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lunedì 1 giugno 2020




Il fatto di sangue accadde a Cesa il 18 settembre del 1953


Bernardino Di Domenico, tentò di uccidere il 22enne Francesco D’Ettorre per indurlo a lasciare la fidanzata di cui lui era segretamente innamorato ed  esplose anche contro di lei due colpi di pistola ferendola al braccio destro. 

Cesa – Il 18 settembre del 1953,  in via Roma, il 22enne Francesco D’Ettorre, studente universitario, veniva colpito da numerosi proiettili sparati dal calzolaio Bernardino Di Domenico, di anni 23, in quel periodo soldato in licenza di convalescenza, appartenente al 46° Reggimento Fanteria di Sulmona.  I carabinieri della locale stazione, avvertiti, iniziarono le loro indagini ed appurarono che il ferito era stato – da parte di alcuni passanti – soccorso ed avviato all’Ospedale di Napoli. Il movente della cruenta aggressione era da ricercarsi in motivi di gelosia (ossia un movente passionale).  Bernardino Di Domenico, dopo aver esploso i colpi di pistola contro il suo rivale in amore si diede alla macchia.   Si appurò, che il Di Domenico da qualche tempo si era invaghito della avvenente 19enne Angelina Mariniello, (casalinga, benestante… rimarcano i carabinieri nel loro rapporto), già promessa in nozze da vari anni al giovane che era stato sparato.
Pur rendendosi ragione che non sarebbe mai stato accettato dalla bella Angelina, dato l’enorme divario sociale, egli umile calzolaio, peraltro militare di leva, nullatenente; mentre la ragazza apparteneva ad una famiglia molto agiata, si era fissato sul fatto che se il D’Ettorre l’avesse abbandonata egli poteva tentare di avvicinarla e chiederle l’amore. Un ragionamento da mente malata. Tanto è vero che poi nel corso del processo gli verrà riconosciuto il vizio parziale di mente. Il Di Domenico era talmente convinto del fatto che se il giovane avesse rinunciato alla mano della ragazza la stessa avrebbe scelto lui che organizzò un vero e proprio piano per conquistare il trono…Qualche tempo prima del delitto una sera avvicinò con un pretesto il suo avversario in amore, il giovane D’Ettore e dopo vari convenevoli e senza colpi ferire gli ingiunse lo sfratto.  Senti…Ciccio…tu sei fidanzato con Angelina… ma devi lasciarla… perché io ne sono innamorato, l’amo e me la voglio sposare”…  Fu allora che maturò il progetto criminoso: “Lo ucciderò così lei dovrà per forza cadere ai miei piedi”.  Il delitto fu premeditato e attuato. Ma c’era, però, qualcosa che non quadrava. Era corrisposto il suo amore da parte della bella Angelina? La sera del 16 settembre del 1953 il Di Domenico attese fino alle 23 che il giovane D’Ettore uscisse dalla casa della sua fidanzata alla via Roma di Cesa e deciso ad ucciderlo lo affrontò prima con un pugnale, vibrandogli un fendente e poi esplodendogli contro tre reiterati colpi di rivoltella. Il malcapitato si diede a precipitosa fuga mentre l’assalitore lo incalzava esplodendo altri colpi di pistola, per fortuna, andati a vuoto. Dopo pochi passi il giovane che perdeva copiosamente sangue si accasciò sull’uscio della sede del Partito Monarchico. Trasportato d’urgenza al “Pellegrino” di Napoli vi rimase ricoverato ed in pericolo di vita per numerosi giorni. Ma i colpi non furono letali: una ferita che presentava forame di entrata alla regione ipocandrico destra, altra ferita al braccio destro con frattura omero ed una ferita da taglio alla mano destra. Subito sottoposto ad una delicata operazione chirurgica i sanitari si riservarono la prognosi.
La scena del grave delitto, avvenuto in una pubblica piazza era stata seguita da molte persone: Angelica Liguori, Alberto Belladonna, bidello della sezione del Partito Monarchico; Clementina Bertone, e Raffaele Bertone.  La Angelina Marinello, ignara causa del deprecabile episodio dichiarò dal canto suo  che era fidanzata con la vittima da oltre sei anni e che quella sera, come ogni sera, aveva accompagnato il suo fidanzato all’uscio del portone e che questi aveva inforcato la propria bicicletta ma che fatti pochi metri era stato avvicinato dal D’Ettore che lo aveva colpito prima con un coltello e poi con dei colpi di pistola. Che lei, visto che il Di Domenico era armato di tutto punto e anche bestialmente inferocito, aveva tentato di calmarlo ma questi l’aveva spintonata allontanandola. Mentre il fidanzato si accasciava al suolo il Di Domenico continuava a scaricare al suo indirizzo i restanti colpi del suo revolver.    
Durò oltre tre mesi il decorso della malattia del ferito. Il perito del tribunale, Enzo Pezzuti, nella sua relazione - per accertare la guarigione e gli eventuali postumi della stessa - presentò una dettagliata relazione. Ugo del Matto, giudice istruttore del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, emetteva ordine di cattura nei confronti di Bernardino Di Domenico – che frattanto si era costituito nel carcere sammaritano -  dove gli veniva notificato il provvedimento che lo accusava di tentato omicidio con le aggravanti del porto di pistola, di coltello di genere proibito e di spari in luogo pubblico.  Trascorsi tre mesi dal delitto anche il ferito, Francesco D’Ettorre, fu in condizioni di essere interrogato.   


