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mercoledì 29 marzo 2017


Il 2 Aprile 2017 sarà la
“Giornata Mondiale sulla Consapevolezza dell’Autismo”
Curti – In occasione della giornata mondiale sulla consapevolezza dell’autismo  Venerdì 31 marzo,  il Centro P.R.I.F. – Istituto Riabilitativo srl, SI DIPINGE DI BLU. Presso l’Istituto Don Buro,  infatti -  struttura sanitaria sita in Curti alla via Raffaello Sanzio, verranno trasmessi video sulla conoscenza della patologia dello spettro autistico e distribuiti libretti informativi. Inoltre dalle 16,00 alle 17:30 “mi coloro le mani di BLU, giro giro tondo”, evento con selfie a cavallo e sorpresa finale. 

Tutti saranno benvenuti. Si invitano le famiglie a far indossare ai propri piccoli qualcosa di BLU.


martedì 28 marzo 2017

domenica 26 marzo 2017


A partire da giovedì 30 marzo sarà in programmazione al Cinema San Marco di Caserta il nuovo film 

di Guido Chiesa “Classe Z”


L'attore sammaritano Francesco Russo,  sarà in sala per salutare il pubblico del Cinema San Marco sabato 1° aprile alle ore 18.30.



A partire da giovedì 30 marzo sarà in programmazione al Cinema San Marco di Caserta il nuovo film di Guido Chiesa "Classe Z", che racconta l'iniziativa intrapresa da un preside di sbarazzarsi di tutti i suoi studenti più indisciplinati collocandoli in una sezione creata ad hoc dove gli stessi insegnanti asseconderanno la loro voglia di non far nulla. Qualcosa però risveglierà le loro coscienze costringendoli a fare i conti con la realtà negli ultimi 100 giorni di scuola. Tra gli interpreti del film spicca la presenza dell'attore sammaritano Francesco Russo, che sarà in sala per salutare il pubblico del Cinema San Marco sabato 1° aprile alle ore 18.30. Francesco Russo ha mosso i suoi primi passi artistici frequentando il laboratorio di recitazione del Teatro Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere diretto da Tony Laudadio ed Enrico Ianniello. Successivamente è entrato a far parte della Giovane Compagnia d'Arte "Fabbrica Wojtila", ha frequentato la prestigiosa Accademia d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico" e nel 2013 è risultato vincitore del Premio Siae. Dopo diverse esperienze televisive è approdato anche al cinema e nel 2015 è stato tra i protagonisti del mockumentary di Alberto Caviglia "Pecore in erba", presentato in concorso a Venezia nella sezione Orizzonti. Il regista del film Guido Chiesa, che nel 2000 aveva firmato "Il partigiano Johnny", torna ad occuparsi dell'universo giovanile e studentesco dopo l'acclamato "Lavorare con lentezza" del 2004 in cui aveva raccontato il '77 bolognese attraverso l'esperienza della mitica Radio Alice. Evidentemente i toni del racconto in "Classe Z" risultano ben diversi con lo sguardo decisamente più rivolto al modello della teen-comedy americana. In occasione della programmazione di "Classe Z" il Cinema San Marco praticherà il prezzo speciale di euro 4,00 a tutti i ragazzi in età scolastica.


sabato 25 marzo 2017







Il delitto accadde nella frazione Talanico di  San Felice a Cancello nel Vico Paciello  il 18 agosto del 1955


UCCISE IL FRATELLO ALLE SPALLE CON TRE COLPI DI PISTOLA PER
LA CONTESA DI UNA CUGINA CHE ENTRAMBI VOLEVANO SPOSARE


Alla base del fratricidio non solo la spartizione dell’eredità e la gestione dell’azienda agricola. L’assassino aveva chiesto per primo la mano della cugina. Il fratello maggiore  invece la stava sposando. 

 

