Salvatore Ceci accusato di aver ucciso il
carabiniere Corrado Leone e Ilio Palma di aver ucciso l’avvocato Enrico Liguori
per vendetta. Uno strascico della Liberazione del 1943.
Santa
Maria Capua Vetere – Ecco, in sintesi, la cronaca di quei giorni.
Il 10 settembre 1943, alcuni partigiani sammaritani accusati di aver
saccheggiato, incendiato e assassinato per vendetta fascisti e avversari
politici furono coinvolti negli episodi della resistenza sammaritana (il tutto
iniziò con il saccheggio di una caserma) allorquando i carabinieri spararono
sulla folla e furono uccisi il giovane Alfredo
Cillari e il contadino Giuseppe
Viggiano. I sammaritani per rappresaglia uccisero l’avvocato Enrico Liguori
e l’appuntato dei carabinieri Corrado Leone. Dopo alcuni giorni Salvatore Ceci fu
sospettato di aver ucciso il carabiniere Corrado
Leone, mentre il giovane Ilio Palma
fu accusato di essere l’esecutore del barbaro omicidio dell’avvocato Enrico Liguori per vendetta. Nello scontro con i tedeschi in fuga furono
feriti Domenico Palma e Enrico Avella nel corso degli episodi
di resistenza sammaritana e durante il saccheggio della Caserma Pica i
carabinieri spararono sulla folla e furono feriti molti cittadini. Nello stesso frangente il barbiere Crescenzo Merola di anni 23, abitante
alla via Torre, 66 con la complicità del padre Domenico, uccise il sergente dell’esercito italiano, un giovane
sottufficiale tal Filiberto Petraccione
con un colpo di moschetto - come fu poi accertato in seguito – ‘sol perché erasi rifiutato di consegnare
all’altro, che la chiedeva, la propria arma e di seguirlo nella ricerca dei
tedeschi’. Ne seguirono due processi
in Corte di Assise - negli anni Cinquanta - che videro alla sbarra tutti i
protagonisti. Questo breve racconto ne evoca i risvolti e i retroscena. Patrioti
o banditi? Assassini o liberatori? L’eterna dicotomia: briganti o patrioti? Ma proprio
nel momento in cui fu emesso il verdetto della sentenza di primo grado contro
Salvatore Ceci – accusato dell’omicidio del carabiniere e assolto per
insufficienza di prove - che si verificò uno sconcertante episodio. Il Ceci,
ammanettato con gli schiavettoni ai
polsi, sentendosi assolto col dubbio da un omicidio che non aveva commesso
esclamò con livore rivolto alla Corte:”Puttana
è la giustizia e prostituto chi l’amministra”. Ricondotto in gabbia e
processato per direttissima “per oltraggio alla Corte” (oltraggio a magistrato
in udienza art. 343 C.P.) fu condannato a tre anni di reclusione. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Antonio Giordano, Mauro Borgia, Generoso
Iodice, Vittorio Verzillo, Francesco Lugnano, Alberto Martucci, Leo Leone,
Renato Orefice e Giuseppe Garofalo.
Il
saccheggio, la sparatoria, le vendette e le rappresaglie: con i due omicidi
Il
4 ottobre del 1943, ebbero a verificarsi nell’abitato vari episodi di violenza.
Gruppi di civili provvisti di moschetti, bombe a mano, pistole ed altre armi
prelevate presso la locale caserma dei carabinieri si diedero alla ricerca dei
soldati tedeschi che ancora si trattenevano nella città prima dell’arrivo dei
militari anglo-americani per catturarli.
Nelle prime ore del mattino erasi quindi verificato uno scontro fra i
detti civili e un gruppo di tedeschi che si erano asserragliati in un circolo
cittadino “Unione” nell’attuale Piazza Matteotti e conclusosi alla fine, con la
cattura dei due tedeschi, il ferimento del giovane Domenico Palma, che aveva preso parte alla
scaramuccia insieme ai civili e dell’avvocato Enrico Liguori che, invece, era
stato sorpreso all’interno del circolo insieme ai militari germanici coi quali,
peraltro, aveva fatto vita comune durante il periodo dell’occupazione. Al
termine dello scontro mentre i tedeschi fatti prigionieri venivano presi in
consegna dal comandante della stazione dei Carabinieri maresciallo Francesco Materiale, l’avvocato Liguori
si era diretto alla ricerca di un medico accompagnato da certo Salvatore
Signore, antico dipendente della
famiglia Liguori, il quale, accortosi delle gravi condizioni in cui si trovava
il Liguori, era accorso in suo aiuto. Epperò, raggiunti i due in via Latina
l’avvocato Liguori era stato proditoriamente aggredito ed ucciso con un colpo
di fucile che lo attingeva alla regione cardiaca. Successivamente bande di
armati percorrendo la città si davano a perquisire e a devastare le case di
varie persone ritenute esponenti di qualche rilievo del passato regime ovvero
collaboratori dei tedeschi. Ma due altri gravi episodi si verificarono in
quella giornata.
Dodici anni dopo, il 3
febbraio 1955, la squadra di polizia giudiziaria dei carabinieri di Santa Maria
Capua Vetere faceva pervenire un laborioso rapporto sui fatti innanzi indicati denunziando,
in stato di arresto, quali autori dell’omicidio in danno dell’appuntato Corrado
Leone Salvatore Ceci, nonché Gennaro
Franceschetti, Giacomo Riletti, Nicola Bifone, Pasquale Cipullo e Nicola
Cappabianca quali autori di rapine, saccheggio e incendio commessi appunto
nella stessa data del 5 ottobre del 1943. Con lo stesso rapporto venivano
inoltre denunziati – come correi di tali delitti: Benito Cillari, Giuseppe
Cillari, Francesco Merola, Giacomo Pomponio, Guglielmo Buonomo, Leopoldo
Falcone, nonché il giovane Ilio Palma, che veniva indicato come autore
dell’uccisione dell’avvocato Enrico Liguori.
