In morte di un amico Felice Merola
alias Felice ‘o caprettaro
Felice, mio amico è citato nel mio libro
“Il delitto di un uomo normale”
La notizia apparsa oggi sui Media sulla
immatura scomparsa di Felice Merola, più conosciuto come ristoratore o come “Felice
o’ caprettaro” mi ha riportato indietro nel tempo per i miei ricordi. Io posso dire una parola in più degli altri
perché ero molto amico di Felice. Tanto è vero che nel 2009 in occasione della
mia opera “prima”: “Il delitto di un uomo normale”, gli ho dedicato addirittura
una citazione nel capitolo 16 (che in seguito riporto) e una nota a chiusura (la
n°7 che qui di seguito riporto).
“IL DELITTO DI UN UOMO NORMALE”
CAPITOLO16
La lettera anonima che accusava Peppe Maddaluna di essere complice di Tafuri
Prendiamo atto che, nel frattempo, era
stato rintracciato anche l’elettrauto che aveva cambiato il fanalino all’auto
del Tafuri, il giovane operaio, Renato Ferrara, confermò che “un signore
distinto e molto alto” si era presentato presso la sua officina per cambiare un
fanalino.
“Lo stesso – precisò il giovane –
vestiva di scuro e andava molto di fretta, mi pagò con 30 lire, potevano essere
all’incirca le 20.15”.
Presso il gommista Carmine Aulicino
venne sequestrata la ruota che era scoppiata all’auto mentre Tafuri portava il
cadavere a bordo.
La “Giulietta” – si accertò – era stata
portata dal gommista da Mario Di Lorenzo, un uomo che collaborava con la
farmacia del padre del dottore.
Dal canto suo Giovanni Petirro, il
noleggiatore napoletano, confermò di aver dato in fitto una Fiat 600 a Nanà
(Nanà era appunto il nomignolo col quale era conosciuta la ballerina) auto che
era stata successivamente trovata parcheggiata in via Crispi a Napoli. Il
giovane Adelio Brunetti, che “conviveva” in casa con l’omosessuale Carlo
D’Agostino, ma era ufficialmente dipendente della sartoria di Giuseppe
Pinnavaia confermò la presenza di vari personaggi nei locali tenuti in possesso
dal D’Agostino. Furono identificati chiaramente Aurelio Tafuri, il dottor Delle
Cave, Anna Maria Novi, l’ing. Egano Lambertini, i quali, disse il giovane,
erano adusi a trattenersi tutti insieme per delle orge, sia con la Novi che con
altre donne, nel corso delle quali si faceva anche uso di sostanze stupefacenti.
Spesso, si giocava a “poker-streep”.
Insomma, si stava verificando, come
spesso avviene in questi casi, il massacro alla “Kramer contro Kramer”, tutti
accusavano tutti, anzi, approfittavano dell’occasione per gettare fango sui
nemici e aggiungere, con grossolane calunnie, particolari inediti e scabrosi
quasi tutti inventati di sana pianta.
“L’uomo, è poco se stesso in prima
persona”, ha detto Oscar Wilde, “dategli una maschera e vi dirà la verità”.
Ma quale verità? Quella cartacea? Quella
che risultava dagli atti? Quella sostenuta dall’imputato? Quella adombrata
dalla parte civile? Quella degli inquirenti? Quella degli investigatori? La
verità, specialmente quella giudiziaria, come ha più volte affermato Giovanni
Leone, è inafferabile.
C’è la verità dell’imputato che ha il
privilegio di poter dire sempre quello che vuole; la verità della parte lesa
che, non diversamente da ciò che avviene per un cristallo percorso da una
incrinatura, manda voci in falsetto in diretta dipendenza delle sue lesioni; la
verità del testimonio, in lotta con ogni forma di ostacoli che gli vengono
dall’apparecchio della giustizia che deve sondarlo, dalla gara delle parti che
lo tartassano, dalla fallacia della memoria, dalle suggestioni del quieto
vivere, dalla originaria, spesso imperfetta apprensione dei fatti. Segue la
verità del pubblico ministero che, per precauzione, deve quasi sempre accusare,
quella del difensore che, per necessità, deve sempre difendere. E da questo
complesso di verità concorrenti, il giudice... riceverà l’estratto concentrato,
la verità ufficiale, che si chiama cosa giudicata.
