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venerdì 23 aprile 2021

 

Il Punto | la newsletter del Corriere della Sera
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testata
Venerdì 23 aprile
editorialistaGianluca Mercuri
Bentrovati. Ciò che resta di García Lorca e che non sarà mai perduto; il focolare domestico che torna a minacciare le donne, in una scatola cinese di prigioni; un giornale (e che giornale) che ci vede irredimibili, anche con (e da) Draghi; un fiction sul narcotraffico, che essendo Olimpio è realtà terrificante; un ritratto di signora dove ogni parola è una pepita; e un’altra donna, lei baldiniana, a caccia di Oscar tra fascino e nevrosi.

Un grazie enorme a Valeria Palumbo, la nostra Lady Montagu.

Buon weekend, e buona lettura!

Siamo la redazione Digital del Corriere della Sera: se vi va scriveteci a gmercuri@rcs.itlangelini@rcs.it, ed etebano@rcs.it

(Nella foto di Juan Ferreras per Ansa, la lapide che commemora Federico García Lorca e le altre vittime della guerra civile spagnola sepolte nelle fosse comuni di Víznar, vicino a Granada)
El País
Le fosse comuni della guerra civile spagnola, i resti perduti di García Lorca, le sue parole imperdibili e immortali
editorialista
Valeria Palumbo

Fiori e versi. A Víznar, presso Granada, c'è un barranco, una profonda fessura nel terreno dove, da quando in Spagna è finita la dittatura franchista, nel 1975, le persone vanno a deporre omaggi floreali e poetici. Perché qui intorno ci sono almeno cinque fosse comuni in cui i franchisti (golpisti: il governo legittimo era quello repubblicano) gettarono maestri, operai e operaie, modiste, sindacalisti, professori, politici, intellettuali. E il poeta e drammaturgo Federico García Lorca, fucilato il 18 agosto 1936, e sotterrato assieme a due toreri, Francisco Galadí Melgar Joaquín Arcollas Cabezas, e al maestro Dióscoro Galindo González che, per il parroco locale, aveva due colpe imperdonabili: insegnava la sera a leggere agli operai e non credeva in Dio (molte notizie si trovano sul sito www.universolorca.com).

Il 20 luglio i golpisti avevano preso il potere a Granada, guidati dal sanguinario José Valdés Guzmán, che si autonominò governatore civile e fu il responsabile della repressione dei mesi successivi. Soltanto nell'agosto 1936 e soltanto nel cimitero di San José furono fucilate 582 persone, legate al governo repubblicano o semplicemente sospettate di simpatie repubblicane. Altre centinaia furono uccise a Víznar e Alfacar.

Tra loro, appunto, García Lorca. Per ritrovare i suoi resti sono state lanciate tre campagne di scavo: nel 2009, nel 2014 e nel 2016. Le ricerche si sono concentrate intorno al barrancoI tentativi sono tutti falliti e sono stati tutti avversati dalla famiglia. Il che ha accresciuto i sospetti che i parenti fossero riusciti a recuperare subito il corpo e a deporlo, alla fine, nella Valle de los Caídos, l'immenso sacrario creato da Franco non lontano da Madrid e che oggi ospita in pari numero i caduti dei due fronti (tranne lo stesso Franco, che è stato riesumato e trasferito nel 2019).

A raccontare la vicenda è El País, che ha dedicato un'intera pagina alle vittime del barranco di Víznar. Perché, Lorca a parte, nelle cinque fosse comuni identificate a oggi nella zona, ci sono i resti di almeno 300 persone. Adesso si è deciso di recuperarli e quindi dare un senso a quel pellegrinaggio con fiori e versi che i parenti hanno mantenuto vivo in tutti questi anni. Sono arrivati i finanziamenti e Fernando Martínez López, storico e segretario di Stato alla Memoria democratica (un ufficio creato nel gennaio 2020 che dipende dal Ministero della Presidenza) ha affermato: «Con le esumazioni, il governo intende chiudere una pagina oscura della storia della Spagna».

