalda Petrillo, intravide il grave pericolo,
infatti, quando la sera il fratello tornò a casa glorioso e trionfante mostrando il conquistato trofeo (la pistola!)
dovette immediatamente pensare alle conseguenze del tracotante gesto del suo
congiunto e lo pregò di restituire l’arma all’altro e di riconciliarsi.
La Corte condannò il Carannante a 18 anni di
reclusione e assolse il Borriello per insufficienza di prove dal concorso in
omicidio
Santa Maria Capua Vetere - Ma
il Carannante, la mattina successiva prese il fucile del padre e si avviò verso Casal di Principe e all’altezza
del cimitero incontrò il Borriello al quale riferì l’accaduto della sera
precedente e questi si offrì per fare da paciere e addirittura promise la
restituzione della pistola. Sul punto emerse una dichiarazione della sorella
della vittima Giuseppina Petrillo,
secondo la quale il fratello, in ospedale sul punto di morte le disse di essere
stato preso alla sprovvista e di fronte al minaccioso contegno del Carannante
costretto a restituirgli la pistola. Neppure fu credibile la versione dei due
imputati sul fatto che quella mattina (il giorno del delitto) il Carannante
andava a caccia e il Borriello lo accompagnava. Non era certo quello il momento
di darsi all’arte venatoria visto il fatto della sera prima. Come pure apparve
strana la circostanza che il Carannante sosteneva di aver sparato la rosa di
pallettoni per intimidire il Petrillo facendo anche leva sul fatto che dei nove
pallettoni solo uno colpì la vittima. Infine nel corso del dibattimento era
emersa una circostanza inedita: il Petrillo, interrogato nell’Ospedale Civile
di Aversa – in presenza del vicebrigadiere Carlo
D’Andrea e del maresciallo Renato de
Benedictis per evidenti motivi di omertà non volle fare il nome del proprio
feritore, ma poi, interrogato dall’infermiere Mario Caterino da San Cipriano d’Aversa – mentre i due militi si
nascondevano dietro la spalliera del letto – si limitava a dire di essere stato
ferito dallo Scopillo ( identificato
poi per il Carannante) ed in tal modo rispondeva successivamente alla domanda
di un suo parente, sempre nella convinzione da non essere ascoltato dai
funzionari di polizia.
Il 21 maggio del 1957 la Corte di Assise,
(Presidente, Giovanni Morfino;
giudice a latere, Guido Tavassi;
pubblico ministero, Gennaro Calabrese)
condannò Francesco Carannante, esclusa la premeditazione e con la attenuante
della provocazione ad anni 18 di reclusione e assolse “per insufficienza di
prove”, Luigi Borriello dal concorso in omicidio, “non essendo emersi elementi
tranquillanti di prova circa la sua partecipazione all’omicidio”. Sentenza non
condivisa dal Procuratore della Repubblica che presentò il gravame contro l’assoluzione
del Borriello chiedendo quanto meno la “minima partecipazione”. A questo
appello replicò il difensore del Borriello: “Doveva la Corte di Assise
assolvere il Borriello per non aver commesso il fatto. Non un concreto elemento
di accusa è emerso a suo carico”. Il collegio difensivo era costituito dagli
avvocati: Giuseppe Garofalo, Ciro Maffuccini, Carlo Cipullo e Alfonso
Raffone.
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