Ma facciamo un passo indietro,
Giuseppe Cillari, padre di Alfredo, il militare ucciso durante il saccheggio
alla caserma, inoltrava il 14 settembre del 1944, alla commissione dei delitti
fascisti di Roma una supplica per sollecitare l’arresto e la punizione del
carabiniere Antonio Dell’Anno in quanto nulla si era mosso oltre al provvedimento
che aveva ordinato “l’archiviazione dei fatti assumendo che l’uso delle armi era
stato legittimo”. Frattanto, la Procura
del Tribunale Militare Territoriale di Napoli, per avere un quadro preciso dei
risultati di quella tragica giornata del saccheggio alla caserma di Piazza “Primo
Ottobre”, sollecitò ai carabinieri di Santa Maria Capua Vetere, un dettagliato
rapporto dei fatti e dei morti. Si venne così a sapere che in quella
circostanza rimasero feriti: Gennaro
Tessitore, di anni 35, abitante al Vico Munno; Filomena Russo di anni 26 abitante in via Morelli, 57; Arcangelo Prisco di anni 28 abitante in
via Cappabianca n°60; Vincenzo Monaco,
di anni 32, abitante in via R. D’Angiò n°71; Luigi Albertino di anni 21, da Milano, militare a Santa Maria Capua
Vetere; Angelo Battaini di anni 20
da Taranto.
Crescenzo Merola e il padre
Pasquale assassini del sergente Petracciuolo: il primo internato in manicomio e
il secondo morto in carcere
A chiusura di quella relazione
dei carabinieri c’era una nota che mi ha molto intrigato. La stesa diceva: “in
merito all’uccisione dell’appuntato dei
carabinieri Corrado Leone nulla è stato rinvenuto in questi atti sarebbe
indispensabile al riguardo che un funzionario al corrente dei fatti procedesse
ad un interrogatorio di Crescenzo Merola fu Pasquale e di Teresa Umile di anni
34, barbiere da Santa Maria Capua Vetere, residente alla via Torre 66, detenuto
nelle casa penale di Paliano per espiazione di pena per omicidio in persona del
sergente, Filippo Petracciulo, commesso in Santa Maria Capua Vetere il 5
ottobre del 1943. Poi spulciando il processo che è conservato presso l’archivio
di Stato di Caserta ho rinvenuto anche una nota della direzione del Manicomio Giudiziario
di Aversa dalla quale ho rilevato che il Crescenzo era stato condannato dalla
Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, il 23 gennaio del 1947, a 15 anni
di reclusione per omicidio e duplice tentato omicidio e che si trovava
internato nel predetto manicomio. Dalla stessa nota ho appreso il fatto che il
padre Pasquale, era deceduto a 48 anni per attacco cardiaco, mentre era
detenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, anche lui colpevole dello
stesso omicidio del figlio e che una sorella era stata ricoverata in manicomio.
Crescenzo Merola, il criminale che nella
stessa data del 5 ottobre 43 uccise (col concorso del padre) il sergente maggiore
Filiberto Petricciuolo - poco dopo dell’assassinio dell’appuntato Corrado Leone
- alla presenza di persone che poi risulteranno autori dell’assassinio del
graduato, sa il fatto suo e, nel manicomio giudiziario di Aversa, dove era
detenuto, per espiazione di pena, proprio per il delitto segnato innanzi si
protestò innocente, assumendo che non
era in compagnia del Franceschetti, Cappabianca, Ceci, Bifone, Fiorillo.
Precisava inoltre che egli fu richiamato sul posto ove venne ucciso il Leone
dallo sparo di alcuni colpi di arma da fuoco che presumeva avessero sparato i
tedeschi. Al ritorno da via Albana – nella via Cappabianca – egli disse – si
verificò il delitto che doveva provocare la uccisione del sergente maggiore
Filiberto Petracciuolo.
Le diverse tesi: accusa,
difesa e sentenze: il primo verdetto per gli omicidi fu di insufficienza di
prove per Ceci e amnistia per Palma. In
appello assoluzione piena “per non aver commesso il fatto”.
I sei arrestati furono tradotti tutti
definitivamente nelle locali carceri giudiziarie. L’istruttoria fu lunga e
tormentata. Durò oltre un anno e mezzo. Il
15 marzo del 1955 gli avvocati difensori presentarono istanza al giudice
istruttore Bernardino de Luca per
ottenere la revoca delle misure cautelari con scarcerazioni o provvedimento
meno afflittivi. A questa istanza il pubblico ministero si oppose alla
scarcerazione degli arrestati per amnistia, perché non ricorrevano le condizioni,
essendo escluso trattarsi di reato politico. Diverso,
invece, fu l’atteggiamento del Giudice Istruttore che operò un distinguo tra i
reati minori e i due omicidi e concesse a Gennaro Franceschetti, Giacomo
Rilletti, Nicola Bifone, Leopoldo Cappabianca, e Pasquale Cipullo il beneficio
della libertà provvisoria ordinandone la scarcerazione e rigettando invece
l’istanza di Salvatore Ceci. Di conseguenza il rinvio in Corte di Assise per il
giudizio. La decisione della Corte (composta dal presidente Giovanni Morfino; dal giudice a latere,
Renato Mastrocinque; dal pubblico
ministero, Nicola Damiani; –fu pilatesca. “Non doversi procedere contro
Ilio Palma in ordine all’omicidio per amnistia. Non doversi procedere contro
gli altri anche per la stessa amnistia mentre e assolse “per insufficienza di
prove” Salvatore Ceci per l’omicidio dell’appuntato Corrado Leone.
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