Ci vorrà tempo. E ovviamente la pagina non va chiusa. Anzi. Le esumazioni offrono l'occasione per restituire dignità ai fucilati, tra i quali diverse donne. Per esempio, Rosario Fregenal, chiamata La Fregenata, fucilata nel 1936 con altre quattro donne. Era una stilista e modista, ma soprattutto era attiva nel sindacato: per paura di ritorsioni contro la famiglia, si rifiutò di fuggire. A Víznar fu fucilato, il 23 ottobre, anche l'arabista Salvador Vila: aveva partecipato alle proteste degli studenti contro la dittatura precedente, quella di Primo de Rivera. Durante i suoi studi a Berlino, aveva conosciuto la sua futura moglie, Gerda Leimdörfer, il cui padre dirigeva il più importante quotidiano ebraico della capitale tedesca, il Berliner Zeitung am Mittag, e la cui famiglia fu perseguitata dai nazisti. Vila era poi tornato a Granada ed era diventato rettore dell'Università. La moglie riuscì a scampare grazie alla mediazione del compositore Manuel de Falla, a patto che si facesse cattolica.

Fu invece ucciso José Raya Hurtado, tipografo, presidente del gruppo socialista di Granada e padre di otto figli. Non ebbe, come tutti gli altri, neanche diritto a una sentenza di colpevolezza. Uno dei suoi assassini raccontò poi che, prima che gli sparassero, si era tolto gli occhiali e li aveva riposti nella tasca della giacca: gli archeologi che conducono gli scavi li cercheranno.

Poi verranno gli esami del Dna. Li attendono i parenti. Per giustizia. Perché quella storia, in fondo, non è mai finita. Nel dramma Mariana Pineda di Federico García Lorca (1927) la parola libertà torna 19 volte. Per inciso Mariana Pineda è stata una liberale condannata a morte, nel 1831, perché possedeva una bandiera su cui aveva ricamato la scritta: «Uguaglianza, libertà e legalità». A un certo punto della ballata, il protagonista, Pietro, dice a Mariana: «Che cos'è, Mariana, l'uomo senza la libertà? Senza quella luce armoniosa che nasce dal più profondo dell'anima? Come potrei volerti bene se non fossi libero di me, dimmi? Come potrei io offrirti questo mio tenero cuore se non fosse mio?».

Valeva allora in Spagna, come vale ovunque oggi: dalla Cina, alla Russia, alla Turchia. E, ovviamente, visto che si avvicina il 25 aprile, all'Italia.

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Wall Street Journal
La Cina invecchia e Xi vorrebbe inchiodare di nuovo le donne al focolare
editorialista
Luca Angelini

Intendiamoci, l’invecchiamento della popolazione è un problema reale, che comporterà sfide sociali ed economiche enormi e delicate. Ma si sa che in Cina preferiscono spesso usare il caterpillar, anziché il cesello. Così, per rilanciare il Sogno cinese, segnalano Chao Deng e Lyan Qi sul Wall Street Journal, il presidente Xi Jinping ha rispolverato una retorica, tra il confuciano e il maschilista, che forse metterà i brividi a molte donne cinesi. L'insistenza di Xi sul fatto che la società debba «dare completo spazio al ruolo unico che hanno le donne nel promuovere le virtù familiari della nazione cinese», o «trasmettere il gene rosso», come esorta uno slogan di partito, non può non ricordare un'altra retorica: quella nostrana dell'«angelo del focolare».

L'ironia - tragica - della storia è che molti dei guai demografici attuali della Cina sono figli di passate «politiche familiari» di regime. «Nei primi anni di governo comunista - ricordano Deng e Li - Mao Zedong spinse le donne a unirsi alla forza lavoro per aiutare a costruire la nazione e ad aspettare a sposarsi e avere figli. Più tardi erano arrivati i diktat sul figlio unico per evitare una crescita incontrollata della popolazione».

Oggi il problema è quello opposto. Se, a 30 anni, nel 1990 praticamente tutte le cinesi erano sposate, nel 2015, almeno in grandi città come Shanghai, un buon 20% non lo era, secondo le stime di Wang Feng, sociologo dell'Università della California-Irvine. Più in generale, le registrazioni di matrimonio sono state, nel 2019, pari a 6,6 ogni mille abitanti, contro le 9,6 del 2014. Per contro, sta salendo il tasso di divorzi. Tanto che Pechino ha pensato di imporre quest'anno, alle coppie in crisi, una specie di «moratoria» di 30 giorni prima di poter chiedere la separazione. Cosa che, denuncia Feng Yuan, cofondatrice di Equality, un'associazione di Pechino che si batte contro la violenza sulle donne, può essere molto pericolosa per le mogli che subiscono abusi in casa.

