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giovedì 29 settembre 2011




IERI  PRESSO IL GABINETTO SCIENTIFICO DELL’UNIVERSITA’ DI  TOR VERGATA DI ROMA
APPUNTAMENTO AL 6 OTTOBRE PRESSO LA CRIMINAL POL  DI ROMA
SUMMIT DEI PERITI E CONSULENTI  PER LA PERIZIA DEL DELITTO DI SERENA MOLLICONE –

PRESENTI il PERITO DEL P.M.  PROF. GIUSEPPE NOVELLI DELL’UNIVERSITA’ DI ROMA, e i consulenti di parte proff. Luigi D’Ancora dell’Università di Napoli e Ciro Di Nunzio dell’Università di Catanzaro – nonché IL CRIMONOLOGO  CARMELO LAVORINO, e  IL GENETISTA SAVERIO POTENZA. . NOMINATI DUE NUOVI CONSULENTI INGG. GIULIA VIGGIANI E ANTONELLA CANINI.  Assente il Gen. Luciano Garofano  ( ex comandante del Ris di Parma ) per la famiglia Mollicone -


( Dal nostro inviato a  Roma  )

       Roma - ( di Ferdinando Terlizzi ) -  Si è tenuta ieri,  presso il  Gabinetto scientifico dell’Università Tor Vergata in Roma, la prima seduta, in seguito all’incarico conferito dal Tribunale di Cassino,  ( Gip Angelo Valerio Lanna, P.M. il Procuratore Capo Mario Mercone ) per l’esame dei reperti e delle tracce biologiche lasciate dai presunti assassini ( ora indagati ) per il delitto di Serena Mollicone.
     In apertura dei lavori   il perito del Tribunale,  nella persona del Prof. Giuseppe Novelli, direttore del Laboratorio di Genetica Medica presso l’Università Tor Vergata di Roma, con la collaborazione dei consulenti di parte,  ha stilato un calendario per il metodo da seguire nel prosieguo delle indagini.
      E’ stato stabilito che la prossima seduta si terrà il 6 ottobre presso il Gabinetto Scientifico della Criminal Pol di Roma. Si è proceduto nel frattempo ad integrare il già nutrito stuolo di consulenti,  con altri specialisti: due ingegneri di genetica vegetale dell’Università Tor Vergata di Roma,  nella persona dei Dottori  Giulia Viggiani e Antonella Canini. Questi ultimi dovranno esaminare le  tracce delle vegetazioni che coprivano il corpo della povera vittima.
     Erano presenti, inoltre,  gli avvocati difensori,   Dario De Santis per la famiglia Mollicone, ( il consulente di parte, il Gen. Luciano Garofano ha inviato un fax prospettando la sua impossibilità a presenziare per concomitanti impegni inerenti il delitto di Sara Scazzi  ); l’Avv. Armando Pagliai ( per il fidanzato di Serena, Michele Fioretti, e la  madre, Rosina Partigianoni, indiziati dell’omicidio); l’avv.Emiliano Germani (per  il brigadiere Francesco Suprano, anche lui  indiziato del grave delitto ) assistito dai consulenti di parte,  il criminologo   Dr. Carmelo Lavorino e il genetista  Prof. Saverio Potenza.  Era assente, invece, l’altro difensore l’avv. Eduardo Rotondi perché impegnato a Bologna per la difesa di Antonella Conserva coinvolta nel rapimento e omicidio del piccolo Tommaso Onofri.
     Inoltre era presente l’avv. Francesco Germani ( per Franco Mottola, all’epoca comandante della  stazione  dei carabinieri di Arce, 55 anni residente a Teano; per  il figlio Marco,   29 anni in famiglia a Teano, e per la madre, omonima del marito,  Anna Maria Mottola,  nata e residente a Teano di anni 50,  ( tutti indiziati per l’omicidio ) coadiuvato dai  consulenti di parte,  il Prof. Luigi D’Ancora, esperto in medicina legale,  dell’Università di Napoli e  il  Prof. Ciro Di Nunzio, genetista, dell’Università di Catanzaro.
     La prossima seduta si terrà il 6 ottobre prossimo presso il gabinetto scientifico della Criminalpol in Roma dove dovranno comparire gli indiziati del delitto per essere sottoposti al prelievo di campioni e saliva. Poi,  come stabilito dal  Giudice per le Indagini Preliminari,  Dr. Lanna,  i lavori peritali saranno esaminati nelle udienze del  16 dicembre e  del 2 febbraio 2012, presso il Tribunale di Cassino,   per l’esame comparato delle risultanze della perizia.  

