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mercoledì 27 maggio 2020






Il fatto accadde a Casal di Principe nel 1954

Francesco Carannante e Luigi Borriello furono accusati di aver ucciso per vendetta  Giovanni Petrillo

 

Il Carannante  era stato affrontato dal Petrillo, disarmato e fatto segno anche a dei colpi di pistola. Movente? Perchè il  Petrillo era venuto a conoscenza che l’altro amoreggiava con una sua sorella, Mafalda Petrillo.

 

Casal di Principe - Francesco Carannante, di anni 21 da San Cipriano d’Aversa e Luigi Borriello, di anni 27 da Casal di Principe, furono accusati il 22 novembre del 1954, il primo, di aver ucciso con premeditazione Giovanni Petrillo con un colpo di fucile; il secondo, per concorso nell’omicidio, per aver prestato all’assassino assistenza morale e anche materiale affiancandosi a lui durante la perpetrazione del delitto.
Il 22 novembre del 1954, i Carabinieri di Casale di Principe segnalavano che Francesco Carannante, aveva esploso contro  Giovanni Petrillo  un colpo di fucilo a pallettoni producendogli una ferita al cavo ascellare sinistro. Il Petrillo, trasportato all’Ospedale di Aversa, decedeva il giorno 24 a seguito delle lesioni riportate; il Carannante si costituiva ai Carabinieri il primo dicembre. Le indagini portavano ad accertare che il Carannante aveva agito a scopo di vendetta poichè il giorno precedente al grave fatto di sangue egli era stato affrontato dal Petrillo, nei pressi del locale Cimitero, disarmato di una pistola che portava e per giunta offeso ed, alla fine fatto segno anche a dei colpi di pistola  da  parte  dell’avversario. Tutto ciò perchè il Petrillo era venuto a conoscenza che l’altro amoreggiava con una sua sorella, Mafalda Petrillo.
I Carabinieri accertavano altresì che al momento dell’esplosione del colpo di fucile contro il Petrillo era presente anche tale  Luigi Borriello il quale dichiarò che “la mattina del fatto mentre si tratteneva con il Carannante in Via San Lorenzo - nei pressi dell’abitazione di una sua sorella – aveva visto sbucare improvvisamente  il Petrillo che, nello scorgere l’avversario della sera innanzi, aveva puntato subito contro di lui la pistola mentre il Carannante, da parte sua, imbracciava il fucile di cui era armato. Per intrusione del Borriello tutto finì in sul nascere ed ognuno dei due si allontanò per opposte direzioni”.
A seguito dell’avvertimento di “stare attento” datogli da una donna sconosciuta, il Carannante, però, era rimasto con il fucile in posizione di sparo ed infatti, giunto quasi all’altezza dell’incrocio fra via Croce e via San Lorenzo dall’angolo di via Croce si era sporto il Petrillo con pistola in pugno pronto a far fuoco. Ma il Carannante fu più svelto a sparare colpendo l’altro che, ferito, si accasciò al suolo lasciando cadere la pistola, una Beretta 7,65 che fu raccolta dallo stesso Borriello e consegnata, più tardi, nella giornata ai carabinieri.
Costituitosi il Carannante ed ammetteva di avere amoreggiato con la sorella della vittima Mafalda, ed appunto una sua frase sul diniego opposto dal Petrillo a tale relazione – male riferita a quest’ultimo da un comune amico – Giacinto Corvino, aveva provocato il risentimento del Petrillo medesimo.
La reazione del Petrillo: convocò il fidanzato di sua sorella in una località isolata, lo disarmò, lo ingiuriò e gli esplose - a scopo intimidatorio -  tre colpi di pistola sfiorandolo e per umiliarlo, si allontanò con la pistola dell’avversario.
 Pronta fu anche la risposta del Carannante, in quanto, all’indomani, armatosi del fucile del padre, si avviò verso Casal di Principe. Ma poco dopo – nei pressi del cimitero  il caso vuole che il Carannante incontri il suo amico Borriello al quale confidò l’accaduto e questi gli promise che avrebbe fatto da paciere e che avrebbe ottenuto finanche la restituzione dell’arma. I due poi si recarono presso una sorella del Borriello per sorbire un caffè e mentre erano all’interno del palazzo si sentì bussare pesantemente al portone d’ingresso. Fuori di ogni logica aperto il portone si presentò il Petrillo che – pistola in pugno (nonostante il Carannante impugnasse il fucile) minacciò di uccidere il Carannante.


Confermata la usanza che lo schiaffo rappresenta una caparra per la morte. In perfetto stile della zona il ferito in fin di vita non rivelò il nome del suo aggressore  