In ogni caso, al momento la svolta retorica e pratica di Xi non sembra stia funzionando. Come ovunque, la maggiore istruzione e indipendenza economica cambia anche la scala di priorità, se non altro temporale, delle donne. Anche la Cina scoprirà, presto o tardi, che per rilanciare la natalità è necessario costruire una società nella quale avere un figlio non diventi un ostacolo e un ostacolo davanti al quale le donne vengono lasciate sole.

Ma, quand'anche lo scoprisse, non è affatto scontato che il regime sarebbe disposto ad ammetterlo: di recente, decine di account di gruppi per i diritti delle donne sono stati cancellati dalla piattaforma social Weibo e dal popolare sito di confronto culturale Douban.com. Il Wsj sospetta che la mossa possa essere in relazione con la pubblicazione, che dovrebbe essere imminente, visto che è già stata rinviata di qualche settimana, del nuovo censimento decennale, le cui cifre dovrebbero mettere a nudo l'ennesimo, forte crollo delle nascite (quello del 2020 sarebbe il quarto di fila, dopo l'effimera risalita del 2016, primo anno senza politica del figlio unico).

Economist
Ci stiamo aspettando troppo da Draghi? L’Economist ci frusta, aiutato da Machiavelli

(Gianluca Mercuri) Due mesi fa l'Italia si stropicciava gli occhi di fronte a uno scenario finalmente roseo: un governo di unità nazionale, uno sforzo congiunto verso vaccinazioni e ricostruzione economica, una maggiore legittimazione reciproca tra i partiti con la conversione europeista della Lega. Un anno così, si pensava ottimisticamente, poi Draghi al Quirinale, il voto e, chiunque vinca, un Paese meno diviso e più attrezzato a ripartire.

Chi lo pensava, lo pensava perché era arrivato Draghi. In questa newsletter non abbiamo nascosto l'entusisamo per quello che ci è parso il miglior italiano possibile, in un momento così drammatico. L'immenso patrimonio di credibilità conquistato alla guida della Banca centrale europea; la competenza impareggiabile; il carisma sobrio e mai chiassoso. Era una semplice fotografia, non adulazione calcolata o naif. Ed era l'entusiamo che serve sempre, figurarsi nei momentacci.

Ora arriva l’Economist, un altro riferimento solido della Rassegna, a dirci che è tempo di svegliarci dall’illusione, la chiama così, col «falso amico» inglese, delusion. Infatti non è deluso da Draghi, il settimanale più autorevole del mondo, ma disilluso su di noi, gli italiani.

Non basterà un annetto di cura col migliore di noi a guarire, ci dice. Cita Machiavelli, la sua esortazione finale ai Medici nel Principe, con l'Italia di sempre che «rimasa come sanza vita, aspetta qual possa essere quello che sani le sue ferite...». Il Salvatore della patria. Cita gli esempi più recenti di salvatori mancati: Renzi, «un giovane riformatore che ha promesso troppo, mantenuto troppo poco e poi è imploso», Berlusconi, «un clown che evadeva le tasse con un debole per i sex party», e pure Conte, «un avvocato sconosciuto». Per fortuna ci risparmia il classico riferimento a Mussolini, il prototipo dell'«Uomo della Provvidenza», come fu spacciato dal Vaticano ma pura da una certa Inghilterra reazionaria.

In confronto a gente così, scrive il giornale nella sua rubrica Charlemagne - quella che tutti i leader europei aspettano ogni settimana col fiato sospeso -, «mostrarsi statisti è facile», e qui il nervosismo monta. Ma l'Economistnon fa l’errore di rimpicciolire Draghi, anzi ricorda uno per uno i suoi successi quasi automatici, ottenuti per il solo fatto di essere Draghi, a cominciare dal crollo dei rendimenti del debito italiano, cui di solito gli investitori si accostano con una certa «puntigliosità» (che splendido eufemismo). Ma anche quelli frutto di decisioni e prese di posizione, come la messa in riga di AstraZeneca e del «dittatore» Erdogan.

