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sabato 20 gennaio 2024

 

 

In morte di un amico Felice Merola

alias Felice  ‘o caprettaro

Felice, mio amico è citato nel mio libro

 “Il delitto di un uomo normale”

 

La notizia apparsa oggi sui Media sulla immatura scomparsa di Felice Merola, più conosciuto come ristoratore o come “Felice o’ caprettaro” mi ha riportato indietro nel tempo per i miei ricordi.  Io posso dire una parola in più degli altri perché ero molto amico di Felice. Tanto è vero che nel 2009 in occasione della mia opera “prima”: “Il delitto di un uomo normale”, gli ho dedicato addirittura una citazione nel capitolo 16 (che in seguito riporto) e una nota a chiusura (la n°7 che qui di seguito riporto).

 

 

 

“IL DELITTO DI UN UOMO NORMALE”

CAPITOLO16

 

La lettera anonima che accusava Peppe Maddaluna di essere complice di Tafuri

 

 

Prendiamo atto che, nel frattempo, era stato rintracciato anche l’elettrauto che aveva cambiato il fanalino all’auto del Tafuri, il giovane operaio, Renato Ferrara, confermò che “un signore distinto e molto alto” si era presentato presso la sua officina per cambiare un fanalino.

“Lo stesso – precisò il giovane – vestiva di scuro e andava molto di fretta, mi pagò con 30 lire, potevano essere all’incirca le 20.15”.

Presso il gommista Carmine Aulicino venne sequestrata la ruota che era scoppiata all’auto mentre Tafuri portava il cadavere a bordo.

La “Giulietta” – si accertò – era stata portata dal gommista da Mario Di Lorenzo, un uomo che collaborava con la farmacia del padre del dottore.

Dal canto suo Giovanni Petirro, il noleggiatore napoletano, confermò di aver dato in fitto una Fiat 600 a Nanà (Nanà era appunto il nomignolo col quale era conosciuta la ballerina) auto che era stata successivamente trovata parcheggiata in via Crispi a Napoli. Il giovane Adelio Brunetti, che “conviveva” in casa con l’omosessuale Carlo D’Agostino, ma era ufficialmente dipendente della sartoria di Giuseppe Pinnavaia confermò la presenza di vari personaggi nei locali tenuti in possesso dal D’Agostino. Furono identificati chiaramente Aurelio Tafuri, il dottor Delle Cave, Anna Maria Novi, l’ing. Egano Lambertini, i quali, disse il giovane, erano adusi a trattenersi tutti insieme per delle orge, sia con la Novi che con altre donne, nel corso delle quali si faceva anche uso di sostanze stupefacenti. Spesso, si giocava a “poker-streep”.

Insomma, si stava verificando, come spesso avviene in questi casi, il massacro alla “Kramer contro Kramer”, tutti accusavano tutti, anzi, approfittavano dell’occasione per gettare fango sui nemici e aggiungere, con grossolane calunnie, particolari inediti e scabrosi quasi tutti inventati di sana pianta.

“L’uomo, è poco se stesso in prima persona”, ha detto Oscar Wilde, “dategli una maschera e vi dirà la verità”.

Ma quale verità? Quella cartacea? Quella che risultava dagli atti? Quella sostenuta dall’imputato? Quella adombrata dalla parte civile? Quella degli inquirenti? Quella degli investigatori? La verità, specialmente quella giudiziaria, come ha più volte affermato Giovanni Leone, è inafferabile.

C’è la verità dell’imputato che ha il privilegio di poter dire sempre quello che vuole; la verità della parte lesa che, non diversamente da ciò che avviene per un cristallo percorso da una incrinatura, manda voci in falsetto in diretta dipendenza delle sue lesioni; la verità del testimonio, in lotta con ogni forma di ostacoli che gli vengono dall’apparecchio della giustizia che deve sondarlo, dalla gara delle parti che lo tartassano, dalla fallacia della memoria, dalle suggestioni del quieto vivere, dalla originaria, spesso imperfetta apprensione dei fatti. Segue la verità del pubblico ministero che, per precauzione, deve quasi sempre accusare, quella del difensore che, per necessità, deve sempre difendere. E da questo complesso di verità concorrenti, il giudice... riceverà l’estratto concentrato, la verità ufficiale, che si chiama cosa giudicata.