La perizia psichiatrica: Lui è pazzo d’amore.   Lo stato per cui la passione “germogliando sul terreno favorevole di un temperamento psicopatico, doveva inevitabilmente spingerlo ai confini del delitto”

Cesa - Dopo dieci giorni dal delitto il  Di Domenico si costituiva alle Carceri Giudiziarie di Santa Maria Capua Vetere e qualche mese dopo, il suo difensore avvocato Pompeo Rendina, con apposita istanza diretta al Giudice Istruttore, riferiva sulle seguenti circostanze : Che la Mariniello non era insensibile alle profferte d’amore del Di Domenico;  Che il D’Ettore derideva il Di Domenico quando questi gli parlava del suo amore per la Mariniello e che al momento del delitto il D’Ettore assunse addirittura un atteggiamento provocatorio e minaccioso nei riguardi del suo avversario; Che il Di Domenico era stato ricoverato poco prima all’Ospedale Militare di Napoli a causa dello insorgere di una malattia mentale.  Infatti la perizia psichiatrica fu affidata ai due grossi luminari della psichiatria dell’epoca: Filippo Saporito e Giovanni Amati. Il primo, ispettore generale del Ministero della Giustizia (a lui è intitolato l’Ospedale Psichiatrico Criminale di Aversa) il secondo, direttore alienista dello stesso ministero. Davanti al Giudice Istruttore, la Mariniello in parte confermò la deposizione resa ai carabinieri di Cesa ma aggiunse che il Di Domenico esplose anche contro di lei due colpi di pistola ferendola al braccio destro, come risulta dal certificato del dott. Domenico De Michele, dopo che ella, visto il fidanzato ferito, rivolse al Di Domenico diversi epiteti dei quali ricorda solamente la parola ‘disgraziato’.  Intanto la difesa faceva pervenire al Giudice Istruttore altra istanza nella quale era specificato che il Di Domenico era stato dimesso qualche giorno prima del reato, dall’Ospedale Militare con la diagnosi ‘stato. neuroastenico di tipo eretistico con probabili anomalie del carattere’. Per tali motivi la difesa insisteva sulla opportunità di far sottoporre il Di Domenico ad accertamenti psichiatrici. L’Arma dei Carabinieri, inoltre, segnalava che il padre del  Di  Domenico, nel 1936 fu ricoverato in ospedale  per malattie mentale e che pochi giorni dopo il reato del figlio, fu internato nell’Ospedale Psichiatrico di Aversa, soggiungendo però, che l’internamento sembrava fatto in relazione al processo a carico del figlio. In data tre dicembre del 1953, dal Giudice Istruttore, fu affidata al dott. Tommaso Pezzuto, da Santa Maria Capua Vetere una perizia in persona di Francesco D’Ettore, al fine di accertare ‘le di lui condizioni ed in particolare la durata della malattia. In considerazione dei precedenti morbosi personali e familiari, il Giudice Istruttore sentito il conforme parere del Pubblico Ministero, ordinava doversi procedere a perizia psichiatrica ‘al fine di accertare se il Di Domenico Bernardino avesse capacità d’intendere e di volere al momento del fatto ovvero se la stessa fosse grandemente scemata senz’essere esclusa e se il Di Domenico sia individuo socialmente pericoloso’. Il padre, calzolaio, vivente ed apparentemente sano, era stato due volte ospite dell’Ospedale Psichiatrico ‘Santa Maria Maddalena’ di Aversa, nel 136 e nel 1954.  Nel 1942, invece, lo stesso era stato internato per un mese nel reparto per malattie mentali presso il Campo numero uno di Tabora (Tanganika) dove trovavasi quale prigioniero di guerra. Nei vari ricoveri il padre del periziando è stato riconosciuto affetto da eccitamento maniacale.  Il Di Domenico a causa della sindrome psicopatica di cui è affetto può presentare ulteriori e più accentuati sbandamenti, onde si ritiene necessario che egli sia ricoverato in adatto luogo di cura perché socialmente pericoloso.


La condanna fu a 7 anni con il riconoscimento del vizio parziale di mente.   

Santa Maria Capua Vetere - Il processo innanzi la corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere non ebbe storia, ma vide due giganti dell’oratoria forense affrontarsi nel dibattimento: gli avvocati Pompeo Rendina per l’imputato e Giuseppe Garofalo per la famiglia della vittima. Il gioco fu fatto, però, come era ovvio, dalla perizia dei due grandi della psichiatria dell’epoca: Filippo Saporito e Giovanni Amati. La Corte, presieduta da Giovanni Morfino, condannò Bernardino Di Domenico, col vizio parziale di mente, alla pena di anni sei di reclusione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a quella legale durante l’espiazione della pena. Però al condannato furono sottratti tre anni di pena perché il quel periodo era stata emanata una amnistia. La Corte stabilì, inoltre, che a pena espiata il Di Domenico fosse ricoverato in una casa di cura e di custodia per un tempo non inferiore a due anni e che il detenuto sia ritradotto in carcere. Una decisione che il povero Bernardino aveva da tempo sognato: il carcere al posto del manicomio. A lui non fu riconosciuta l’attenuante della soverchiante tempesta emotiva. Nonostante fosse stato un delitto passionale.  Una giustizia d’altri tempi!






      









    

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