Epperò... siamo sempre l’Italia, e allora «se grandi aspettative nei confronti di Draghi sono comprensibili, dovrebbero, tuttavia, essere temperate». Perché è difficile essere SuperMario anche a Roma: «Alla Bce si può tirare una leva e i soldi escono. Nel governo italiano, si può tirare una leva e scoprire che non è collegata a niente». E qui riaffiora il nervosismo, il senso di umiliazione.

Ma l'Economist non vuole umiliarci, vuole solo avvertirci, noi e soprattutto i suoi lettori europei, anche loro affascinati da Draghi, anche loro tentati di affidarsi a lui tra il declino di Merkel e le difficoltà di Macron. L'Italia, ci ricorda il giornale, non dovrebbe avere bisogno di Draghi per contare, essendo «un membro fondatore del club europeo, il suo terzo paese più popoloso e la sua terza economia più grande». E anche i mercati farebbero bene a non fidarsi troppo, come stanno facendo, delle virtù salvifiche del nostro premier: «Il governo di Draghi può scrivere assegni perché è lui che lo guida. All'inizio del mese, ha annunciato piani per aggiungere 40 miliardi (2,4% del Pil) di stimoli, e i rendimenti obbligazionari non si sono quasi mossi. Al contrario, quando nel 2018 il governo italiano guidato dai populisti e dalla destra dura ha proposto un bilancio con un deficit del 2,4% del Pil, i mercati hanno fatto i capricci».

Uno direbbe: embè? Non ce l'abbiamo messo proprio per questo Draghi a Palazzo Chigi? E invece no. No perché Draghi passerà e l’Italia resterà, non proprio uguale ma non abbastanza diversa: «Un cambiamento globale è impossibile sotto Draghi. Tutto quello che può fare è lasciare un progetto per gli altri. A quel punto, i dubbi sull’Italia si insinueranno di nuovo nel sistema».

L'Economist sposa infatti la «visione pessimistica» dell'effetto Draghi, quella secondo cui «offre solo una tregua piuttosto che una redenzione». Perché «che i leader dell'Ue accettino veramente solo un primo ministro italiano tecnocratico è un brutto precedente», visto che l'Italia reale, fuori da Palazzo Chigi, è un'altra: «Ben oltre la metà degli elettori italiani sostiene i partiti, che si tratti della Lega Nord, di Fratelli d'Italia, ancora più a destra, o del Movimento 5 Stelle, che sia i mercati sia i leader europei considerano inaccettabili». E i paesi italoscettici, quelli che non volevano darci i soldi del Recovery, sapranno girare comunque la frittata dalla parte preferita: se Draghi funzionerà, diranno che solo con uno come lui l'Italia può essere credibile; se Draghi fallirà, diranno che l'Italia non ha speranze.

Prima di deprimerci però, diamo una lucidata alla «visione ottimistica» dell'effetto Draghi, quella accennata all'inizio e che anche l'Economist, pur senza crederci, mette in fila: Draghi che fa un Recovery Plan fantastico, così inemendabile e stringente e funzionale da costituire una "super camicia di forza" per i governi successivi, «che non saranno in grado di deviare dai suoi piani senza che la Commissione fermi il denaro». Non solo: «Draghi può lasciare un nuovo progetto fiscale per l'Ue nel suo complesso», magari assecondato da una Germania a trazione verde.

E allora, letto attentamente l'Economist - che è una bibbia laica ma come ogni bibbia non può non minacciare i giudizio universale - è a questa seconda visione che bisogna appigliarsi. Draghi è un'occasione, non un salvatore. E può aiutarci a non avere più bisogno di salvatori.

Justice.gov
Come le gang dell’Est Europa e quelle latinoamericane si saldano nel narcotraffrico
editorialista
Guido Olimpio

Un modus operandi sfrontato, condotto a bordo di una grande nave mercantile. Il 17 giugno 2019 la polizia sale sulla MSC Gayane, arrivata a Filadelfia dopo un viaggio sulla rotta Cile-Perù-Panama-Bahamas. Il blitz porta a individuare una montagna di cocaina, valore superiore al miliardo di dollari. Uno tra i più grandi sequestri. Foto sui social, comunicati, dichiarazioni soddisfatte per una vicenda dai risvolti «spettacolari».