Oppure, come ha scritto l’avvocato Saverio Senese, nel suo “Delitto di difesa”:

“Il difensore deve farsi carico di introdurre nel processo la verità, della parte, farla prevalere sulla verità dell’accusa, mettere al primo posto gli interessi dell’assistito, coincidano o meno con l’accertamento della verità, mirare alla libertà del detenuto, all’assoluzione dell’imputato. Comportarsi diversamente, ritenersi collaboratori della giustizia, tendere alla verità assoluta più che alla verità di parte, significa porsi nella posizione del delatore, dell’accusatore, del violatore del segreto professionale”.

Io l’ho conosciuto l’avvocato Saverio Senese, faceva parte del gruppo degli avvocati del “Soccorso Rosso”. (L’organismo creato appositamente per assistere i brigatisti). L’incontravo ogni giorno, in udienza, con la sua folta barba bianca, all’epoca del processo a Domenico Ragozzino, il direttore del manicomio di Aversa, accusato di maltrattamenti e condannato a 4 anni di carcere. Ragozzino si suicidò, per il rimorso, impiccandosi, proprio nella struttura che dirigeva.

L’otto aprile, a circa un mese dal delitto, uscì fuori un altro elemento chiave: una sbarra di ferro. L’arnese, sottratto da una poltroncina di un vagone ferroviario, fu buttata dall’assassino in un piccolo laghetto artificiale, nella zona della “Cupa Imparato”, alla periferia di Giugliano, un luogo frequentato solo da coppiette e da prostitute. Fu rintracciata, su precise segnalazioni del Tafuri, e i carabinieri incaricarono l’operaio Franco Corona, il quale, calatosi nella melma, portò in superficie una sbarra lunga 46 centimetri. Era il bracciuolo di una poltroncina di un vagone di prima classe delle Ferrovie dello Stato. Era l’arma del delitto. Nessun alterco, nessuna colluttazione, un solo colpo alla testa del giovane Gianni e tutto era finito... anzi, tutto era cominciato. Era stato lo stesso Tafuri, un vero fiume in piena a confessare particolari del suo delitto, ignaro (o cosciente?) del fatto che, la sua posizione, andava sempre di più aggravandosi. Con la sua puntigliosa ricostruzione, aveva trascinato gli investigatori e indicato il luogo preciso dove aveva gettato la sbarra di ferro. Chi l’avrebbe mai ritrovata senza le sue indicazioni? Perché lo fece? Quale luogo migliore per nascondere  l’arma del delitto? Intanto, pochi giorni prima, il padre del giovane Gianni De Luca, attraverso i suoi legali, Luigi Bagnulo e Luigi Renato Sansone, si era costituito parte civile nel processo che, oramai, si avviava verso la sentenza della sezione istruttoria.

Ricordate? L’indagine, per la notorietà dei personaggi e per la tema che gli stessi avessero potuto influenzare i giudici, venne avocata dalla Procura Generale di Napoli? Ricordate? Si adombrava un legittimo sospetto?

Nello stesso tempo anche i difensori dell’imputato cominciarono a muoversi chiedendo per prima cosa, al giudice istruttore, l’acquisizione di una lettera che era stata spedita dal dottor Tafuri alla clinica dermatologica di Napoli, sollecitando i destinatari a esibirla in giudizio.

Ma che cosa si proponevano i difensori di Tafuri con quella richiesta? Nella missiva, indirizzata ai primari Pietro Cerretti e Andrea Montagnani, rispettivamente direttore e vice direttore della clinica, veniva evidenziato lo stato di profondo squilibrio in cui era caduto il medico sammaritano (la relazione, a lungo andare, stanca?) e in conseguenza del quale aveva deciso di abbandonare il suo prestigioso incarico presso la struttura sanitaria. Ma, nella lettera Tafuri non aveva lasciato a intendere che si trattava di una depressione venuta alla luce in seguito al suo mènage con la Novi, no! Aveva semplicemente fatto cenno alla rinuncia con motivi strettamente personali.

