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lunedì 1 giugno 2020






Il fatto accadde a S. Andrea del Pizzone   verso le 7,30 del 20 giugno del 1955

 

Il delitto della masseria ”Salicella” per una questione di foraggio della bufale. Michele Zito,  garzone redarguito, ammazzo’ il padrone

S. Andrea del Pizzone  Verso le 7,30 del 20 giugno del 1955 al brigadiere Giovanni Pironti della Stazione dei Carabinieri di Sparanise si presentava il geometra Francesco Tessitore da Francolise il quale riferiva che in località “Cinque Vie” presso la masseria “Salicelle” un garzone aveva ucciso Giovanni Capezzuto, da Nocelleto di Carinola più conosciuto con l’appellativo di “O’ Turaturo“, perchè l’aveva redarguito sul modo di mungere le bufale. I carabinieri recatisi sul posto rinvenivano il cadavere del Capezzuto e appuravano che era stato ucciso da un dipendente del proprietario di una mandria di bufale tale Aniello Maiello. Testimone oculare del delitto era stato tale  Michele Feola – che si trovava nella masseria per la custodia e la mungitura di altre bufale di proprietà di Giovanni Gravante dichiarava, invero, che quella mattina,  terminata l’operazione della mungitura, si era recato insieme allo Zito a lavarsi in un canale d’acqua che scorre presso la casa colonica, e poco dopo, mentre egli si portava all’interno della casa per prendere una bilancia con la quale pesare dei latticini, lo Zito si era avvicinato al Capezzuto – che nel frattempo era giunto sul fondo e si tratteneva sulla soglia della casa. Lo Zito aveva detto al Capezzuto che bisognava trasferire le bufale in altro pascolo perchè in quello ove si trovavano non vi era erba sufficiente, ricordando altresì   che il Maiello pagava per la permanenza delle proprie bufale sul fondo lire 3000 al giorno, e il Capezzuto gli aveva risposto: “Questi non sono fatti tuoi, lascia venire qui il tuo padrone Don Mario che ci parlo io”: Poi esso Feola si era recato a pesare i latticini presso il capannone ove era stato raggiunto da Mariotta Napoletano,  moglie di Giuseppe Marra, garzone del Capezzuto, la quale si era offerta di aiutarlo. Egli aveva risposto che non aveva bisogno di aiuto e mentre la donna si allontanava diretta verso l’ingresso della casa, ove si trovavano lo Zito e il Capezzuto si erano uditi diversi colpi di pistola. Accorso sul posto aveva trovato il Capezzuto a terra, già privo di vita, e aveva visto lo Zito – che aveva in mano una pistola – montare su una bicicletta e allontanarsi verso la strada provinciale. La Napoletano confermava che tra lo Zito ( che già a prima mattina, mentre era solo nel fondo, parlando ad alta voce, aveva lasciato intendere che avrebbe chiesto il trasferimento delle bufale in altro pascolo) e il Capezzuto si era svolta la discussione riferita dal Feola, precisando che subito dopo la risposta del Capezzuto lo Zito aveva estratta una pistola dalla tasca dei pantaloni  e aveva sparato un colpo; la vittima era indietreggiata un poco ma giunta presso un pilastro del capannone era caduta al suolo, dopo di che lo Zito aveva esploso altri colpi. Giuseppe Marra infine riferì che lo Zito aveva accennato quella mattina anche a lui che bisognava portare le bufale in un pascolo migliore, e dichiarava di non aver assistito all’omicidio perché trovavasi a lavarsi presso un pozzo ed era accorso soltanto dopo gli spari quando lo Zito si allontanava in bicicletta.  Gli astanti raccontavano che non avevano mai visti lo Zito ed il Capezzuto litigare prima del delitto.

Non solo a Casal di Principe ma anche a S. Andrea del Pizzone lo schiaffo rappresentava una “caparra” per la morte