Le indagini ricostruiscono le mosse di una gang composta da marinai montenegrini e samoani in servizio sul mercantile. Sono stati arruolati da un boss residente in madrepatria, gli hanno promesso 50 mila dollari per eseguire il lavoro suggerendo di ingaggiare altri compagni, hanno acquistato dei telefoni per comunicare. Al fine di aggirare i controlli la banda evita di nascondere il carico prima della partenza dallo scalo, ma si affida una catena logistica che richiede un'ottima organizzazione.

Alcuni contrabbandieri, usando motoscafi veloci, affiancano in piena notte la Gayane in navigazione e passano la "merce" ai complici a bordo. Per rendere tutto più rapido i marinai usano una piccola gru, facilitano l'accesso alle «mattonelle» e le celano dentro i container, poi rinchiusi applicando sigilli falsificati. Tutto questo avviene di notte in acque peruviane, grazie alla sponda della «squadra» - della quale fanno parte anche alcuni ufficiali - che agisce all'insaputa del comandante e del resto dell'equipaggio. Sono queste le conclusioni dell'inchiesta, appoggiata da prove e confessioni, sfociata in sentenze di condanna.

Immaginate lo scenario. Le coordinate trasmesse via cellulare, i motoscafi che manovrano, il buio, i movimenti per completare l'operazione. I predoni osano, hanno la faccia tosta, cambiano tattiche. Sono spinti dalla determinazione, ma soprattutto sanno di poter fare un buon bottino. Il coinvolgimento di elementi balcanici è una duplice conferma. Network montenegrini si sono specializzati in questo tipo di missioni, a volte hanno usato contenitori a tenuta stagna, dotati di segnalatore GPS. Involucri lanciati davanti a coste amiche dove erano pronti a muovere dei pescherecci incaricati di recuperare la «partita».

Il secondo aspetto è il ruolo esteso di mafiosi dell’Est trapiantati da tempo in America Latina. Mandano la coca verso l'Europa e c'è chi prova a organizzare spedizioni in regioni più vicine ricorrendo anche ai cosiddetti narcosub, battelli semi-sommergibili che operano da Colombia-Ecuador verso il Centro America. È il caso del clan Tito, con presenze in Perù, ma allargatosi verso mete lontane.

The Spectator
Vaccini? Non solo: c’era anche la scrittura tra le mille "eccentricità" di Lady Montagu, una donna che ha cambiato il mondo
editorialista
Valeria Palumbo

Sta diventando un po' stucchevole l'espressione «la prima donna a…». Ma riferita all'inizio del Settecento ha tutto un altro valore. E Lady Mary Wortley Montagu, nata Pierrepont (1689-1762) di primati, non solo femminili, ne ha conquistati parecchi. Il più importante e incredibilmente ancora oggi misconosciuto è quello sui «vaccini». Meglio: Lady Montagu, moglie dell'ambasciatore britannico a Istanbul, diffuse in Inghilterra la pratica secolare dell'inoculazione del virus del vaiolo, dopo averne verificato l'efficacia anche su suo figlio e aver persuaso anche la regina Carolina di Brandeburgo-Ansbach, l'intelligente e colta (e influente) moglie di Giorgio II d'Inghilterra.

Ma, l'articolo apparso sul settimanale britannico The Spectator ne racconta un altro ben curioso: fu la prima e donna a scrivere su quella testata. Anzi, sul quotidiano The Spectator, che ne fu progenitore e che uscì dal 1711 al 1712. Per questo rimase anche l'unica a farlo. L'articolo di Lady Montagu raccontava quanto insoddisfacente potesse essere un marito. Anche se l'autrice si affrettava ad assicurare che il suo, Edward Wortley Montagu, fosse più che meritevole. In effetti i due, pur di sposarsi, erano fuggiti insieme, proprio nel 1712. Dopodiché, nel 1739, lei partì per l'estero, ovvero si separò da Edward e non lo vide mai più, benché i loro rapporti restarono cordiali. Nel frattempo, lui aveva fatto carriera politica (ma alla fine fu messo da parte). Lei, che da donna non poteva aspirare ad alcuna carriera, scrisse, scalpitò, contrasse il vaiolo (che la sfigurò, ma non l’uccise), partì con lui per l'Oriente nel 1716, scrisse lettere che sono tra i testi più intelligenti, acuti e informati sull’Impero ottomano e soprattutto sulle sue donne. Poi si dedicò alla battaglia per diffondere la variolazione (la tecnica di inoculazione che ha preceduto il più moderno vaccino), per cui combatté tutta la vita. E, infine, appunto, prese a viaggiare da sola.