Talanico di San Felice a Cancello -  La sera del 18 agosto del 1955 i carabinieri di Arienzo avuta notizia  che in Talanico, frazione di San Felice a Cancello, il giovane contadino Mario Gagliardi,  aveva ucciso il fratello Domenico con alcuni colpi di pistola, accorrevano in detta località e rinvenivano nell’abitazione terranea dei Gagliardi, sita nel vico Paciello, adagiato su un letto il cadavere del Domenico Gagliardi che presentava ferite di arma da fuoco al torace. Nel cortile che dà ingresso all’abitazione i verbalizzanti notavano delle chiazze di sangue e repertavano tre bossoli per pistola automatica Cal. 7,65 il tutto nei pressi della porta in legno della abitazione medesima, porta che presentava tre fori prodotti dal passaggio di pallottole dall’esterno e rinvenivano sul comò una pallottola.  Dall’interrogatorio di Vincenzo Gagliardi, che abitava in un vano attiguo a quello dei germani Mario e Domenico Gagliardi, suoi cugini, risultava che quella sera verso le 20,30 il Mario Gagliardi incontrato per strada il fratello Domenico, lo aveva chiamato un po’ in disparte e aveva avuto con lui un colloquio. Dai loro discorsi si arguiva che si dovevano recare nel centro di Talanico per chiedere un consiglio a tale Tommaso Ferrara. Più tardi verso le 22 i fratelli avevano raggiunto il Vincenzo Gagliardi in casa della sua fidanzata Antonietta De Rosa ed indi con il cugino avevano fatto ritorno a casa. Lunga la strada si era parlato del fidanzamento del teste e i due germani avevano tenuto un contegno del tutto normale. Giunti nel cortile comune Domenico e Mario si erano diretti – l’uno dinanzi all’altro – verso la loro abitazione. Vincenzo Gagliardi si era diretto verso la propria casa ma non appena entrato in essa aveva sentito degli spari e, ritornando nel cortile aveva trovato Domenico a terra e visto Mario che fuggiva. Mario Gagliardi si costituiva il giorno successivo ed ammetteva di aver ucciso il fratello. Precisava che quando rincasarono, Domenico, da lui invitato a seguirlo in montagna per sorvegliare i loro bovini che erano rimasti affidati alla madre, oppose un rifiuto e con atteggiamento minaccioso depose sul tavolo la pistola e poi si recò nel gabinetto sito nel cortile, attese che il fratello uscisse dal gabinetto e poi gli rinnovò l’invito a recarsi in montagna. Domenico reiterò il rifiuto ed anzi  alzò le mani come per picchiarlo per modo che egli temendo di essere sopraffatto sparò tre colpi di pistola e si dette alla fuga. Il fratricida raccontava, inoltre, che da qualche anno tra lui ed il fratello Domenico non correvano buoni rapporti quantunque egli cercasse essere remissivo onde evitare rappresaglie da parte del predetto che, benché più giovane, era più prestante di lui. In particolare i dissensi erano originati dal fatto che il Domenico preferiva lavorare presso terzi – incamerando per sé gli interi suoi guadagni – anzicchè collaborare con lui (che era il maggiore dei fratelli rimasti nella casa paterna e come tale aveva la responsabilità dell’amministrazione dei beni familiari) nella conduzione del fondo ereditato dal defunto genitore. Della divisione di detto fondo di era parlato proprio la sera del 18 agosto in un convegno in casa di Tommaso Ferrara che, peraltro, non era approdato ad una conclusione, essendosi fissato un nuovo appuntamento per la domenica successiva. Nel corso delle indagini il Ferrara confermava di aver ricevuto in casa sua la sera in cui avvenne l’omicidio  – verso le ore 21 – i due  fratelli Gagliardi  “al fine di evitare motivi di questioni” tra di essi e di addivenire alla divisione della loro eredità paterna, e che si era rimasti di accordo di rinviare la definizione della questione alla domenica e di incaricare della cosa un geometra ed eventualmente un notaio. Lo stesso Ferra, Michele Carissimo, Costantino Bernardo, Giuseppe Guadagnino, deponevano che i due fratelli non andavano d’accordo e qualche volta si erano perfino picchiati perché Domenico si disinteressava della coltivazione del fondo e dell’allevamento del bestiame della famiglia a cui doveva pertanto provvedere per lo più Mario. Veniva inoltre accertato che sei mesi prima del delitto i due fratelli erano stati denunciati in stato di arresto per lesioni reciproche Mario anche per detenzione e porto abusivo di pistola. Iniziatasi la formale istruzione contro il Gagliardi, si procedeva ad autopsia sul cadavere del Domenico da parte dei periti nominati dalla Procura nella persona dei medici sammaritani dott. ri  Emiddio Farina e Pasquale Tagliacozzi e accertavano  che lo stesso – attinto all’emitorace destro e all’ascellare sinistro da tre colpi di arma da fuoco a canna corta, esplosi da breve distanza in posizione frontale – era deceduto per imponente emorragia derivata dalla lesione dei grossi vasi dell’emotorace destro. L’imputato riferiva al magistrato inquirenti che i rapporti  con il fratello – già cattivi per i motivi innanzi esposti ai carabinieri – divennero più tesi allorchè Domenico si era fidanzato con una cugina, Maria Carmina Gagliardi,  che egli aveva per primo chiesto in sposa. Circa le modalità del delitto – modificando la prima versione dichiarò che egli temeva il fratello e quella sera pensando di trovarsi solo con lui e che non voleva seguirlo in montagna , “come un cieco”, estrasse la pistola e gli sparò alle spalle prima ancora che avesse avuto il tempo di girarsi. Successivamente modificò ancora una volta la versione del delitto ( che peraltro non aveva testimoni oculari) affermando che era stato costretto a sparare i colpi in quanto il fratello aveva tentato di disarmarlo dopo che lui aveva impugnato l’arma del delitto.  Maria Carmina Gagliardi, fidanzata della vittima, negava di aver ricevuto proposta di matrimonio anche dall’imputato, in contrasto con uno dei fratelli, Giovanni Gagliardi  il quale confermava tale proposta. Dalle deposizioni del Giovanni e dalla sorelle risultava, però, che in sostanza – causa dell’attrito esistente tra l’imputato e la vittima – era l’abitudine di quest’ultima di rifiutarsi di cooperare nella sorveglianza degli animali in montagna. Veniva allegata agli atti del processo la sentenza emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 14 gennaio del 1956 nel giudizio per lesioni in seguito alla quale il Mario Gagliardi era stato condannato – per lesioni e per detenzione di armi. Infine con sentenza del 29 maggio del 1957 il Giudice Istruttore ordinava il rinvio dell’imputato al giudizio della Corte di Assise per rispondere di omicidio volontario in persona del fratello.    

Fonte: Archivio di Stato di Caserta






La pubblica accusa chiese 28 anni di reclusione. La condanna fu a 23 ridotti a 19 in sede di appello. 

In apertura di dibattimento la difesa chiedeva che il  Mario Gagliardi fosse sottoposto a perizia psichiatrica in quanto lo stesso da certificato del medico dottor Ludovico Marone risultava essere stato affetto alla età di anni 10 da accessi febbrili e disturbi nervosi da cui guarì residuando nevrastenia ed inoltre alcuni suoi familiari sarebbero stati riconosciuti infermi di mente. La  Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere  (Presidente, Eduardo Cilento; giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero, Gennaro Calabrese), non ravvisando gli estremi richiesti dalla legge per disporre la richiesta perizia rigettava l’istanza. L’imputato al quale veniva contestata la recidiva infraquinquennale modificava ancora una volta la propria versione sostenendo che – dopo che erano entrati in casa-  Domenico,  dapprima gli disse che non avrebbe dovuto parlare della divisione del terreno e poi si rifiutò di seguirlo sui monti ed afferratogli il petto lo percosse con pugni e schiaffi a qual punto egli espresse la pistola e sparò. A chiusura dell’istruttoria dibattimentale il pubblico ministero dichiarava affermarsi la responsabilità dell’imputato chiedendo una condanna ad anni 28 di reclusione. Gli avvocati difensori chiesero l’assoluzione dell’imputato per aver agito in stato di legittima difesa o ritenersi l’ipotesi dell’eccesso colposo, e in subordine concedersi le attenuanti generiche, dei motivi di particolare valore morale e sociale e della provocazione. La  sentenza emessa il 30 ottobre  del 1957, condannava il 27enne Mario Gagliardi ad anni 23 di reclusione. In appello la pena veniva ridotta per il reato di fratricidio  per aver ucciso il fratello Domenico ad anni 19. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Alfonso Raffone e  Carlo Cipullo.  