Sant’ Andrea del Pizzone - Pervenuta voce che il giorno prima dell’omicidio il Capezzuto aveva bastonato lo Zito, i carabinieri svolgevano indagini al riguardo ma risultava che lo Zito aveva trascorso l’intera giornata presso la sua famiglia senza mai allontanarsi e incontrarsi con altre persone presso la masseria “Salicelle”. Venivano anche svolte indagini intorno ai precedenti del Capezzuto e i appurava che costui era di animo buono ma talora si era rivelato “prepotente, violento e cattivo”, (tra l’altro aveva bastonato per futili motivi tale Eugenio Raimondo che non aveva osato ribellarsi per timore del peggio e a suo carico sono state sporte denunce per minacce con armi, danneggiamenti e porto abusivo di armi.
Lo Zito si costituiva ai carabinieri il 27 giugno e confessava di aver commesso il delitto perché il Capezzuto all’invito da lui rivoltogli per conto del suo padrone Maiello di trasferire le bufale che dimagrivano e davano poco latte, aveva risposto con parole offensive e gli aveva dato quattro/cinque schiaffi e puntato al petto un bastone. Affermava inoltre di aver sparato 5 colpi  e soltanto successivamente aveva visto la vittima  cadere; che al momento degli spari la vittima era ad  un metro e mezzo da lui  e che alla questione era stato presente solo il Marra che aveva detto al Capezzuto quando gli dava gli schiaffi di lasciarlo andare; che l’arma usata per il delitto – una pistola Beretta 7,65 – era stata da lui “rinvenuta” una quindicina di giorni prima in una cava di pietre e la portava con sé per difendersi dalle bufale nel caso si sbizzarrissero.  Venivano quindi interrogati Aniello Maiello che confermava di aver portato le proprie bufale nella masseria del Capezzuto convenendo con lo stesso che gli avrebbe pagato per il pascolo lire 1000 per ogni tre bufale al giorno ma negava di aver incaricato lo Zito di protestare verso il Capezzuto per l’insufficienza dell’erbaio, e nuovamente il Marra, che pur ammettendo che il Capezzuto era solito portare un bastone, negava di averlo visto muniti di bastone la mattina del delitto. Veniva pertanto emesso il mandato di cattura contro lo Zito, si procedeva per il rito formale dell’istruttoria e si eseguiva l’autopsia sul cadavere del Capezzuto la quale accertava che lo stesso era stato attinto da sei colpi di pistola cal.7,65 esplosi a breve distanza ed era deceduto per “dissanguamento” a seguito di lesioni di organi interni (cuore, polmone, fegato, intestino). Nel corso dell’istruttoria venivano sentiti tali Antonio Guida e Eugenio Raimondo che raccontavano l’uno di essere stato una volta bastonato dal Capezzuto, suo datore di lavoro con un bastone che aveva sospettato ingiustamente che egli avesse preso un salame, e il secondo che sveva arato nel 1954 dei terreni del Capezzuto che si era poi rifiutato di remunerarlo e lo aveva anzi bastonato. 


Il processo, la sentenza, la condanna 18 anni con l’attenuante della provocazione

Santa Maria Capua Vetere - Il Giudice Istruttore con sentenza dell’11.04.1956, su conforme richiesta del pubblico ministero, rinviava lo Zito al giudizio della Corte di Assise per rispondere di omicidio volontario e di detenzione e porto abusivo di pistola. In dibattimento l’imputato insisteva nella sua versione. Venivano escussi i testi già sentiti in istruttoria nonché altri testi indotti dall’imputato e dalle parti civili Antonietta Bovenzi, Francesco Capezzuto e Emma Capezzuto rispettivamente vedova e figli della vittima.  Circa gli sviluppi della questione i giudici ritennero che il racconto dell’imputato era diverso da quello dei testi Feola e Napoletano;  mentre il primo sosteneva che il Capezzuto gli aveva risposto: “Hai capito che devi farti i cazzi tuoi…va fare in bocca a tua madre…figlio di puttana”, e gli dette anche degli schiaffi e gli puntò il bastone al petto si chè egli accecato dall’ira estrasse la pistola e fece fuoco i predetti testi sostengono in sostanza di aver sentito il Capezzuto rispondere soltanto che lo Zito era un garzone e toccava al Maiello (proprietario delle bufale) fare eventuali rilievi circa il pascolo. La Corte, tuttavia, ritenne che la versione delle Zito fosse in parte veritiera e che cioè il Capezzuto non si limitò a rispondere all’imputato con le parole riferite dal Feola e dalla Napoletano – che non sarebbero state idonee a determinare alcuna reazione – ma rintuzzò la sua pretesa con parole offensive puntando contro di lui il bastone se non giunse pure a tirargli degli schiaffi. Il Capezzuto era un individuo violento e prepotente onde il comportamento che lo Zito gli attribuisce corrisponde perfettamente al suo temperamento.  Lo Zito – ipotizzarono i giudici – si difese esplodendo i 6 colpi di pistola ma tuttavia non può parlarsi di legittima difesa né di eccesso colposo di legittima difesa, né quella putativa. Lo Zito sparò, dunque, al Capezzuto per vendetta. “E poichè d’altra parte non può dubitarsi della volontà omicida – affermarono i giudici della Corte di Assise nelle loro motivazioni - data la reiterazione dei colpi, esplosi tutti a breve distanza, e gli organi vitali colpiti, va senz’altro affermata la sua responsabilità per omicidio volontario. Tuttavia la Corte ritiene di concedere le attenuanti della provocazione in quanto il prevenuto agì in preda ad una profonda e viva emozione, in un impeto d’ira cagionato dal comportamento del Capezzuto. Non si concedono le attenuanti generiche in quanto l’imputato colpì la vittima anche quando era caduta a terra. La pena, pertanto, va determinata in anni 22 ridotta a 18 per la provocazione.   Michele Zito di anni 29 da Grazzanise, dunque, per aver ucciso il 20 giugno del 1955 con 6 colpi di pistola Giovanni Capezzuto dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Giovanni Morfino; giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero, Nicola Damiani), fu condannato a 18 anni di reclusione. Gli avvocati impegnati nei tre gradi di giudizio furono: Giuseppe Irace, Ciro Maffuccini, Giuseppe Garofalo e Alfonso Raffone.  



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