      Come è noto,  l’ incidente probatorio ( che ha portato alla riapertura del caso ed alle perizie in atto ) è stato provocato dal  Procuratore Capo Mercone,  il quale è fermamente convinto che tra i sei indiziati ci possa essere l’assassino di Serena Mollicone, il mandante ed i testimoni oculari dell’efferato  crimine,  avvenuto, come è noto, 10 anni or sono ad Arce. Ma, la pubblica accusa è partita da molto lontano e non esclude di coinvolgere altre persone tanto è vero che il provvedimento notificato alle parti parla anche di “concorso con ignoti da identificare”.         
    “Ma non  sarà forse” – come ci ha dichiarato il criminologo Carmelo Lavorino,  che assiste la difesa del brigadiere Suprano – una ulteriore perdita di tempo ed una inutile spesa per lo Stato? Perché si sono attesi 10 anni per arrivare ad oggi? Perché in Italia non esistono risoluzioni di casi giudiziari se non ci sono intercettazioni e pentiti? Forse non sono bravi i nostri investigatori? O si tratta – come in altri casi – anche per questo delitto di una regia occulta? –
     La celebrazione di un processo – aggiungiamo noi – potrebbe chiarire ogni responsabilità  finora nascosta all’opinione pubblica.

       

martedì 27 settembre 2011

MEMORIAL FRANCO CARRANO A SANTA MARIA CAPUA VETERE: MOTORADUNO CON 200 CENTAURI DA TUTTA ITALIA ALL’OMBRA DELL’ANFITEATRO CAMPANO









Lo staff dell'organizzazione: Giovanni Cecere, Antonio Falde, il Presidente Dr. Giacomo Roccatagliata,  Mario de Blasio, Agostino Santoro, Ugo Renda e Ferdinando Terlizzi







SANTA MARIA CAPUA VETERE (Caserta), 27 Settembre 2011 - Centauri da tutta Italia si ritroveranno domenica 2 ottobre a Santa Maria Capua Vetere per il terzo motoraduno in memoria del grande campione sammaritano di motociclismo Franco Carrano. Ad organizzare l’appassionante happening motociclistico, ancora una volta il Gruppo Motociclistico Sammaritano del Camec - Club Auto Motoveicoli d’Epoca Campano Anche per questa edizione, è stato notevole lo sforzo organizzativo e finanziario del presidente del Camec, dottor Giacomo Roccatagliata, strettamente collaborato dall’infaticabile Mario de Blasio e dagli sportivissimi Agostino Santoro, Ugo Renda, Giovanni Cecere, Antonio Falde e Ferdinando Terlizzi, tutti legati da affetto ed amicizia alla famiglia del centauro scomparso immaturamente che ha dato lustro al motociclismo meridionale. Hanno voluto dimostrare la loro vicinanza al motociclismo, con la donazione di targhe, coppe e trofei, anche la Regione Campania, l’Amministrazione Provinciale, la Camera di Commercio, il Comitato Provinciale del Coni, e l’ Amministrazione di Santa Maria Capua Vetere. L’appuntamento è fissato per le 9 di domencia in Piazza Bovio: dove, dopo le verifiche di rito (si prevede la presenza di oltre 200 motociclisti provenienti da ogni dove) i partecipanti sfileranno per la città con tappe nei luoghi storici Anfiteatro, Arco Adriano, Mitreo). Infine, dopo il pranzo sociale, alle 16,30 è prevista la premiazione alla presenza di varie autorità nel Salone degli Specchi dello storico Teatro Garibaldi. Il motoraduno è regolamentato dalle norme Asi-Fmi.