Fonte: Archivio di Stato di Caserta 
 









mercoledì 15 marzo 2017



GIROLAMO MIRRA PER VENDICARSI  DI PERCOSSE E SCHIAFFI ASSASSINO’ NEL SUO NEGOZIO CON 4 COLPI DI PISTOLA  IL GIOVANE NIPOTE
 VINCENZO FIERRO
 San Tammaro – Verso le ore 17,45 del 1uglio del 1955 Vincenzo Fierro di anni 25 veniva ricoverato nella clinica “Villa Fiorita” di Capua in grave stato per ferite multiple di arma da fuoco. Interrogato dai carabinieri, poco dopo il ricovero, il Fierro dichiarava che verso le 17,30 nella sua abitazione in San Tammaro era stato fatto segno a colpi di pistola da parte di Girolamo Mirra da Santa Maria La Fossa il quale era penetrato improvvisamente nel suo negozio ed indi all’interno della casa. Precisava inoltre che circa un mese prima in Santa Maria La Fossa in casa di sua zia Cristina Fierro egli era venuto con il Mirra a via di fatto perché lo stesso aveva tentato di possedere con la forza altra sua zia Angelina Fierro. Benchè sottoposto ad operazione laparatomica il ferito decedeva nella serata dello stesso giorno il 17 luglio. I carabinieri ispezionavano il negozio del Fierro rilevando che lo stesso è ubicato nella via principale di San Tammaro comunicante attraverso una porta con il cortile dell’adiacente fabbricato. Quasi di fronte all’ingresso, sormontato all’esterno da una grossa insegna “merceria”, era sito il banco di vendita.  Non apparivano tracce di colluttazione ma nelle immediate vicinanze dell’ingresso venivano rinvenuti 4 bossoli di cartucce per pistola Beretta cal. 7,65 e venivano notate macchie di sangue sul pavimento e su una sedia in paglia nonchè due fori prodotti da proiettili in una scansia dietro il banco. Nel corso delle indagini venivano interrogati,  intorno alle modalità del delitto: Roberto Barca, Guido Lebioli, Guido Grassi e Antonio Buonpane. 

AVV. CARLO CIPULLO 
Il primo dichiarava che si trovava nel negozio per acquistare una lametta per barba quando un uomo anziano dalla soglia, senza dir nulla, aveva sparato alcuni colpi di pistola ed il Fierro era stato colpito al petto nel momento in cui si accingeva a prendere la lametta dallo scaffale sito dietro il banco e non aveva avuto il tempo di profferire parola. Anche il Lebialo, trovandosi presso la bottega,  riferiva di aver visto un individuo portarsi all’ingresso del locale, estrarre una pistola dalla tasca dei pantaloni e di sparare contro il Fierro e infine raggiungere sempre con la pistola in pugno una motocicletta - che aveva lasciata a circa duecento metri  dal negozio della vittima  - e darsi alla fuga. Il Grassi ed il Buonpane poi affermavano  - l’uno di aver tentato di fermare lo sparatore – che aveva un cappello in testa mentre si allontanava a passo normale dal luogo del delitto – ma di aver dovuto desistere dall’azione perché dallo stesso minacciato con la pistola, e l’altro che lo sparatore era giunto a San Tammaro circa un quarto d’ora prima dell’omicidio su una motocicletta, che aveva fermata presso il suo negozio sito alla periferia del paese, e subito dopo essere disceso dal mezzo gli aveva chiesto il prezzo delle pesche che egli teneva in vendita, presso peraltro indicato su appositi cartellini, egli aveva anche detto che lo conosceva per avere lavorato con lui nel 1942 nel “Laboratorio Pirotecnico” di Capua.  Il Mirra -  costituitosi ai carabinieri tre giorni dopo il delitto – dichiarava di essersi recato a San Tammaro in motocicletta, armato di pistola, nel pomeriggio  della domenica 17 luglio allo scopo di parlare con tale Antonio Gravina, il quale avrebbe dovuto innaffiargli con motopompa un suo terreno. Mentre si recava dal Gravina incontrò il Fierro che, sbucato da un vicolo, si dirigeva nel suo negozio. Il predetto gli disse:  “Fetente, a Santa Maria La Fossa mi hai bastonato, ma qui devi fare il morto” e ritiratosi nel locale prese posto dietro il banco. Allora esso Mirra si portò sulla soglia e, visto che il Fierro faceva la mossa di estrarre un’arma dalla tasca dei pantaloni mise fuori la propria pistola ed esplose quattro colpi in direzione dell’avversario. Raccontava inoltre che dal gennaio del 1950 aveva contratto relazione intima con una zia di Vincenzo Fierro, Angelina Fierro,  che anche sua cognata in quanto vedova di un fratello della moglie di esso Mirra, Assunta Maria Perillo. Egli aveva frequentato anche di notte la donna - che lo aveva all’uopo munito della chiave di casa – fornendole perfino dei vestiti. 