Avete presente quando vi ho accennato, all’inizio del racconto, che nel corso dell’indagine si erano verificati alcuni casi di sciacallaggio epistolare?

Bene. Un bigliettino anonimo fu fatto recapitare ai carabinieri. Lo stesso diceva: “Mercoledì notte, il giorno del delitto, tale Giuseppe Maddaluna, cittadino sammaritano, amico di Aurelio, è stato visto in compagnia del medico a bordo della Giulietta”.

Era un vero e proprio colpo di scena. Ecco il complice che tutti cercavano. Risultò tutto falso. Peppino Maddaluna, fratello del mio amico Giovanni, padre dell’avvocato Emilio, complice di un delitto? Non poteva essere vero. E infatti non era vero!

Peppino Maddaluna, invece, era un simpaticone, coi baffi all’insù, noto per avere organizzato delle proverbiali “Piedigrotte sammaritane”, facente parte di una squadra del tipo “amici miei”, composta da Oscar Lucidi, avvocato e autore di pregevoli canzoni; Luca Aliviero, musicista provetto e fantasista; Alfonso D’Addio, detto Ninnone, conduttore di programmi radiofonici presso “Televolturnia”, l’emittente inventata da Franco Lamanna e da me diretta; Elio D’Aurenti, pseudonimo del dr. Aurelio Cecere, padre del giornalista Prospero, che aveva una voce bellissima e che era il vero e proprio animatore delle serate.

No, Peppino Maddaluna non poteva essere complice di un delitto.  La sua bonomia era nota a tutti.  Per gli inquirenti, però, quel bigliettino poteva essere un indizio importante e portare - finalmente - alla scoperta di quel complice che si era cercato dalla prima ora. Subito si aprì una serie di sconcertanti interrogativi: che ruolo aveva avuto nel delitto? Era lui l’uomo chiave della vicenda? Perché era a bordo dell’auto dell’assassino? Chi aveva interesse a depistare le indagini? Chi avrebbe potuto scrivere il bigliettino indirizzato ai carabinieri? Secondo me a scrivere il bigliettino fu la stessa polizia (non è la prima volta) la quale, come ho accennato prima, essendo stata subissata da brutte figure, tentava di far aggrovigliare la matassa anche per i carabinieri, che, tuttavia, procedevano agli interrogatori più speditamente.

Tutto, o quasi, fu chiarito con l’interrogatorio del Maddaluna. Peppino ammise di essere compagno di scuola di Aurelio. Aveva infatti frequentato il Liceo con lo stesso. Si accompagnava spesso con lui, ed era anche a conoscenza della tresca con la Novi. Sovente parlavano dei vari incontri amorosi con la donna. Aveva anche avuto la percezione che il suo amico stesse in difficoltà e che gli aveva confessato di essere quasi sul lastrico, per quella donna, ma, spiacente per gli inquirenti, del delitto non ne sapeva nulla!

Ebbene, nonostante ogni trucco, e nonostante ogni forzatura: “Dov’eri all’ora del delitto?...” i carabinieri non riuscirono a incastrare il Maddaluna. Il fine è sempre lo stesso, ieri come oggi, per polizia, finanza e carabinieri: “Chiù simme, e cchiù belle parimme!”.

È il criterio a cui si ispirano molti blitz (vedi, per esempio, quello contro Enzo Tortora) il 20% degli imputati arrestati per omonimia e quello dell’Aima, (nel quale sono stato coinvolto io) il 90 % degli imputati sono stati assolti. Spesso queste azioni sono ispirate al pensiero di Arthur Schopenhauer: “Quando non hai argomenti da opporre al tuo avversario, insultalo, denigralo, diffamalo, calunnialo e vedrai che alla fine hai ragione tu”.

Spiacente di deludervi ma... il giorno del delitto non era stato in compagnia di Aurelio, e anzi Peppe Maddaluna esibì un alibi di ferro.