The Spectator, in realtà, si occupa di Lady Montagu perché, come in Italia - ne abbiamo parlato sulla 27esima Ora -, anche in Gran Bretagna è appena uscita una biografia. Si intitola The Pioneering Life of Lady Mary Wortley Montagu. L'ha scritta Jo Willett (che per tutta la vita ha prodotto fiction per la tv) per Pen & Sword History e, guarda le coincidenze, non è tanto stata progettata adesso, in concomitanza con l'epidemia di Covid e la sua sconfitta (in Gran Bretagna) grazie ai vaccini. Ma a 300 anni esatti da quando, nell'aprile 1721, Lady Montagu cominciò appunto la sua battaglia per la diffusione dell’innesto, come lo chiamava lei, del virus del vaiolo come sistema di immunizzazione di massa.

Lady Montagu era, per la sua epoca, bizzarra. Lo era nonostante oggi a noi sembrino bizzarri molti dei suoi contemporanei. E molto più di lei. Ma lei, che pure amava la satira e l'ironia, fu vittima della satira feroce di un suo ex amico, il poeta Alexander Pope, di cui non si sono mai capite bene le ragioni per un'ira così feroce e implacabile (Pope era un uomo infelice a cui la tubercolosi ossea, oggi combattuta guarda caso con un vaccino, aveva impedito di crescere in altezza).

Contro Mary, a parte la classe medica, che lei accusava, a ragione, di opporsi all'inoculazione per interesse più che per motivi professionali, si lanciò anche lo scrittore gotico Horace Walpole. L'autore del Castello di Otranto, considerato l'inventore del romanzo gotico (ma fu Ann Radcliffe a renderlo un genere popolare a fine Settecento) la descrisse come un'eccentrica. Il punto è che per noi è più un merito che un demerito. Così come ci diverte molto l'idea che l'ormai matura intellettuale, si sia invaghita di un giovanotto italiano di cultura poliedrica, Francesco Algarotti (1712-1764) e l'abbia inseguito per mezza Europa. Lui in realtà preferiva gli uomini, anche se su questo le sue biografie continuano a essere reticenti, e fu a lungo legato a Federico di Prussia (1712-1786), proprio quello che ha trasformato il suo Paese in una incredibile macchina da guerra.

Appunto: un secolo interessante il Settecento. Sbagliava molto e osava molto. E tra divieti e censure (Lady Montagu pubblicava i suoi articoli in forma anonima) permetteva comunque alle donne di alto ceto avventure intellettuali e sentimentali che la mentalità borghese del secolo successivo avrebbe ferocemente censurato. Lady Montagu non si faceva illusioni sulla possibilità che un giovane uomo (Algarotti aveva 23 anni meno di lei) si innamorasse davvero di una donna matura. «Non accade dai tempi del diluvio universale», chiosò. Eppure, curiosamente, non smise né di inseguirlo né di ignorare i suoi gusti. Le sue Lettere turche, bellissime, furono salvate prima alla furia distruttrice della famiglia (quanti scritti di donne sono stati bruciati da affezionati mariti-sorelle-figli) e poi pubblicate postume. Adelphi ha stampato, nel 2014, Cara bambina. Lettere dall’Italia alla figlia. Ma la figlia, Lady Bute, era così diversa… Nell'anno della morte della madre, il 1762, suo marito divenne primo ministro. Un'ottima carriera. Lei fece figli: 11. Una sola, Louisa Stuart (1757-1851), non si sposò e passò la vita a scrivere. Ma non a pubblicare: era ancora disdicevole a metà Ottocento, per una donna. Ma questa è ancora un'altra storia.

Times, Hollywood Reporter
Il terrore del palcoscenico, il rifugio nell’analisi, l’esercito (ignorato) di fan: autoritratto di Olivia Colman (in attesa del secondo Oscar)
editorialista
Paolo Baldini

Oche, conigli e cioccolato: così nel 1708 la viziosa regina Anna d'Inghilterra tentava di vincere l'ansia della guerra con la Francia, ascoltando il rumore dei nemici e le chiacchiere di corte. Per quel ruolo nel film La favorita del greco Yorgos Lanthimos, Olivia Coleman superò in bravura Emma Stone e vinse nel 2019 un meritato Oscar che forse bisserà tra poche ore grazie a The Father - Nulla è come sembra, dove è la figlia di un eccellente Anthony Hopkins, ottantenne brontolone che rifiuta l'assistenza.