Negli ultimi tempi poi la Fierro lo aveva istigato ad avvelenare sua  moglie e poiché egli si era rifiutato di seguire tale suggerimento la predetta si era vendicata accusandola di molestie e di tentativi illeciti nei suoi confronti propalando la notizie che lui pretendeva rapporti “contro natura”. Il 7 giugno del 1955, il Vincenzo Fierro, presentatosi nella sua abitazione insieme a tale Gabriele Bovenzi, gli chiese notizie sui suoi rapporti con la zia, e, avendo egli risposto di non saper nulla lo pregò di seguirlo in casa di altra sua zia, Cristina Fierro. Ivi convennero anche la Angelina Fierro, Filomena Papa, madre di Vincenzo Fierro, nonché Gabriele Bovenzi e Vincenzo Scialla. E poiché egli ripetette al cospetto degli stessi quanto già detto a Vincenzo Fierro fu da questi percosso. La Angelina Fierro, da parte sua, negava di avere avuto rapporti intimi con il Mirra asserendo di aveva sempre resistito alle pretese illecite di lui. Essa narrava che il Mirra – contro il suo volere – con il pretesto di sorvegliarla aveva preso l’abitudine di portarsi nella sua casa anche a tarda sera, servendosi di chiave falsa, e talora l’aveva perfino minacciata con una pistola. Una volta – oltre un anno addietro – era penetrato nell’interno attraverso una finestra; altra volta nel luglio del 1954, essa era stata costretta a riparare in casa di Cristina Fierro ed a pernottare  ivi con le figlie. Il Mirra era stato infine a casa sua l’ultima volta il 21 maggio del 1955 e si trattenne circa mezz’ora e volle sapere dove fosse stata qual giorno. La Angelina Fierro raccontava che ai primi del giugno del 1955 il Mirra diffidò la zia Teresa – alle cui dipendenze lavorava una sua figliuola – affinchè non accogliesse più nel suo fondo la ragazza e il 6 giugno vi fu  per tale fatto in casa della Cristina Fierro un’animata discussione nel corso della quale essa Angelina Fierro e la figlia Vincenzina furono percosse dal predetto con schiaffi e pugni. Vani era riusciti i tentativi fatti tramite il parroco di Santa Maria La Fossa per indurre il cognato a recedere dalle sue pretese di moto che essa si decise il 7 giugno di sporgere unitamente alla figlia, Vincenzina Perillo, querela ed a chiamare la cognata Filomena Papa, residente in San Tammaro per informarla della situazione. La Papa si recò  in Santa Maria La Fossa nello stesso giorno 7 giugno insieme al figlio Vincenzo Fierro e fu tenuta subito una riunione in casa della Cristina Fierro – alla quale presenziò anche il Mirra. Costui negò le accuse che la Angelina Fierro gli rivolse e all’improvviso portò una mano dietro ai pantaloni. Il Vincenzo Fierro lo immobilizzò e nella colluttazione seguitane gli dette un pugno. I due furono divisi da Vincenzo Scialla e da Gabriele Bovenzi,  e il Mirra si allontanò dicendo al Fierro: “Debbo farti vedere Girolamo Mirra chi è”

Il Bovenzi inoltre affermava essere a sua conoscenza che tra il Mirra e la Angelina Fierro vi era una relazione, la quale veniva peraltro confermata anche dalla deposizione della moglie del Mirra.  Iniziatosi la formale istruzione a carico del Mirra venivano allegati al procedimento per omicidio gli atti relativi al procedimento per lesioni, violazione di domicilio e minacce iniziatosi a carico dello stesso presso la Pretura di Capua a seguito della querela sporta da Angelina Fierro e dalla Vincenzina Perillo. L’autopsia sul cadavere accertava che il  Fierro era stato raggiunto da tre colpi di arma da fuoco portatile a canna corta esplosi a distanza in direzione frontale. Il 31 dicembre del 1956 la Sezione Istruttoria emetteva sentenza di rinvio a giudizio – innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere del Girolamo Mirra per omicidio premeditato e aggravato per motivi futili e abietti in persona di Vincenzo Fierro.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta






IL P.M. CHIESE L’ERGASTOLO. LA CONDANNA FU DI 24 ANNI. IN APPELLO COL RICONOSCIMENTO DELLA PROVOCAZIONE SCESE A 20 ANNI

Comparso – manette ai polsi – innanzi la Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (composta dal Presidente Eduardo Cilento, con giudice a latere Guido Tavassi; pubblico ministero, Gennaro Calabrese; giudici popolari: Giuseppe Caparretti, Gennaro Della Valle, Vincenzo Porfidia, Antonio Ciaramella, Vittorio Picillo e Alberto Tartaglione), Girolamo Mirra, accusato di omicidio premeditato aggravato,  con sentenza del 11 novembre del 1957 venne condannato (partendo dalla pena dell’ergastolo così come chiesto dalla pubblica accusa -  con la concessione delle generiche) a 24 anni di reclusione. In apertura di dibattimento i genitori, la vedova, e i fratelli della vittima Vincenzo Fierro, e cioè Giuseppe Fierro, Filomena Papa, Carmela Scala, Carmela, Raffaele e Angelina Fierro, si costituivano parte civile. Alla condanna venne proposto appello ed in sede di discussione dello stesso con la concessione di una ulteriore scriminante ( gli fu riconosciuta la provocazione) la pena venne ridotta ad anni 20. Gli avvocati difensori insistettero sul fatto che la sentenza impugnata faceva “consistere l’aggravante della premeditazione nel particolare grado di perversità del reo che, fermo nel suo malvagio divisamento – e insensibile al tempo che trascorse ed ai motivi altruistici – che si affacciavano alla sua coscienza, condusse a termine il suo ormai radicato proposito di vendetta”. 
AVV. MICHELE VERZILLO 

“Questo pezzo – chiarirono i difensori dell’imputato – che si incentra tutto nel concetto e relativo  giudizio di “particolare perversità del reo” è in flagrante contrasto con quanto riconosce la sentenza medesima. E cioè,  che il Girolamo Mirra (giunto all’età 54 anni con un certificato penale illibato) fosse stato gravemente umiliato ed offeso dal giovane nipote Vincenzo  Fierro. Il quale, recandosi giustiziere ed arbitro dal paese di San Tammaro a quello di Santa Maria La Fossa, convocò una specie di consiglio di famiglia innanzi al quale Ma detto comportamento – ad un dato momento del del colloquio – trascende in atti di violenza contro il Mirra che viene percosso ed esce sanguinante dalla casa della Cristina Fierro. E tale comportamento concreta indubbiamente quel fatto ingiusto che è a base della chiesta attenuante”. Infatti in sede di appello venne riconosciuta la svriminante della provocazione e la pena ridotta ad anni 20. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: Gaetano Grimaldi, Alfonso Martucci, Michele Verzillo, Ciro Maffuccini, Carlo Cipullo, Alfonso Raffone, Pompeo Rendina e Alfredo De Marsico.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta  
    