Oppure, come ha scritto l’avvocato
Saverio Senese, nel suo “Delitto di difesa”:
“Il difensore deve farsi carico di introdurre nel processo la verità, della
parte, farla prevalere sulla verità dell’accusa, mettere al primo posto gli
interessi dell’assistito, coincidano o meno con l’accertamento della verità,
mirare alla libertà del detenuto, all’assoluzione dell’imputato. Comportarsi
diversamente, ritenersi collaboratori della giustizia, tendere alla verità
assoluta più che alla verità di parte, significa porsi nella posizione del
delatore, dell’accusatore, del violatore del segreto professionale”.
Io l’ho conosciuto l’avvocato Saverio
Senese, faceva parte del gruppo degli avvocati del “Soccorso Rosso”. (L’organismo
creato appositamente per assistere i brigatisti). L’incontravo ogni giorno, in
udienza, con la sua folta barba bianca, all’epoca del processo a Domenico
Ragozzino, il direttore del manicomio di Aversa, accusato di maltrattamenti e
condannato a 4 anni di carcere. Ragozzino si suicidò, per il rimorso,
impiccandosi, proprio nella struttura che dirigeva.
L’otto aprile, a circa un mese dal
delitto, uscì fuori un altro elemento chiave: una sbarra di ferro. L’arnese,
sottratto da una poltroncina di un vagone ferroviario, fu buttata
dall’assassino in un piccolo laghetto artificiale, nella zona della “Cupa
Imparato”, alla periferia di Giugliano, un luogo frequentato solo da coppiette
e da prostitute. Fu rintracciata, su precise segnalazioni del Tafuri, e i
carabinieri incaricarono l’operaio Franco Corona, il quale, calatosi nella
melma, portò in superficie una sbarra lunga 46 centimetri. Era il bracciuolo di
una poltroncina di un vagone di prima classe delle Ferrovie dello Stato. Era
l’arma del delitto. Nessun alterco, nessuna colluttazione, un solo colpo alla
testa del giovane Gianni e tutto era finito... anzi, tutto era cominciato. Era
stato lo stesso Tafuri, un vero fiume in piena a confessare particolari del suo
delitto, ignaro (o cosciente?) del fatto che, la sua posizione, andava sempre
di più aggravandosi. Con la sua puntigliosa ricostruzione, aveva trascinato gli
investigatori e indicato il luogo preciso dove aveva gettato la sbarra di
ferro. Chi l’avrebbe mai ritrovata senza le sue indicazioni? Perché lo fece?
Quale luogo migliore per nascondere l’arma
del delitto? Intanto, pochi giorni prima, il padre del giovane Gianni De Luca,
attraverso i suoi legali, Luigi Bagnulo e Luigi Renato Sansone, si era costituito
parte civile nel processo che, oramai, si avviava verso la sentenza della
sezione istruttoria.
Ricordate? L’indagine, per la notorietà
dei personaggi e per la tema che gli stessi avessero potuto influenzare i
giudici, venne avocata dalla Procura Generale di Napoli? Ricordate? Si
adombrava un legittimo sospetto?
Nello stesso tempo anche i difensori
dell’imputato cominciarono a muoversi chiedendo per prima cosa, al giudice
istruttore, l’acquisizione di una lettera che era stata spedita dal dottor
Tafuri alla clinica dermatologica di Napoli, sollecitando i destinatari a
esibirla in giudizio.
Ma che cosa si proponevano i difensori
di Tafuri con quella richiesta? Nella missiva, indirizzata ai primari Pietro
Cerretti e Andrea Montagnani, rispettivamente direttore e vice direttore della
clinica, veniva evidenziato lo stato di profondo squilibrio in cui era caduto
il medico sammaritano (la relazione, a lungo andare, stanca?) e in conseguenza
del quale aveva deciso di abbandonare il suo prestigioso incarico presso la
struttura sanitaria. Ma, nella lettera Tafuri non aveva lasciato a intendere
che si trattava di una depressione venuta alla luce in seguito al suo mènage
con la Novi, no! Aveva semplicemente fatto cenno alla rinuncia con motivi
strettamente personali.