Che le star abbiano un accesso privilegiato al lettino dello psicanalista è cosa nota. Olivia Colman, nome d’arte di Sarah Caroline Colman, confessa in un’articolata intervista al Times di soffrire da sempre di una vera e propria fobia da palcoscenico, più forte quando recitava in teatro, ma con la spia sempre accesa. «Ne ho sofferto molto quando ho iniziato e non mi è mai passata del tutto». Memoria cancellata, farfalle nello stomaco, voglia di scappare via: i sintomi sono questi.

Olivia Colman ammette timidezze antiche 
che la recitazione e i successi hanno in parte cancellato, lasciando tuttavia tracce imbarazzanti. Ricorda le analoghe paure di molti colleghi: tra questi Daniel Day-Lewis, in particolare quando doveva interpretare Amleto. Aggiunge di aver affrontato con mille esitazioni prove importanti della sua carriera: dal ricevere un Oscar al dire in faccia ai produttori di una serie tv multimilionaria che il suo personaggio avrebbe dovuto essere ridisegnato. Niente tuttavia l'atterrisce quanto recitare in teatro, quando il sipario si alza e davanti appare sua maestà il pubblico, il supremo giudice. Un'ansia che la pandemia potrebbe aver sottolineato e che l’attrice meravigliosa di The Crown, in cui per due stagioni ha interpretato la regina Elisabetta, rivela di aver tentato di combattere persino con l’ipnoterapia. «Un'esperienza decisiva», sostiene.

L’analisi è una via di fuga, ma Colman si difende 
cercando di limitare la sua attività ai ruoli «che sente di più, che la fanno stare meglio». Disse una volta a Rufus Norris, direttore artistico del National Theatre di Londra: a mano a mano che la mia fama cresce, aumentano le mie fobie.

L'attrice 47enne debuttò nel 2000 con Lungo viaggio verso la notte di Eugene O'Neill. Si è esibita per l'ultima volta sul palco nel 2017 nella pièce Mosquitos di Lucy Kirkwood: regia di Norris. Il set, assicura, dirada il brivido da esibizione, che anni di terapia non hanno cancellato. Olivia è considerata la più brillante (e più dotata) attrice britannica della sua generazione. La più brava, la più amata, pronta a rinunciare a glamour e buon trucco per parti interessanti o per un weekend con i figli, in passato spesso con lei sul set. Secondo le biografie, scoprì la vocazione a 16 anni. «E non ho mai voluto fare altro, del resto ero una studentessa terribile». Il suo prossimo traguardo potrebbe essere il debutto nell’universo dei supereroi Marvel. Secondo quanto ha scritto Hollywood Reporter, sarebbe aperta la trattativa on Disney+ per una parte di rilievo nella serie Secret Invasion, dall'omonimo crossover a fumetti pubblicato nel 2008. Colman si aggiungerebbe a un cast che comprende Samuel L. Jackson, Ben Mendelsohn e Kingsley Ben-Adir.

Nata sotto il segno dell’Acquario il 30 gennaio 1974, è originaria di Norwich, nel Norfolk
. Papà Keith era un geometra, ferratissimo con i numeri, mamma Mary un'infermiera. Il marito, dal 2001, è l'attore e drammaturgo Ed Sinclair: si sono conosciuti sulla scena, a casa parlano per lo più di teatro, cinema e televisione. «Ma questo non serve a esorcizzare le paure». Hanno tre figli, due maschi e una femmina. Olivia ama le case antiche, il giardinaggio, il cibo italiano. Passa per una donna decisa, senza peli sulla lingua. Con il tempo si è specializzata in ruoli reali o di personalità politiche d'alto bordo, come quando nel 2011 interpretò Carol Thatcher, la figlia di Margaret Thatcher, nel biopic The Iron Lady. Olivia è assai attiva nel volontariato, impegnata contro violenze e abusi domestici, la depressione post parto e l'Alzheimer. Non ama i social, non ha un profilo Instagram. In compenso si moltiplicano le pagine dei fan. Di cui, dice, «non mi curo, mi limito a un'occhiata, se capita».

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