 








 
 
 
STREPITOSO SUCCESSO DELLA COMPAGNIA DELLA UNIVERSITA’ DELLA TERZA ETA’ CON LA RAPPRESENTAZIONE DELLA COMMEDIA 
“LA FORTUNA CON LA EFFE MAIUSCOLA” -




Grande successo ha riscosso l’iniziativa posta in essere dall’UNIVERSITA’ DELLA TERZA ETA’ –UNITRE – di S. Maria C. V. che in collaborazione con I LIONS di Capua Casa Irta  che ha messo in scena al Teatro Ricciardi di Capua la Commedia “La Fortuna con la effe maiuscola” di Edoardo de Filippo il cui ricavato sarà devoluto in favore delle popolazioni terremotate dell’Italia centrale. In un teatro gremito in ogni ordine di posti, gli attori, tutti iscritti all’UNITRE di S. Maria C. V., hanno deliziato gli spettatori con una performance a dir poco magistrale, salutata durante e alla fine dello spettacolo da applausi a scena aperta. Il lavoro, adattato e diritto sapientemente dal regista Ferdinando Troiano, è stato messo in scena interamente ed esclusivamente dagli allievi dell’UNITRE di S. Maria C. V. che ancora una volta hanno dato prova di grande versatilità e sensibilità.
Il direttivo della Unitre 




lunedì 13 marzo 2017



TRA POROSITA’ E SORVEGLIANZA DINAMICA IL NUOVO CARCERE A TRATTAMENTO AVANZATO DI NOLA


“L’hanno messo dentro”. In un modo brusco, questo è quanto si dice per una persona che viene arrestata. La descrizione peggiora quando si aggiunge: “hanno buttato la chiave”. L’apertura un po’ ruvida che ho fatto è la conseguenza della presa visione del bando per la realizzazione del nuovo penitenziario a Nola, un carcere a “custodia attenuata” da 1.200 posti, già inserito nell’elenco 2013 delle nuove carceri da costruire e definito nella relazione come istituto a “trattamento avanzato”: terminologia di sapore vagamente ermetico che nella relazione al bando non rimanda ad altre più chiare definizioni e finalità.
Rilevo subito una profonda discontinuità tra il concorso di Nola e quanto stabilito nelle sue linee generali intorno a quello che dovrebbe essere il “nuovo modello detentivo” pensato dai tecnici del Tavolo n. 1 degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale - Spazio della pena: architettura e carcere.
Scaturito dall’intenso lavoro degli esperti coordinati dall’architetto Luca Zevi, direttore nel 2012 del padiglione italiano di architettura alla Biennale di Venezia, il nuovo istituto ripete l’adozione di concetti, anche se non del tutto innovativi in quanto ampiamente trattati nella bibliografia specializzata, sui quali il carcere di Nola si sarebbe dovuto muovere. In realtà la prima macroscopica e grave contraddizione si rileva nell’altissimo numero dei detenuti previsti nel bando. Per una buona gestione di un penitenziario, è ormai largamente condivisa la scelta di contenere il numero dei reclusi al massimo all’interno di quattro/cinquecento unità. Con la scelta di Nola che prevede ben 1200 persone in regime di “trattamento avanzato” si supera in modo abnorme la quota suggerita dagli studi più recenti. Il sito previsto, vicinissimo all’interporto e al “Vulcano buono” (noto e affollato centro commerciale) tra Cicciano e Nola, è in piena campagna, decentrato rispetto agli insediamenti residenziali, tra strade vicinali e tratturi. La marginalizzazione dell’intervento rispetto ai centri abitati aggiunge altra contraddizione a fronte delle conclusioni del Tavolo n. 1 che richiedono, per vari motivi non solo teorici, un contatto più diretto tra carcere e città. Le linee guida degli Stati Generali ripetono il concetto della necessaria reintegrazione dei penitenziari con la realtà urbana per favorire quanto più possibile la cosiddetta “porosità” (termine innovativo nel linguaggio giudiziario adottato nella relazione finale) tra ambiente penitenziario e habitat urbanizzato.