Avete presente quando vi ho accennato,
all’inizio del racconto, che nel corso dell’indagine si erano verificati alcuni
casi di sciacallaggio epistolare?
Bene. Un bigliettino anonimo fu fatto
recapitare ai carabinieri. Lo stesso diceva: “Mercoledì notte, il giorno del delitto, tale Giuseppe Maddaluna,
cittadino sammaritano, amico di Aurelio, è stato visto in compagnia del medico
a bordo della Giulietta”.
Era un vero e proprio colpo di scena.
Ecco il complice che tutti cercavano. Risultò tutto falso. Peppino Maddaluna,
fratello del mio amico Giovanni, padre dell’avvocato Emilio, complice di un
delitto? Non poteva essere vero. E infatti non era vero!
Peppino Maddaluna, invece, era un
simpaticone, coi baffi all’insù, noto per avere organizzato delle proverbiali
“Piedigrotte sammaritane”, facente parte di una squadra del tipo “amici miei”,
composta da Oscar Lucidi, avvocato e autore di pregevoli canzoni; Luca
Aliviero, musicista provetto e fantasista; Alfonso D’Addio, detto Ninnone,
conduttore di programmi radiofonici presso “Televolturnia”, l’emittente
inventata da Franco Lamanna e da me diretta; Elio D’Aurenti, pseudonimo del dr.
Aurelio Cecere, padre del giornalista Prospero, che aveva una voce bellissima e
che era il vero e proprio animatore delle serate.
No, Peppino Maddaluna non poteva essere
complice di un delitto. La sua bonomia
era nota a tutti. Per gli inquirenti,
però, quel bigliettino poteva essere un indizio importante e portare -
finalmente - alla scoperta di quel complice che si era cercato dalla prima ora.
Subito si aprì una serie di sconcertanti interrogativi: che ruolo aveva avuto
nel delitto? Era lui l’uomo chiave della vicenda? Perché era a bordo dell’auto
dell’assassino? Chi aveva interesse a depistare le indagini? Chi avrebbe potuto
scrivere il bigliettino indirizzato ai carabinieri? Secondo me a scrivere il
bigliettino fu la stessa polizia (non è la prima volta) la quale, come ho
accennato prima, essendo stata subissata da brutte figure, tentava di far
aggrovigliare la matassa anche per i carabinieri, che, tuttavia, procedevano
agli interrogatori più speditamente.
Tutto, o quasi, fu chiarito con
l’interrogatorio del Maddaluna. Peppino ammise di essere compagno di scuola di
Aurelio. Aveva infatti frequentato il Liceo con lo stesso. Si accompagnava
spesso con lui, ed era anche a conoscenza della tresca con la Novi. Sovente
parlavano dei vari incontri amorosi con la donna. Aveva anche avuto la
percezione che il suo amico stesse in difficoltà e che gli aveva confessato di
essere quasi sul lastrico, per quella donna, ma, spiacente per gli inquirenti,
del delitto non ne sapeva nulla!
Ebbene, nonostante ogni trucco, e
nonostante ogni forzatura: “Dov’eri
all’ora del delitto?...” i carabinieri non riuscirono a incastrare il
Maddaluna. Il fine è sempre lo stesso, ieri come oggi, per polizia, finanza e
carabinieri: “Chiù simme, e cchiù belle
parimme!”.
È il criterio a cui si ispirano molti
blitz (vedi, per esempio, quello contro Enzo Tortora) il 20% degli imputati
arrestati per omonimia e quello dell’Aima, (nel quale sono stato coinvolto io)
il 90 % degli imputati sono stati assolti. Spesso queste azioni sono ispirate
al pensiero di Arthur Schopenhauer: “Quando
non hai argomenti da opporre al tuo avversario, insultalo, denigralo,
diffamalo, calunnialo e vedrai che alla fine hai ragione tu”.
Spiacente di deludervi ma... il giorno
del delitto non era stato in compagnia di Aurelio, e anzi Peppe Maddaluna esibì
un alibi di ferro.