Con cortese preghiera di diffusione/pubblicazione
Il presidente CamecGiacomo Roccatagliata

mercoledì 21 settembre 2011


Venerdi presso la sede di Corso Trieste il 2° Meeting informativo

FORUM CAMERA DI CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE

 Illustrazione del decreto 6 luglio 2011, n. 145 e Applicazione  al nuovo regolamento Forum;


Caserta -  Si terrà venerdì,  23 presso la prestigiosa sede di Corso Trieste,  il II° incontro di aggiornamento di tutti i responsabili delle sedi distaccate della Camera di Conciliazione FORUM, di cui è Presidente il Dr. Mario Aglione.  L’incontro verte su un aggiornamento del recente decreto attuativo che disciplina ulteriormente l’andamento e la gestione della Camere di Conciliazione,  che ormai – per volontà unanime – rappresentano il  terzo binario ( dopo i tribunali e i giudici di Pace ) per dirimere controversie di ogni genere, escluso quelle di condominio e per danni da incidenti stradali, che andranno in vigore dal prossimo ottobre.
     Nel corso dell’incontro si discuterà della valutazione collettiva sull’andamento delle sedi secondarie di Forum CCM;l’ Analisi delle problematiche riscontrate; seguirà la  presentazione del nuovo software e della nuova modulistica di Forum CCM.
     L’inizio dei lavori è previsto per le ore 10:00 e termineranno alle ore 16:00. Dalle ore 13:00 alle ore 14:00 è previsto un lunch break offerto dal Presidente. Dopo il Saluto iniziale del Presidente Forum Dr. Mario Aglione   I lavori proseguiranno con interventi dei responsabili delle sedi secondarie e con il coordinamento della Dott.ssa Giulia Aglione,  V. Presidente Forum.    Il nuovo decreto  sarà illustrato dai “case manager” di Forum, Avv. Francesco Stabile e Dott.ssa Carmen de Rosa.
     La nuova disciplina emanata dal Ministero di Grazie e Giustizia prevede in particolare – oltre alla regolamentazione e alla tenuta dei registri dei conciliatori – la obbligatorietà della specializzazione e l’aggiornamento professionale annuale. “Chi ha già conseguito il titolo di conciliatore  – ci ha detto il Presidente Aglione – “è obbligato a fare un corso di aggiornamento che la “Practicall School” ha già predisposto. Mentre un nuovo corso per conciliatori professionisti è già stato programmato ( presso le strutture scolastiche della sede ex Saint Gobaion ) a partirà dal  prossimo 26 fino al 4 ottobre”.  Oggi a Caserta – conclude il Dr. Mario Aglione -  parlare di formazione professionale,  significa parlare della  Practical School”,  che si   occupa in particolare della formazione dei  conciliatori, figura obbligatoria dal marzo del 2011 e parlare di conciliazione,  non si può non parlare  di «Forum Camera di Conciliazione e Mediazione»,  la prima ad aver ricevuto l’accreditamento (decreto numero 70 in Italia) presso il Ministero della Giustizia quale organismo deputato a gestire i procedimenti sotto il controllo ministeriale e che ha già al suo attivo una miriade di pratiche. Inoltre la nostra organizzazione accompagna la parte fino alla omologazione del verbale che come è noto deve essere obbligatoriamente effettuata presso il Tribunale di zona.


lunedì 19 settembre 2011












 A Castelvolturno nel dicembre del 1958
ASSASSINATO  ARTURO NOVIELLO SINDACO DI CASTELVOLTURNO
Chiarina D’Avanzo,  la moglie,  ritenuta  mandante del delitto e  condannata all’ergastolo con gli esecutori. Tutti assolti in appello.   
Un delitto misterioso  dopo 50 anni e’ ancora senza movente e senza colpevole. Un “giallo” della “nera” dai risvolti inquietanti che non si e mai chiarito come il rapimento del figlio  di Vincenzo Coppola.  