 La “spugnosa” nozione prescelta, che a prima vista sembrerebbe un tipico concetto da sociologismo architettonico tardo sessantottesco, se sostenuta da adeguate strutture di supporto culturali, ambientali e soprattutto progettuali, dovrebbe garantire un’effettiva interazione tra le diverse funzioni della città. Prime tra tutti quelle logistico-sanitarie, ma non solo. Cose, queste, che dal progetto così come descritto e impostato nell’inquadramento territoriale e organizzativo all’interno del complesso edilizio non appaiono assolutamente risolte. Tantomeno indicate nella loro futura possibile soluzione di eventuale richiesta di adattamento a nuove esigenze. Tra i risultati del Tavolo 1 e ciò che è previsto nel bando di gara, un altro dei più grossi equivoci emerge in merito al cosiddetto “nuovo modello detentivo” che muoverebbe i suoi primi passi in quello della “sorveglianza dinamica”. Scopo di questa ulteriore invenzione linguistica nasce in effetti a seguito della censura fatta dalla CEDU all’Italia riguardante la sentenza Torreggiani, ampiamente commentata sul mio libro “Non solo carcere” (Mursia gennaio 2016): “Tutto nasce dalla manifesta violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, ovvero la proibizione di “trattamenti inumani e degradanti” nei confronti di coloro che sono detenuti in condizioni inaccettabili all’interno di celle di dimensioni insufficienti e con servizi non idonei. Nel suo giudizio generale la Corte veniva considerando lo spazio minimo vitale per un detenuto non soltanto in base ai metri quadrati a disposizione ma, molto correttamente, entrava nel merito anche delle più generali condizioni di vivibilità, le quali determinavano situazioni ambientali di inaccettabile degrado per i detenuti”. Il nostro Paese, non privo di fantasia linguistica, non potendo costruire dall’oggi al domani nuove carceri, per rispondere in via immediata alle richieste della Corte ed evitare ulteriori sanzioni, si è inventato di sana pianta il modello della “sorveglianza dinamica”. Questa nuova procedura di reclusione, per far fronte al conteggio dei metri quadrati mancanti, mette nel conteggio totale delle superfici a disposizione del detenuto “oltre” ai metri quadrati della cella (nel linguaggio del politicamente corretto oggi chiamata stanza o camera di pernottamento), anche le superfici destinate ai passaggi, ai corridoi, alle camere di servizio e accessori vari, forse anche le scale e i ripostigli. Cosicché lo schema detentivo oggi adottato nelle carceri italiane, per il “miglioramento” della
qualità della vita, vede i reclusi “sfrattati” al mattino dalle celle, costretti a mescolarsi durante il giorno con
diverse specificità di condanna, per il tempo che li separa da un pernottamento e l’altro. Tale espediente, tipico della maldestra fantasia del burocrate di turno, insieme ad altri danni crea anche la situazione della
inclusione e del diretto contatto di condannati minacciosi con altri detenuti che nulla hanno di pericoloso nella loro carriera. Sappiamo dalle cronache giudiziarie, che non sono pochi i reclusi che si rifiutano di uscire “fuori” dalla cella per non imbattersi con criminali incalliti e male intenzionati che agiscono
aggressivamente su di loro imponendo le regole criminali dell’ambiente ristretto. Di ciò ne soffre ovviamente anche il personale della Polizia penitenziaria. Questa è la realtà della vigilanza dinamica, quella
cioè che rimescola in un unico spazio reclusi di ogni tipo violando le minime regole di protezione e
salvaguardia nei confronti della dominanza del più forte nei confronti del più debole. La Polizia
penitenziaria nel suo percorso di vigilanza, per l’appunto “dinamica”, si affaccia e osserva da lontano, ben al
di là delle sbarre, questo serraglio umano costretto a passeggiare su e giù per ore parlando di criminalità,
subendo criminalità, specializzandosi in ulteriore criminalità, avendo come obiettivo ultimo la criminalità.
Lo schema progettuale, definito nel bando immutabile modello di riferimento anche per coloro che
vinceranno la gara (…), non offre alcuna flessibilità di futuri adattamenti funzionali. Propone schemi
costruttivi rigidi nella prefabbricazione e, sotto il profilo distributivo, disegna schemi tradizionali ed
obsoleti, non apportando alcun elemento innovativo. Corridoi ciechi si alternano a ossessive teorie di celle
ove l’internità e l’esclusione sprofonda nell’interno del sistema generale, ben chiuso a sua volta dentro una
serie di barriere edilizie mascherate da un fittizio ambiente “urbano”. La lettura di questo enorme e
sproporzionato carcere sarà letto dall’esterno come una lunga ed interminabile fila di un unico edificio con
blocchi allineati tra loro per centinaia di metri senza soluzione di continuità. Una lunga teoria di muri forse
di diverse altezze in mezzo ad una campagna pianeggiante, con accanto il grosso centro commerciale del
Vulcano buono. Se questo doveva essere il primo modello di carcere scaturito dalla lunga riflessione di tanti
esperti, come per il resto dell’amministrazione della giustizia siamo molto lontani da poter essere fieri del
campione proposto.


Arch. D. Alessandro De Rossi
Presidente Commissione LIDU onlus
Diritti della persona privata della libertà

giovedì 9 marzo 2017




Il  duplice delitto accadde il primo agosto del 1954 nel Podere n°654  dell’O.N.C. in agro di Cancello e Arnone

DOPO SEI MESI DAL MATRIMONIO  UCCISE  SUOCERA E UN COGNATO  E FERI’ GRAVEMENTE UN ALTRO COGNATO PER DISSAPORI
SULLA SPARTIZIONE DELL’EREDITA’

Sommario:

L’assassina non  era andata d’accordo con i familiari del marito. Ciò perché essa era “linguacciuta” e “litigiosa”, inoltre si era dimostrata gelosa della cognata Orsola per le attenzioni che costei riceveva dai suoceri, si  era oltremodo risentita, fino al punto di minacciare minacce di morte, per il diniego opposto dai suoceri alla sua pretesa che al marito venisse assegnata una quota di terreno maggiore di quella data agli altri fratelli coniugati che si erano trasferiti altrove, e non intendeva infine aiutare nel lavoro anche nei terreni assegnati a detti cognati. Il tutto però era scattato col pretesto di una lite tra bambini. Dopo il delitto inventò il fatto che il cognato voleva possederla come amante… la suocera l’accusava di essere giunta… non pura alle nozze….

 


Cancello e Arnone – Mi sono occupato di questa vicenda – su queste stesse colonne – il 10 novembre del 2014, ci ritorno, oggi,  con foto e inediti particolari. Una brutta storia, pregna di sfaccettature e di lati oscuri che spesso, troppo spesso portano al delitto. La spartizione dell’eredità? Un pretesto. Ma è il lato pruriginoso sembra più aderente al movente di un simile triplice delitto. Dopo il delitto inventò il fatto che il cognato voleva possederla come amante… la suocera l’accusava invece di essere giunta non pura alle nozze.
Il pomeriggio del primo agosto del 1954 i carabinieri furono informati che nel podere n° 654 dell’Opera Nazionale Combattenti, in concessione a Luigi Purcaro erano stati commessi due omicidi e un tentato omicidio con arma da fuoco, si portavano immediatamente in detto podere e rinvenivano in una camera a pianterreno della casa colonica il cadavere di Filomena Vanzanella, moglie di Luigi Purcaro, nonché uno dei figli del Purcaro, Giovanni, agonizzante su di un lettino. Giovanni Purcaro  veniva trasportato  all’Ospedale di Capua ove decedeva verso le ore 19,00. Dalle prime indagini risultava che quel giorno verso le 15,30 era avvenuta una discussione tra Giovanni Purcaro e Concetta Rea, moglie di un altro figlio di  Luigi, Mauro Purcaro. Causa  della discussione era stata una lite tra bambini in quanto il fratellino della Rea, Aniello  - che era ospite da alcuni giorni nel podere aveva percosso un figliuolo di Giovanni. La Rea aveva pronunziato parole sconce verso il cognato, e costui a sua volta aveva chiamato la stessa “schifosella e donna di merda”,  era quindi intervenuto Mauro che aveva preso le parti della moglie e si era azzuffato con il fratello Giovanni sul primo pianerottolo delle scale che conducono dalla stanza di ingresso a pianterreno al primo piano del fabbricato.  Vincenzo Purcaro, altro figlio di Luigi Purcaro, che non viveva nel podere ma vi si era recato quel giorno per ragioni di lavoro – era accorso per dividere i contendenti; mentre ci accingeva a fare ciò era stato però raggiunto al braccio destro da un colpo di pistola sparato dalla Concetta Rea che si era portata nella sua camera al primo piano ed era tornata poi sulle scale con l’arma in pugno. Secondo Luigi Purcaro la donna era stata incitata ad armarsi dal marito che le aveva detto: “Vai a prendere il revolver”.