Era stato assieme a un Aurelio, ma si
trattava di Aurelio Cecere, che, assieme ad Alfonso D’Addio, Aldo Trullio e
Oscar Lucidi, l’avevano accompagnato a gozzovigliare presso il ristorante da “Felice ò caprettaro” a Casapulla. Alibi
confermato per filo e per segno da tutti gli interrogati. Perfino da Felice Merola, gestore del rinomato
locale.
Il ristorante “O’ Caprettaro”,
all’epoca, era molto frequentato dai sammaritani, specialmente negli anni del
processo per la rivolta del calcio di Caserta, io e altri colleghi giornalisti,
addirittura, ci andavamo ogni giorno, insieme ai giudici Luigi Arcella, Antonio
Blandini e Alfonso Malinconico. Stranamente, a quei tempi, il Tribunale di S.
Maria C.V. non era inquinato come adesso dalle “cimici”, dai “corvi”, e dagli
“sms”, e ci faceva buona compagnia finanche il pubblico ministero, Raffaele
Raimondi, con moltissimi avvocati difensori, impegnati nel grave processo.
Un’epoca idilliaca per tutti. Peccato, erano bei tempi, anche per me, che
esordivo nel giornalismo, e che ero pieno di speranze e non avevo avuto ancora
brutte esperienze di vita!
E... intanto, mentre noi ci trastullavamo
con Felice il “Caprettaro”, le indagini sul delitto Tafuri continuavano e
sparivano, almeno per il momento, anche le tracce per identificare un ipotetico
complice. Infatti - anche successivamente - gli inquirenti saranno all’eterna
ricerca del complice e ritorneranno a interrogare il fratello Mario e un certo
Padolecchia, un giovane napoletano, reo soltanto di essere uno “sfaticato”.
Mentre le indagini proseguivano, diciamo
così, sul versante economico. Infatti Mario, fratello di Aurelio, confermò agli
inquirenti la circostanza delle cambiali in possesso dell’industriale Mario
Santoro, di cui era giunta notizia al commerciante di scarpe sammaritano
Giovanni Merola. Ricordate?
“Mio cugino Giovanni - disse Mario Tafuri - “mi riferì che un tale Santoro, grossista di
calzature al mercato di Napoli, aveva ricevuto l’offerta di un certo numero di
cambiali a firma di mio fratello Aurelio, per un importo di circa due milioni e
mezzo di lire. Dopo qualche giorno, andammo a Napoli e ci incontrammo col
Santoro, ma lo stesso ci fece intendere che aveva restituito le cambiali ma
che, tuttavia, tramite terze persone (è la solita tecnica degli strozzini,
inventano sempre che nell’operazione c’è un terzo. N.d.A.), era possibile recuperarle e anche a un costo
inferiore alla loro effettiva somma perché la persona che le deteneva, cioè una
tale Anna Maria Novi, aveva bisogno di realizzare subito del denaro. Al mio
ritorno a Santa Maria, riferii ogni cosa a mia madre e successivamente a mio
fratello Aurelio, il quale negò di aver emesso cambiali per l’importo sopra
citato, ma ammise parzialmente di aver firmato un effetto di 500 mila lire. Per
tale fatto, mia madre diede a mio fratello la somma occorrente perché la
cambiale fosse ritirata al più presto possibile dalle mani degli strozzini”.
Per ricostruire la “dolce vita” notturna
del Tafuri a Napoli, polizia e carabinieri lavorarono alacremente, e quindi fu
passato al setaccio quel mondo turpe e corrotto che era “l’entourage” della
brigata D’Agostino. Un mondo di ruffiani, prostitute, strozzini, invertiti,
contrabbandieri e drogati. Elisa Lops, tutte curve, avvenente prostituta
napoletana, nuova amante dell’ingegnere Egano Lambertini (quest’ultimo,
infatti, era stato costretto ad allontanarsi dalla Novi per l’ingombrante
presenza del giovane Gianni De Luca), raccontò: “Circa un anno e mezzo fa incominciai a frequentare ritrovi cittadini e
precisamente quelli siti nella zona di S. Lucia e via Partenope, dove avevo
modo di trattenermi con occasionali amici. Ho conosciuto Carlo D’Agostino –
forse da qualche anno – e mi recai presso la sua abitazione assieme a mia
sorella Filomena, poiché lei intendeva acquistare un vestito dal sarto. Dopo
qualche tempo presso il bar “Lloyd” conobbi l’ingegnere Egano Lambertini e
subito con lui allacciai una relazione e attualmente è il mio compagno. Lo
stesso Egano mi riferì che presso l’abitazione del sarto, si tenevano spesso
serate e convegni amorosi, e la casa era stata frequentata dalla Novi, dal De
Luca e dal Tafuri”.