Era stato assieme a un Aurelio, ma si trattava di Aurelio Cecere, che, assieme ad Alfonso D’Addio, Aldo Trullio e Oscar Lucidi, l’avevano accompagnato a gozzovigliare presso il ristorante da “Felice ò caprettaro” a Casapulla. Alibi confermato per filo e per segno da tutti gli interrogati. Perfino da Felice Merola, gestore del rinomato locale.

Il ristorante “O’ Caprettaro”, all’epoca, era molto frequentato dai sammaritani, specialmente negli anni del processo per la rivolta del calcio di Caserta, io e altri colleghi giornalisti, addirittura, ci andavamo ogni giorno, insieme ai giudici Luigi Arcella, Antonio Blandini e Alfonso Malinconico. Stranamente, a quei tempi, il Tribunale di S. Maria C.V. non era inquinato come adesso dalle “cimici”, dai “corvi”, e dagli “sms”, e ci faceva buona compagnia finanche il pubblico ministero, Raffaele Raimondi, con moltissimi avvocati difensori, impegnati nel grave processo. Un’epoca idilliaca per tutti. Peccato, erano bei tempi, anche per me, che esordivo nel giornalismo, e che ero pieno di speranze e non avevo avuto ancora brutte esperienze di vita!

E... intanto, mentre noi ci trastullavamo con Felice il “Caprettaro”, le indagini sul delitto Tafuri continuavano e sparivano, almeno per il momento, anche le tracce per identificare un ipotetico complice. Infatti - anche successivamente - gli inquirenti saranno all’eterna ricerca del complice e ritorneranno a interrogare il fratello Mario e un certo Padolecchia, un giovane napoletano, reo soltanto di essere uno “sfaticato”.

Mentre le indagini proseguivano, diciamo così, sul versante economico. Infatti Mario, fratello di Aurelio, confermò agli inquirenti la circostanza delle cambiali in possesso dell’industriale Mario Santoro, di cui era giunta notizia al commerciante di scarpe sammaritano Giovanni Merola. Ricordate?

“Mio cugino Giovanni - disse Mario Tafuri - “mi riferì che un tale Santoro, grossista di calzature al mercato di Napoli, aveva ricevuto l’offerta di un certo numero di cambiali a firma di mio fratello Aurelio, per un importo di circa due milioni e mezzo di lire. Dopo qualche giorno, andammo a Napoli e ci incontrammo col Santoro, ma lo stesso ci fece intendere che aveva restituito le cambiali ma che, tuttavia, tramite terze persone (è la solita tecnica degli strozzini, inventano sempre che nell’operazione c’è un terzo. N.d.A.), era possibile recuperarle e anche a un costo inferiore alla loro effettiva somma perché la persona che le deteneva, cioè una tale Anna Maria Novi, aveva bisogno di realizzare subito del denaro. Al mio ritorno a Santa Maria, riferii ogni cosa a mia madre e successivamente a mio fratello Aurelio, il quale negò di aver emesso cambiali per l’importo sopra citato, ma ammise parzialmente di aver firmato un effetto di 500 mila lire. Per tale fatto, mia madre diede a mio fratello la somma occorrente perché la cambiale fosse ritirata al più presto possibile dalle mani degli strozzini”.

 

Per ricostruire la “dolce vita” notturna del Tafuri a Napoli, polizia e carabinieri lavorarono alacremente, e quindi fu passato al setaccio quel mondo turpe e corrotto che era “l’entourage” della brigata D’Agostino. Un mondo di ruffiani, prostitute, strozzini, invertiti, contrabbandieri e drogati. Elisa Lops, tutte curve, avvenente prostituta napoletana, nuova amante dell’ingegnere Egano Lambertini (quest’ultimo, infatti, era stato costretto ad allontanarsi dalla Novi per l’ingombrante presenza del giovane Gianni De Luca), raccontò: “Circa un anno e mezzo fa incominciai a frequentare ritrovi cittadini e precisamente quelli siti nella zona di S. Lucia e via Partenope, dove avevo modo di trattenermi con occasionali amici. Ho conosciuto Carlo D’Agostino – forse da qualche anno – e mi recai presso la sua abitazione assieme a mia sorella Filomena, poiché lei intendeva acquistare un vestito dal sarto. Dopo qualche tempo presso il bar “Lloyd” conobbi l’ingegnere Egano Lambertini e subito con lui allacciai una relazione e attualmente è il mio compagno. Lo stesso Egano mi riferì che presso l’abitazione del sarto, si tenevano spesso serate e convegni amorosi, e la casa era stata frequentata dalla Novi, dal De Luca e dal Tafuri”.