 Mentre la Rea sparava altri colpi Vincenzo Purcaro e Orsola Vanzanella, moglie di Giovanni Purcaro era fuggita dalla casa e Luigi Purcaro in un locale a pianterreno sito a fianco della stanza d’ingresso per prendere il suo fucile. Poco dopo i predetti, ritornati in casa avevano rinvenuto nella stanza di ingresso, sotto il tavolo da pranzo, il cadavere della Filomena Vanzanella e sul primo pianerottolo delle scale Giovanni Purcaro che giaceva bocconi in grave stato. La Rea e il fratello della stessa il piccolo Aniello erano intanto fuggiti per i campi e invano si era poi dato al loro inseguimento Luigi Purcaro. Per quanto riguarda i precedenti del delitto risultava che la Rea, subito dopo il suo matrimonio con Mauro Purcaro – avvenuto il 28 febbraio del 1954 – aveva preso alloggio con il marito nel podere dei suoceri ove abitavano già con costoro Giovanni Purcaro e la moglie Orsola Vanzanella con i loro tre figli, ma no era andata d’accordo con i familiari del marito. Ciò perché essa era “linguacciuta” e “litigiosa”, inoltre si era dimostrata gelosa della cognata Orsola per le attenzioni che costei riceveva dai suoceri, si  era oltremodo risentita, fino al punto di minacciare minacce di morte, per il diniego opposto dai suoceri alla sua pretesa che al marito (che intanto aveva continuato a coltivare, come convenuto prima del matrimonio insieme al fratello Giovanni e al padre la parte del podere che quest’ultimo non aveva ancora diviso tra i figli) venisse assegnata una quota di terreno maggiore di quella data agli altri fratelli coniugati che si erano trasferiti altrove, e non intendeva infine aiutare nel lavoro anche nei terreni assegnati a detti cognati. 


Si erano verificati diversi litigi in famiglia. Anzi nel giugno – dopo una lite tra le due cognate  Concetta Rea e la Orsola Vanzanella erano giunti nel podere i genitori della Rea ed un fratello della stessa, Vincenzo, che aveva minacciato di “bruciare tutto” se i Purcaro non avessero lasciato in pace la sorella. E successivamente la Rea aveva pronunziato anch’essa nuove minacce  verso i familiari del marito, specialmente verso la suocera ed aveva anche mostrato ad Angela Nocerino, altra cognata,  un coltello che a suo dire aveva ricevuto con altre armi dal padre. Nel corso delle indagini veniva rinvenuta lungo l’argine di un canale, a circa un chilometro dal podere dei Purcaro – l’arma adoprata per il delitto, una pistola a rotazione calibro 10,45 contenente cinque bossoli ed una cartuccia completa. Contro Mauro Purcaro e Concetta Rea veniva emesso mandato di cattura. La Rea, tratta in arresto il 3 agosto ad Acerra (mentre si nascondeva tra i covoni di grano) dichiarava che il cognato Giovanni le aveva proposto di avere con lui rapporti illeciti e perciò essa desiderava di andare via dal podere ed Aveva spinto il marito a chiedere al padre la assegnazione di una quota di terreno da coltivare a suo piacimento. Raccontava inoltre che, dopo la divisione del grano raccolto  sulla parte del podere che era coltivato in comune dal marito, dal fratello Giovanni e dal padre, essa aveva iniziato a far cucina separata il che era molto dispiaciuto ai Purcaro, specialmente al vecchio suocero Luigi che, parlando con tale Michelengelo Di Fiore,  aveva osservato che se fosse entrato qualcuno in casa all’ora del pranzo avrebbe  notato certamente che Mauro e la moglie non mangiavano con gli altri, pur essendo membri della famiglia. Il 31 luglio vi era stata una questione – che aveva preceduto il duplice delitto – tra lei e  Giovanni in ordine alla raccolta dei fagioli. Il cognato l’aveva ingiuriata e poichè essa aveva riferito la cosa al marito costui si era azzuffato con il fratello. Anche il giorno dopo vi era stata una discussione per il Giovanni aveva accusato il suo fratellino di aver compiuto atti di libidine con una sua bambina. Giovanni l’aveva nuovamente ingiuriata ed allora intervenne il marito in sua difesa che però era stato a sua volta aggredito da tutti i familiari.  A questo punto  essa, presa nella propria camera una pistola – che il marito aveva acquistato mesi prima per difesa personale – aveva sparato da brevissima distanza (70 cm.) alcuni colpi contro Giovanni, che intanto era caduto a terra nelle scale, decisa a finirlo ma una dei colpi aveva anche attinto per caso l’altro cognato Vincenzo. Poi mentre essa si dava alla fuga si era trovata dinanzi la suocera che aveva tentato di trattenerla si era svincolata ma contemporaneamente dalla pistola era partito un altro colpo che aveva raggiunto Filomena Vanzanella. In un successivo interrogatorio la Rea precisava che sparando contro Giovanni si era ferita ad un piede e aggiungeva che la suocera sospettava che essa non fosse giunta vergine al matrimonio in quanto aveva avuto la mestruazione il giorno delle nozze e quindi non era stato possibile constatare la mattina successiva dalla sua camicia nuziale la avvenuta deflorazione.