Ma la polizia di Napoli, che aveva
ricevuto le segnalazioni dal Commissariato di S. Maria C.V., portava avanti una
indagine cosiddetta “parallela”, e l’inchiesta aveva un preciso obiettivo: sottrarre le
indagini ai carabinieri di Santa Maria Capua Vetere, e pertanto praticava tutte
le strade per poter mettere le mani sui presunti complici del Tafuri. E se non
ve ne erano? Pazienza, bisognava inventarli. Ora come allora, nulla è cambiato.
Caserme, questure e tribunali, sono state da sempre centrali di false accuse
per i poveri cristi, per coprire alla meglio l’inefficienza investigativa degli
apparati preposti.
Fu chiesto allora alla Lops, se avesse
conosciuto un certo Mario Padolecchia (che la polizia sospettava complice del
Tafuri) e la stessa affermò testualmente: “Nel
maggio, o giugno dello scorso anno, ebbi modo di conoscere Mario Padolecchia
abitante in Via Michelangelo Schipa. Pur conoscendolo, non mi sono mai recata
presso la sua abitazione, né ho avuto rapporti carnali con lui, nonostante mi
avesse chiesto più volte di andare a letto con lui... mi sono astenuta,
principalmente per rispetto al mio attuale compagno”.
Che dire? A volte anche le puttane hanno
una coscienza.
Forse più di quelle mogli all’apparenza
oneste, tutte “casa e chiesa”, che poi, appena possono, diventano delle
porcone, più puttane di quelle di Bologna e spesso vengono scoperte in “case
squillo” di terz’ordine! Quelle di Caserta a Formia e quelle di Formia a Napoli
o Cassino.
Vi sono fatti di cronaca - anche recenti
- che lo confermano.
Intanto, delle cosiddette “indagini
parallele” condotte simultaneamente dai carabinieri e dalla polizia, che,
generalmente, non approdano mai a un risultato univoco, i napoletani ne avevano
piene le “palle”. I più anziani ricordavano, non senza preoccupazioni, quella
portata avanti dalla Questura di Napoli e dal Capitano dei carabinieri Carlo
Fabroni, che portò all’arresto di moltissimi camorristi, tutti accusati
dell’omicidio di Gennaro Cuocolo e di sua moglie Maria Cutinelli.
E tutti regolarmente assolti per
l’omicidio.
Ma il grottesco della vicenda, svoltasi
a Napoli all’epoca appunto del famoso processo Cuocolo, celebratosi poi in una
chiesa sconsacrata a Viterbo, per legittimo sospetto, fu la conclusione alla
quale giunsero i carabinieri: chiesero (ma per fortuna non ottennero) il
mandato di cattura per il capo della mobile e per molti agenti della Questura
per “connivenza” con la camorra; oggi si direbbe per “contiguità”, o per
“concorso esterno”.
Dall’altro lato, la Questura, si premurò
subito di far sapere alla magistratura che le prove delle accuse prodotte dai
carabinieri, erano false, perché costruite artatamente mediante il pagamento di
grosse somme di denaro, elargite al primo pentito di camorra, il cocchiere
sammaritano Gennaro Abbatemaggio. Quasi come oggi.
Nulla è cambiato.
Così come hanno fatto con me (e penso con
tanti altri) pagando profumatamente quel cornuto e prezzolato di Pasquale
Pirolo, erede diretto di Abbatemaggio, sporco e venduto come lui.
Contropartita? Nessun arresto per reati di bancarotta, truffa, falso e guida
senza patente. E inoltre il dissequestro delle sue attività commerciali, frutto
di camorra e crimini.
Ma ritorniamo alle indagini.