     Castelvolturno -    Castelvolturno  non è stata soltanto la città di  “Black Gomorra”, la  strage di  Giuseppe Setola ( avvenuta il 18 settembre del nel 2008 dove furono uccisi sei africani),  quella di un sindaco porcone, il magistrato  Francesco Nuzzo, ( falso e abuso, in due casi di concussione),  intercettato anche  per le sue profferte amorose ad una povera crista;  non è  l’abbattimento delle Torri  abusive, e non è neppure un villaggio di culured e droga,  o il luogo del rapimento del figlio di Vincenzo Coppola, (gestito da “Volpe Rossa” e rilasciato dopo un anno  di prigionia, nel 1981 e dopo il pagamento di ben sette miliardi delle vecchie lire);   o  dell’assassinio del cognato dell’Olimpionico  Oreste Scalzone, è il luogo   addirittura dell’assassinio di un sindaco e di  mille altre nefandezze. Ma è anche  il luogo dove nel 1969  è avvenuta una rivolta popolare,  con incendio del municipio, arresti,  saccheggiamenti  e vendette trasversali… con l’assassinio del giovane Oreste Traetto…  ma nulla e’ cambiato. Anzi oggi è peggio.
     Il tutto ampiamente documentato sia nel libretto “Inchiesta su un comune meridionale: Castelvolturno”,   di Aldo De Jago,  (Editori Riuniti -1972 ) e sia in quel bel libro dell’ex sindaco  Mario Luise,   (Il Fiume narrante: Vita e Mito alla foce del Volturno – Edizioni Frammenti – Stampa Sud  2009 ).  I due lavori letterari mettono a nudo la realtà di un comune,  tanto discusso allora come oggi,  e teatro incolpevole di tetri misfatti.        
      Ci occupiamo oggi,  in questa ultima puntata del nostro “excursus estivo”,  che ci ha visti rievocare i delitti più efferati,   di un  delitto misterioso il quale,   dopo 50 anni,  e’ ancora senza movente e senza colpevole.  Si tratta dell’uccisione di Arturo Noviello,  sindaco di Castelvolturno,  capo di una potente famiglia di imprenditori benestanti, ( un figlio l’Ing. Giuseppe Noviello,  ha costruito a S. Maria C.V. e Caserta interi parchi e tra l’altro era il proprietario-costruttore dell’Hotel Europa in via Roma di Caserta  ),    avvenuta il 17 dicembre del 1958, colpito  alle spalle, con una  gragnuola  di pallettoni,   mentre era seduto nel salotto della sua abitazione. Un “giallo” della “nera” che tenne banco nel 1958 e che appassionò investigatori ed inquirenti e che passò al vaglio della magistratura,  nei suoi tre gradi di giudizio, che, tuttavia,  non dipanò la matassa.
     
















Ma, nello stesso  tempo,  fu il solito “polverone” sollevato da indagini affrettate e portate a termine da suggerimenti politici o dalla spinta della emotività. Una famiglia distrutta nel fisico e nel morale che perse il capostipite mandato in modo tragico al cimitero  e vide la moglie Chiarina D’Avanzo,   tratta in arresto e sospettata dell’atroce delitto,  con una motivazione assurda… “perché era stata privata di parte dell’eredità”. La solita stupida indagine delle autorità competenti ( non si è mai capito competenti di che cosa?)  che all’epoca fu portata avanti dal comandante della Squadra di Polizia Giudiziaria della Procura della Repubblica di S. Maria C.V. Brig. Aniello Romanucci, un carabiniere ( che io ho conosciuto ) dai modi sbrigativi e rozzi ( come quelli del maresciallo della P.S. Vincenzo Iannetti) metodi polizieschi e staliniani: “O confessi o ti arresto”… ma devi confessare anche quello che non hai fatto… perché il sistema era consolidato: patate bollenti in mezzo alle gambe, ingurgito di acqua con l’imbuto, botte ai fianchi,  dove non si formano  ecchimosi, sigarette spente sui glutei,  una tortura insomma… nella migliore tradizione di polizia e carabinieri, per fortuna di altri tempi.
    
E’ proprio il caso di questo omicidio  e di questa indagine,  dove si arrestano cittadini accusati di delitti orrendi,  che sotto la tortura  della polizia e dei carabinieri confessano un delitto che non hanno commesso,  ma  poi,  inesorabilmente la giustizia ( quella, vera, quella amministrata da magistrati che non subiscono il fascino delle sirene della politica, dell’emozione popolare,  della spinta liberticida e forcaiola ) fa il suo corso. Tutti gli arrestati saranno liberati e assolti. Ma con quale danno sulle loro vite? Come si riprenderanno dopo anni di galera?  E quali risarcimenti –  per ingiusta detenzione – darà lo Stato,  considerato  che negli ultimi tempi anche imputati che hanno visto accolte le loro doglianze sono rimasti all’asciutto in quanto in Ministero della Giustizia per tali risarcimenti  non ha fondi? Un mistero, come il delitto che stiamo trattando.
     Nel corso di questi due mesi estivi,  abbiamo trattato 6 casi di “delitti” eccellenti,  che hanno trovato il consenso dei  nostri lettori e che ci riproponiamo di continuare con altri casi scottanti di Terra di Lavoro nella prossima estate. Abbiamo parlato del delitto di Consiglia Sciaudone,  da S. Andrea del Pizzone,  che per “aberratio ictus” nel tentativo di uccidere il suo seduttore,  uccise lui e altre due persone. Abbiamo poi scoperti i retroscena delle lettere anonime  che determinarono l’uccisione del Dr.  Enrico Gallozzi e del suo fattore Vincenzo Montesano nella masseria Piglialarmi di Pastorano. Lettere che sconvolsero la mente di Pasquale Raimondo che uccise i due. Lettere che vennero attribuite all“incolpevole” Angelina Fusaro,  una donna innamorata del culto di Saffo,  che venne accusata di istigazione a duplice omicidio e poi assolta. Dopo il processo si fece suora e capitò nello stesso convento dove anni prima si era rifugiata la sua preferita,  Anna Maria Raimondo,  figlia dell’assassino… fu  un idillio tra lesbiche? Giudicate voi.  
    




