 Secondo alcuni testimoni però la cosa era molto sospetta, infatti il giorno delle nozze si appalesò l’incidente che avrebbe poi determinato la tragedia. Benché durante il banchetto nuziale  fosse stata resa nota la sua “indisposizione”, Mauro Purcaro (da molti ritenuto un vero allocco) volle coricarsi con lei fin dalla prima notte. Senonché l’indomani quando la suocera  – (in ottemperanza ad una usanza acerrana e non solo, ma una consuetudine ancora oggi in uso specie nelle campagne)ispezionò la camicia della ragazza non potette evidentemente rilevare prove convincenti della avvenuta deflorazione ed esternò il sospetto che la nuora non fosse giunta vergine al matrimonio.  Dal canto suo il marito Mauro Purcaro, arrestato il 12 agosto negava di aver detto alla moglie di prendere la pistola, confermava quanto affermato da costei e dichiarava inoltre che se in famiglia vi erano state questioni ciò era dovuto al fatto che sia la Filomena Vanzanella che il Giovanni Purcaro ingiuriavano la Rea ritenendo che non fosse giunta integra al matrimonio. Varie furono le sfaccettature nella ricostruzione del carattere della donna che aveva commesso due omicidi e un tentato omicidio in famiglia. Raffaele Purcaro (figlio di Luigi), Angela Nocerino, Gennaro Nuzzo, Iolanda Buonauro, Giovanna Montano (madre della Rea) deponevano che durante la celebrazione del matrimonio la Rea aveva fatto presente che aveva la mestruazione. Teresa Bovienzo e Michelangelo Di Fiore confermavano che la Rea è donna “linguacciuta”;  mentre Tommaso Marzullo riferiva circa il litigio avvenuto tra la imputata e la cognata Orsola, a seguito del quale i genitori e il fratello della Rea si erano recati nel podere per chiedere spiegazioni e minacciare i Purcaro. Orsola e Raffaele Vanzanella, Luigi e Vincenzo  Purcaro confermavano  quanto era emerso in ordine alle modalità degli omicidi e precisavano di aver sentito il figlio Mauro di dire alla moglie – mentre colluttava con il fratello – soltanto la parola “corri” e il  Vincenzo di essere stato colpito al braccio destro mentre poneva il braccio introno al collo di Giovanni per separare i due fratelli che colluttavano, in piedi, sul pianerottolo delle scale.






  

LUNEDI’  13 MARZO  2017
 VERRÀ PUBBLICATO IL DELITTO CHE  ACCADDE  

  il primo agosto del 1954 nel Podere n°654  dell’O.N.C. in agro di Cancello e Arnone

DOPO SEI MESI DAL MATRIMONIO  UCCISE  SUOCERA E UN COGNATO  E FERI’ GRAVEMENTE UN ALTRO COGNATO PER DISSAPORI
SULLA SPARTIZIONE DELL’EREDITA’

L’assassina non  era andata d’accordo con i familiari del marito. Ciò perché essa era “linguacciuta” e “litigiosa”, inoltre si era dimostrata gelosa della cognata Orsola per le attenzioni che costei riceveva dai suoceri, si  era oltremodo risentita, fino al punto di minacciare minacce di morte, per il diniego opposto dai suoceri alla sua pretesa che al marito venisse assegnata una quota di terreno maggiore di quella data agli altri fratelli coniugati che si erano trasferiti altrove, e non intendeva infine aiutare nel lavoro anche nei terreni assegnati a detti cognati. Il tutto però era scattato col pretesto di una lite tra bambini. Dopo il delitto inventò il fatto che il cognato voleva possederla come amante… la suocera l’accusava di essere giunta… non pura alle nozze….

LA CONDANNA FU A 27 ANNI DI RECLUSIONE PER OMICIDIO VOLONTARIO CONTINUATO

LA CONDANNA FU A 27 ANNI DI RECLUSIONE PER OMICIDIO VOLONTARIO CONTINUATO



Il Giudice Istruttore, con sentenza del 22 giugno del 1955, sulle conformi conclusioni del pubblico ministero ordinava il rinvio della Rea e Mauro  Purcaro al giudizio della Corte. In dibattimento la donna si difese aggiungendo a quanto aveva già dichiarato che “Quando Giovanni Purcaro – mentre cercavo di togliergli di sotto mio marito – mi dette due schiaffi mentre la moglie da dietro mi tirava i capelli. In qual momento vedendo mio marito di sotto a tante botte e ferito all’orecchio e con il sangue al naso non ci vidi più e corsi nella mia camera,   dove presi la pistola che era già carica. Ritenendo che la pistola avesse la sicura ed avendo sentito dire che quando si fa un omicidio occorre togliere la sicura, tirai quel ferro  che sta sotto la pistola, ritenendo che apponesse la sicura. Io intendevo sparare per intimidire coloro che percuotevano mio marito ma io ero così agitata che nel togliere il ferro partì un colpo che mi ferì al piede. Sparai volontariamente anche altro colpo sempre per intimidire ed infatti diressi la pistola non già verso le scale ma piu in alto”. La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Giovanni Morfino; Giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero,  Gennaro Calabrese), con sentenza del 30 gennaio 1957, condannava  la 23enne Concetta Rea, detenuta a Perugia, accusata di aver ucciso la suocera Filomena Vanzanella e il cognato Giovanni Purcaro e ferito gravemente l’altro cognato,  Vincenzo Purcaro ad anni 27 di reclusione. La Corte di Assise di Appello con sentenza del 27 gennaio del 1961 confermava la condanna. La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 14 gennaio del 1963, rigettava il ricorso. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Alfredo De Marsico, Orazio Cicatelli, Carmine Savelli, Leopoldo Terracciano e Ambrogio Del Pennino.  

Fonte: Archivio di Stato di Caserta


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