Sulla scorta delle indicazioni della
donna, la Questura si mise sulle tracce del Padolecchia, e, per acquisire altri
elementi, andò a interrogare il portiere dello stabile di via Michelengelo
Schipa n° 34.
Lui non poteva non sapere... (anche
allora!).
Tutti i portieri, a Napoli e altrove,
sono confidenti della polizia e dei carabinieri, alcuni sono addirittura
stipendiati e sono “spioni” a tempo pieno. Del resto, se non ci fossero gli
spioni, le lettere anonime, i pentiti e le loro delazioni, come farebbero per
scoprire gli autori dei crimini, questi incapaci poliziotti, carabinieri e
corrotti finanzieri? E pensate un poco quanti buffoni, purtroppo, siedono al
posto sbagliato nelle Questure e nelle caserme? O negli uffici delle Procure?
L’arresto del comunista Angelo
Brancaccio e dei suoi complici, poliziotti e carabinieri, nel maggio del 2007,
ne ha dato una prova certa. Corruzione a tutti i livelli!
Il portiere Alfredo Labate dichiarò: “Conosco Mario Padolecchia da quando sono
stato assunto in qualità di portiere dello stabile, il Padolecchia abitava da
solo, in quanto pare che non avesse familiari. A me personalmente risulta che
conduce una vita disordinata, le sue giornate sono strane, rincasa quasi sempre
alle prime luci dell’alba, dorme fino a mezzogiorno e poi esce. Diverse notti
ha avuto dei banchetti con uomini e donne nella sua abitazione e pare che facessero
delle orge. Negli ultimi tempi, verso il mese di febbraio, questi convegni si
sono accentuati. Mi consta che è oberato di debiti, in quanto spesso vengono
delle persone a cercarlo. Molti hanno delle brutte facce e sembrano uomini di
Forcella e della zona del Vasto e imprecano, ad alta voce, con frasi e parole
minacciose, quando non lo trovano in casa”.
“A me risulta – continuò il portiere Labate – che non svolge alcuna attività e non so come
può procurarsi i soldi per vivere a meno che non faccia il “pappone”. Si dice
con insistenza che lui ha un’amante che lo mantiene, ma su questo non posso
giurarci. Tra le tante persone che frequentavano la casa del Padolecchia, mi
sembra di aver notato qualche volta anche il giovane Gianni De Luca, che ho
visto fotografato sui giornali che parlavano della sua uccisione. Mi sembra –
ma non vorrei sbagliare – di aver visto qualche volta anche la donna che pure
ho visto fotografata sui giornali e pare che si chiamasse Anna Maria Novi”.
“Una volta vidi anche, tra le persone, un signore molto alto e robusto e
che mi sembra portasse gli occhiali, e tutti insieme, un mattino presto, mi
sembra che era il quindici o sedici febbraio, uscirono dalla casa del
Padolecchia e salirono a bordo di una “Giulietta” che era parcheggiata nel
cortile. Da quando Padolecchia ha lasciato l’appartamento, ritornò da me il
mattino del sette, otto marzo, per ritirare una sua valigia che mi aveva in
precedenza lasciato in custodia di cui sconosco il contenuto, e una seconda
volta, il dodici marzo, per chiedermi se lo aveva cercato qualcuno o se era
arrivata posta per lui. Da allora non l’ho più visto. Ora che ricordo meglio,
anche quel giovane di cui ho visto la foto sul giornale e sembra sia stato
ucciso, tempo addietro aveva lasciato, anche lui, presso di me, una valigia,
che prima aveva presso l’abitazione del Padolecchia. Il giovane venne a
ritirarla il cinque, sei marzo, e ricordo che venne a bordo di un’auto Fiat 600
di colore grigio”.
Non c’è che dire, il portiere Alfredo
Labate, sapeva troppe cose! E non c’erano dubbi che tutti gli indizi portavano
a un vero e proprio coinvolgimento del Padolecchia nel delitto Tafuri. Con un
lieve aggiustamento – a cura del brigadiere di turno – le deposizioni del portiere
sarebbero state (aggiustate!) perfette, per inviare un rapporto al Procuratore
della Repubblica e ottenere il suo fermo. Poi, si sa come vanno le cose. Lui
avrebbe confessato, con le buone o con le cattive, di essere complice d’un
delitto senza conoscere né la vittima né l’assassino... E il “caso” sarebbe
stato risolto. L’indomani sarebbero apparsi titoloni a caratteri di scatola su
tutti i giornali: “La squadra mobile di Napoli, arresta il complice del delitto
Tafuri”.