Casal di Principe - Andato via il Petrillo anche il Carannante uscì di casa in compagnia del Borriello, preoccupandosi di prendere una direzione opposta all’avversario se non che  all’incrocio con via San Lorenzo scorse il Petrillo far capolino da un muro con la pistola puntata al suo indirizzo pronto a far fuoco  per cui sparò   per legittima difesa!
Ma, come spesso accade le versioni dei testimoni, dei parenti delle vittime e degli stessi assassini  è frutto di complicità e di aggiustamenti adatti a sostenere questa o quella tesi. Ma i magistrati sono attenti a queste insidie trabocchetti. Infatti venne a galla – dalla testimonianza di Rosa Petrillo - cugina di primo grado della vittima, la quale disse ai carabinieri di aver visto la mattina del 22 novembre, poco prima del fatto, di aver visto il cugino in compagnia del Borriello mentre si dirigeva a casa di quest’ultimo. Insomma la versione era che il Borriello avesse costretto il Petrillo ad andare a casa sua dove già era presente il Carannante e fargli chiedere scuse e restituire anche la pistola in quanto avendo lui fatto da garante per la riappacificazione non poteva fare brutta figura. Questa ipotesi gli è costata poi l’accusa di concorso in omicidio.
Era giunto quindi per gli inquirenti la certezza della colpevolezza sia del Carannante che del Borriello per cui venivano entrambi arrestati. Venivano, frattanto, espletate le perizie: rilievi fotografici e planimetrici; quella autoptica accertava  che la morte del Petrillo era avvenuta per copiosa emorragia colpito con una rosa di pallini a caprioli. La pistola sequestrata – attribuita alla vittima, si accertò, invece, che non aveva da tempo sparato ed era di proprietà di Antonio Carannante, fratello dell’omicida. Pertanto il giudice istruttore chiedeva il rinvio a giudizio innanzi la Corte di Assise per omicidio per entrambi gli imputati.
Ma nel corso del dibattimento i fatti apparvero ben diversamente di come erano stati prospettati dalle indagini. Si appurò, infatti, che il movente del delitto era da ricercarsi nella tresca amorosa tra la Mafalda, sorella della vittima, e l’omicida, Francesco Carannante. Che le proposte di fidanzamento non furono bene accolte dal fratello della ragazza motivate dal fatto che costui era un tipo poco di buono e senza una stabile occupazione. Questa la ragione del diniego e poiché, evidentemente, il Carannante non desisteva dal suo proposito, Giovanni Petrillo, onde dargli una lezione lo invitò – la sera del 21 novembre – a seguirlo in un luogo deserto, lo minacciò e addirittura gli tolse l’arma.
Questo atto indubbiamente dovette suonare come una grande offesa per il Carannante e data la mentalità della gente del posto, usa a risolvere con le armi tutte le proprie questioni personali il pensiero del Carannante fu portato subito alla vendetta. Ma Mafalda Petrillo, intravide il grave pericolo, infatti, quando la sera il fratello tornò a casa glorioso e trionfante mostrando il conquistato trofeo (la pistola!) dovette immediatamente pensare alle conseguenze del tracotante gesto del suo congiunto e lo pregò di restituire l’arma all’altro e di riconciliarsi.
La Corte condannò il Carannante a 18 anni di reclusione e assolse il Borriello per insufficienza di prove dal concorso in omicidio


Santa Maria Capua Vetere - Ma il Carannante, la mattina successiva prese il fucile del padre  e si avviò verso Casal di Principe e all’altezza del cimitero incontrò il Borriello al quale riferì l’accaduto della sera precedente e questi si offrì per fare da paciere e addirittura promise la restituzione della pistola. Sul punto emerse una dichiarazione della sorella della vittima Giuseppina Petrillo, secondo la quale il fratello, in ospedale sul punto di morte le disse di essere stato preso alla sprovvista e di fronte al minaccioso contegno del Carannante costretto a restituirgli la pistola. Neppure fu credibile la versione dei due imputati sul fatto che quella mattina (il giorno del delitto) il Carannante andava a caccia e il Borriello lo accompagnava. Non era certo quello il momento di darsi all’arte venatoria visto il fatto della sera prima. Come pure apparve strana la circostanza che il Carannante sosteneva di aver sparato la rosa di pallettoni per intimidire il Petrillo facendo anche leva sul fatto che dei nove pallettoni solo uno colpì la vittima. Infine nel corso del dibattimento era emersa una circostanza inedita: il Petrillo, interrogato nell’Ospedale Civile di Aversa – in presenza del vicebrigadiere Carlo D’Andrea e del maresciallo Renato de Benedictis per evidenti motivi di omertà non volle fare il nome del proprio feritore, ma poi, interrogato dall’infermiere Mario Caterino da San Cipriano d’Aversa – mentre i due militi si nascondevano dietro la spalliera del letto – si limitava a dire di essere stato ferito dallo Scopillo ( identificato poi per il Carannante) ed in tal modo rispondeva successivamente alla domanda di un suo parente, sempre nella convinzione da non essere ascoltato dai funzionari di polizia. 
 Il 21 maggio del 1957 la Corte di Assise, (Presidente, Giovanni Morfino; giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero, Gennaro Calabrese) condannò Francesco Carannante, esclusa la premeditazione e con la attenuante della provocazione ad anni 18 di reclusione e assolse “per insufficienza di prove”, Luigi Borriello dal concorso in omicidio, “non essendo emersi elementi tranquillanti di prova circa la sua partecipazione all’omicidio”. Sentenza non condivisa dal Procuratore della Repubblica che presentò il gravame contro l’assoluzione del Borriello chiedendo quanto meno la “minima partecipazione”. A questo appello replicò il difensore del Borriello: “Doveva la Corte di Assise assolvere il Borriello per non aver commesso il fatto. Non un concreto elemento di accusa è emerso a suo carico”. Il collegio difensivo era costituito dagli avvocati: Giuseppe Garofalo, Ciro Maffuccini, Carlo Cipullo e Alfonso Raffone.
















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