Ma la polizia di Napoli, che aveva ricevuto le segnalazioni dal Commissariato di S. Maria C.V., portava avanti una indagine cosiddetta “parallela”, e l’inchiesta  aveva un preciso obiettivo: sottrarre le indagini ai carabinieri di Santa Maria Capua Vetere, e pertanto praticava tutte le strade per poter mettere le mani sui presunti complici del Tafuri. E se non ve ne erano? Pazienza, bisognava inventarli. Ora come allora, nulla è cambiato. Caserme, questure e tribunali, sono state da sempre centrali di false accuse per i poveri cristi, per coprire alla meglio l’inefficienza investigativa degli apparati preposti.

Fu chiesto allora alla Lops, se avesse conosciuto un certo Mario Padolecchia (che la polizia sospettava complice del Tafuri) e la stessa affermò testualmente: “Nel maggio, o giugno dello scorso anno, ebbi modo di conoscere Mario Padolecchia abitante in Via Michelangelo Schipa. Pur conoscendolo, non mi sono mai recata presso la sua abitazione, né ho avuto rapporti carnali con lui, nonostante mi avesse chiesto più volte di andare a letto con lui... mi sono astenuta, principalmente per rispetto al mio attuale compagno”.

Che dire? A volte anche le puttane hanno una coscienza.

Forse più di quelle mogli all’apparenza oneste, tutte “casa e chiesa”, che poi, appena possono, diventano delle porcone, più puttane di quelle di Bologna e spesso vengono scoperte in “case squillo” di terz’ordine! Quelle di Caserta a Formia e quelle di Formia a Napoli o Cassino.

Vi sono fatti di cronaca - anche recenti - che lo confermano.

Intanto, delle cosiddette “indagini parallele” condotte simultaneamente dai carabinieri e dalla polizia, che, generalmente, non approdano mai a un risultato univoco, i napoletani ne avevano piene le “palle”. I più anziani ricordavano, non senza preoccupazioni, quella portata avanti dalla Questura di Napoli e dal Capitano dei carabinieri Carlo Fabroni, che portò all’arresto di moltissimi camorristi, tutti accusati dell’omicidio di Gennaro Cuocolo e di sua moglie Maria Cutinelli.

E tutti regolarmente assolti per l’omicidio.

Ma il grottesco della vicenda, svoltasi a Napoli all’epoca appunto del famoso processo Cuocolo, celebratosi poi in una chiesa sconsacrata a Viterbo, per legittimo sospetto, fu la conclusione alla quale giunsero i carabinieri: chiesero (ma per fortuna non ottennero) il mandato di cattura per il capo della mobile e per molti agenti della Questura per “connivenza” con la camorra; oggi si direbbe per “contiguità”, o per “concorso esterno”.

Dall’altro lato, la Questura, si premurò subito di far sapere alla magistratura che le prove delle accuse prodotte dai carabinieri, erano false, perché costruite artatamente mediante il pagamento di grosse somme di denaro, elargite al primo pentito di camorra, il cocchiere sammaritano Gennaro Abbatemaggio. Quasi come oggi.

Nulla è cambiato.

Così come hanno fatto con me (e penso con tanti altri) pagando profumatamente quel cornuto e prezzolato di Pasquale Pirolo, erede diretto di Abbatemaggio, sporco e venduto come lui. Contropartita? Nessun arresto per reati di bancarotta, truffa, falso e guida senza patente. E inoltre il dissequestro delle sue attività commerciali, frutto di camorra e crimini.

Ma ritorniamo alle indagini.