Non importa se poi il Padolecchia - dopo
qualche giorno - verrà rimesso in libertà e il “caso” si sgonfierà.
L’importante è che, almeno per un giorno, il commissario Gennaro Capadicazzo e
il maresciallo Totonno Piglianculo, assurgono agli onori della cronaca. Come i
capitani dei carabinieri Filippo Pifinacchia e Carlo Fabroni, nell’indagine per
il processo Cuocolo. Non importa se in galera ci andranno degli innocenti. È un
andazzo deplorevole, praticato in tutte le epoche e in tutte le caserme, da
carabinieri, poliziotti e finanzieri. Deplorevole - al pari di quello dei
magistrati - che fanno le sentenze a “peso”, solo per fare statistiche. A S.
Maria C.V., purtroppo, ce ne sono stati moltissimi. Ma... mentre gli errori dei
giornalisti finiscono in prima pagina quelli dei magistrati finiscono dietro le
sbarre.
Ricordo in particolare i “metodi” usati
in Questura (mi riferisco alle mie frequentazioni, presso il Commissariato di
P.S. di S. Maria C.V.) all’epoca di Vincenzo Iannetti, quando seguivo la “nera”
per “Il Roma”, per far confessare gli innocenti si usavano molti sistemi:
patate bollenti in mezzo alle palle, acqua ingurgitata con l’imbuto, botte nei
fianchi, dove non si formano ecchimosi, sigarette spente sul collo,
asportazione dei peli, nelle parti intime, con pinzette e... compagnia
cantando.
Guai, quindi, a non dare la mancia a
Pasqua, Natale e Ferragosto al proprio portiere. Potresti trovarti a essere
descritto come un novello Landrù, al primo approccio di un questurino. E così
era stato per Mario Padolecchia. Tutte calunnie gratuite. In effetti si appurò
che erano solo supposizioni, ma, come spesso accade, le supposizioni agli occhi
degli “sbirri” diventano certezze e, di conseguenza, agli occhi del magistrato
assurgono a prove. Lo conferma l’adagio napoletano - che è come un giudicato
della Suprema Corte a Sezioni Riunite: “ciente
niente... accerettere nu ciuccio...” ovvero “tre indizi costituiscono una prova!”.
A Casapulla da “Felice” Il Caprettaro.
Il “Caprettaro” è un
ristorante tipico molto antico, le cui origini si fanno risalire addirittura,
alla fine dell’Ottocento, allorquando, in Casapulla, i coniugi Giuseppe Merola
e Porzia Baccaro, bisnonni dell’attuale gestore, diedero vita a una cantina che
fu chiamata “Porzia”, ed era ubicata al vicolo III° della Via Umberto I°, oggi
via Fiume. Lo stesso locale, dal 1901 al 1904, fu gestito da Salvatore Merola e
Caterina Di Marcello, nonni di Felice.
Poi la locanda,
cambiando la denominazione in “’O Caprettaro”, passò sotto la gestione di Pietro
Merola e Maria Filomena Riccio, genitori di Felice. Dal 1962, completamente
trasformato da “bettola” o “cantina”, in un vero e proprio ristorante,
conservando, però, le caratteristiche ed i gusti delle antiche tradizioni
culinarie contadine, è passato, sotto la gestione di Felice Merola e della
moglie Luigia Grauso. Se dovessi esprimere qui, ora (ma non sono Luigi
Veronelli) un giudizio, darei certamente a Felice le 5 forchette. Un consiglio? Adeguatevi. Come faccio io,
quando ci vado con Davide Passarelli. Ci sediamo, attendiamo; viene Felice, ci
saluta con un abbraccio e porta in tavola: “fagioli e pettole con le cotiche,
con un secondo di capretto e patate al forno, il tutto innaffiato da Cabernet
della casa”.
Prosit!
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