Sulla scorta delle indicazioni della donna, la Questura si mise sulle tracce del Padolecchia, e, per acquisire altri elementi, andò a interrogare il portiere dello stabile di via Michelengelo Schipa n° 34.

Lui non poteva non sapere... (anche allora!).

Tutti i portieri, a Napoli e altrove, sono confidenti della polizia e dei carabinieri, alcuni sono addirittura stipendiati e sono “spioni” a tempo pieno. Del resto, se non ci fossero gli spioni, le lettere anonime, i pentiti e le loro delazioni, come farebbero per scoprire gli autori dei crimini, questi incapaci poliziotti, carabinieri e corrotti finanzieri? E pensate un poco quanti buffoni, purtroppo, siedono al posto sbagliato nelle Questure e nelle caserme? O negli uffici delle Procure?

L’arresto del comunista Angelo Brancaccio e dei suoi complici, poliziotti e carabinieri, nel maggio del 2007, ne ha dato una prova certa. Corruzione a tutti i livelli!

Il portiere Alfredo Labate dichiarò: “Conosco Mario Padolecchia da quando sono stato assunto in qualità di portiere dello stabile, il Padolecchia abitava da solo, in quanto pare che non avesse familiari. A me personalmente risulta che conduce una vita disordinata, le sue giornate sono strane, rincasa quasi sempre alle prime luci dell’alba, dorme fino a mezzogiorno e poi esce. Diverse notti ha avuto dei banchetti con uomini e donne nella sua abitazione e pare che facessero delle orge. Negli ultimi tempi, verso il mese di febbraio, questi convegni si sono accentuati. Mi consta che è oberato di debiti, in quanto spesso vengono delle persone a cercarlo. Molti hanno delle brutte facce e sembrano uomini di Forcella e della zona del Vasto e imprecano, ad alta voce, con frasi e parole minacciose, quando non lo trovano in casa”.

“A me risulta – continuò il portiere Labate – che non svolge alcuna attività e non so come può procurarsi i soldi per vivere a meno che non faccia il “pappone”. Si dice con insistenza che lui ha un’amante che lo mantiene, ma su questo non posso giurarci. Tra le tante persone che frequentavano la casa del Padolecchia, mi sembra di aver notato qualche volta anche il giovane Gianni De Luca, che ho visto fotografato sui giornali che parlavano della sua uccisione. Mi sembra – ma non vorrei sbagliare – di aver visto qualche volta anche la donna che pure ho visto fotografata sui giornali e pare che si chiamasse Anna Maria Novi”.

“Una volta vidi anche, tra le persone, un signore molto alto e robusto e che mi sembra portasse gli occhiali, e tutti insieme, un mattino presto, mi sembra che era il quindici o sedici febbraio, uscirono dalla casa del Padolecchia e salirono a bordo di una “Giulietta” che era parcheggiata nel cortile. Da quando Padolecchia ha lasciato l’appartamento, ritornò da me il mattino del sette, otto marzo, per ritirare una sua valigia che mi aveva in precedenza lasciato in custodia di cui sconosco il contenuto, e una seconda volta, il dodici marzo, per chiedermi se lo aveva cercato qualcuno o se era arrivata posta per lui. Da allora non l’ho più visto. Ora che ricordo meglio, anche quel giovane di cui ho visto la foto sul giornale e sembra sia stato ucciso, tempo addietro aveva lasciato, anche lui, presso di me, una valigia, che prima aveva presso l’abitazione del Padolecchia. Il giovane venne a ritirarla il cinque, sei marzo, e ricordo che venne a bordo di un’auto Fiat 600 di colore grigio”.

Non c’è che dire, il portiere Alfredo Labate, sapeva troppe cose! E non c’erano dubbi che tutti gli indizi portavano a un vero e proprio coinvolgimento del Padolecchia nel delitto Tafuri. Con un lieve aggiustamento – a cura del brigadiere di turno – le deposizioni del portiere sarebbero state (aggiustate!) perfette, per inviare un rapporto al Procuratore della Repubblica e ottenere il suo fermo. Poi, si sa come vanno le cose. Lui avrebbe confessato, con le buone o con le cattive, di essere complice d’un delitto senza conoscere né la vittima né l’assassino... E il “caso” sarebbe stato risolto. L’indomani sarebbero apparsi titoloni a caratteri di scatola su tutti i giornali: “La squadra mobile di Napoli, arresta il complice del delitto Tafuri”.

Non importa se poi il Padolecchia - dopo qualche giorno - verrà rimesso in libertà e il “caso” si sgonfierà. L’importante è che, almeno per un giorno, il commissario Gennaro Capadicazzo e il maresciallo Totonno Piglianculo, assurgono agli onori della cronaca. Come i capitani dei carabinieri Filippo Pifinacchia e Carlo Fabroni, nell’indagine per il processo Cuocolo. Non importa se in galera ci andranno degli innocenti. È un andazzo deplorevole, praticato in tutte le epoche e in tutte le caserme, da carabinieri, poliziotti e finanzieri. Deplorevole - al pari di quello dei magistrati - che fanno le sentenze a “peso”, solo per fare statistiche. A S. Maria C.V., purtroppo, ce ne sono stati moltissimi. Ma... mentre gli errori dei giornalisti finiscono in prima pagina quelli dei magistrati finiscono dietro le sbarre.

Ricordo in particolare i “metodi” usati in Questura (mi riferisco alle mie frequentazioni, presso il Commissariato di P.S. di S. Maria C.V.) all’epoca di Vincenzo Iannetti, quando seguivo la “nera” per “Il Roma”, per far confessare gli innocenti si usavano molti sistemi: patate bollenti in mezzo alle palle, acqua ingurgitata con l’imbuto, botte nei fianchi, dove non si formano ecchimosi, sigarette spente sul collo, asportazione dei peli, nelle parti intime, con pinzette e... compagnia cantando.

Guai, quindi, a non dare la mancia a Pasqua, Natale e Ferragosto al proprio portiere. Potresti trovarti a essere descritto come un novello Landrù, al primo approccio di un questurino. E così era stato per Mario Padolecchia. Tutte calunnie gratuite. In effetti si appurò che erano solo supposizioni, ma, come spesso accade, le supposizioni agli occhi degli “sbirri” diventano certezze e, di conseguenza, agli occhi del magistrato assurgono a prove. Lo conferma l’adagio napoletano - che è come un giudicato della Suprema Corte a Sezioni Riunite: “ciente niente... accerettere nu ciuccio...” ovvero “tre indizi costituiscono una prova!”.

 

A  Casapulla da “Felice” Il  Caprettaro.

Il “Caprettaro” è un ristorante tipico molto antico, le cui origini si fanno risalire addirittura, alla fine dell’Ottocento, allorquando, in Casapulla, i coniugi Giuseppe Merola e Porzia Baccaro, bisnonni dell’attuale gestore, diedero vita a una cantina che fu chiamata “Porzia”, ed era ubicata al vicolo III° della Via Umberto I°, oggi via Fiume. Lo stesso locale, dal 1901 al 1904, fu gestito da Salvatore Merola e Caterina Di Marcello, nonni di Felice.

Poi la locanda, cambiando la denominazione in “’O Caprettaro”, passò sotto la gestione di Pietro Merola e Maria Filomena Riccio, genitori di Felice. Dal 1962, completamente trasformato da “bettola” o “cantina”, in un vero e proprio ristorante, conservando, però, le caratteristiche ed i gusti delle antiche tradizioni culinarie contadine, è passato, sotto la gestione di Felice Merola e della moglie Luigia Grauso. Se dovessi esprimere qui, ora (ma non sono Luigi Veronelli) un giudizio, darei certamente a Felice le 5 forchette.  Un consiglio? Adeguatevi. Come faccio io, quando ci vado con Davide Passarelli. Ci sediamo, attendiamo; viene Felice, ci saluta con un abbraccio e porta in tavola: “fagioli e pettole con le cotiche, con un secondo di capretto e patate al forno, il tutto innaffiato da Cabernet della casa”.

Prosit!

 

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