 Nelle puntate successive abbiamo trattato l’efferato  crimine di Pasquale Maione,  un contadino di Frignano che,  innamoratosi della cognata,  uccise il fidanzato di questa, sua moglie ed avvelenò un suo figlio di 4 mesi. La  nostra attenzione è stata poi attratta dal caso della “Circe” di Mondragone, Petronilla D’Agostino, la quale concedendo favori sessuali ai fidanzati delle figlie,  fece uccidere il marito.  Siamo passati poi ad esaminare il caso emblematico della maestrina di Recale,  Rita Squeglia,  che in un raptus di follia  omicida strangolò il suo amante Nicola Acconcia.  Ed infine, il delitto del medico sammaritano Aurelio Tafuri ( dal quale è stato tratto il mio libro “Il delitto di un uomo normale”… eticamente deviato da una passione ignominiosa…   in ristampa  per la 3° Edizione  - Albatros  ) che uccise il giovane Gianni De Luca,  innamoratosi  della sua amante,  la ballerina Anna Maria Novi.
     Ma vediamo come andarono i fatti  per la vicenda  del delitto del sindaco di Castelvolturno,   riportandoci alle cronache e ai  documenti del tempo. Il Brig. Aniello Romanucci,  della Squadra di Polizia Giudiziaria della Procura della Repubblica del Tribunale di S. Maria C.V. delegato a tanto dal maggiore Vincenzo Pallisco, comandante del Gruppo di Caserta e dal Capitano Giovanni Ruffo,  comandante della Compagnia carabinieri,    dopo “accurate” indagini trasse  in arresto  il fattore Antonio Fargnoli e il contadino Nicola Grieco – ritenuti esecutori materiali dell’efferato deitto – su mandato specifico della moglie del sindaco Chiarina D’Avanzo.
     Vincendo il  “ferreo  cerchio di omertà” che ancora esiste in quella plaga dei Mazzoni,  il “bravissimo” sottufficiale arrivava alla conclusione che la vedova aveva ordinato il delitto perché estromessa dall’asse ereditario, il contadino perché covava rancore nei confronti di Arturo Noviello,  perché allorquando era sindaco aveva negato la sua assunzione al Municipio e l’altro assassino si era visto negato la rettifica di un confino di terreno. Questi “moventi” erano sufficienti per i carabinieri e gli inquirenti dell’epoca,  per mandare alla forca il terzetto o quantomeno all’ergastolo. Per fortuna non fu così. Ma ci tentarono – come spesso ci tentano oggi – specialmente in Corte di Assise – quando il P.M. chiede l’ergastolo e la Corte poi assolve…
     Ma ci  interroghiamo  – perplessi – come si può essere condannati al carcere a vita o assolti con le stesse prove?  Come fanno a guardare in faccia i propri figli quei pubblici ministeri  ( e ce ne sono! ) che chiedono l’ergastolo ( solo per far uscire il loro nome sui giornali,  quello che gli esperti chiamano effetto “Barnum” ) sapendo che non vi è ceetezza della colpevolezza?
     Nel corso del prosieguo delle indagini – raccontano le cronache dell’epoca -   “mentre il Fargnoli ha pienamente confessato ( sotto tortura aggiungiamo noi ) il truce assassinio,  narrandone con raccapricciante cinismo i più minuti particolari,  sia la D’Avanzo che il Grieco,  continuano a protestare loro innocenza dicendosi vittime di una trama infernale ordita ai loro danni”. Ed erano veramente innocenti ma corsero il rischio di passare il resto della loro vita all’ergastolo, grazie alle “diligenti” indagini dei carabinieri.
      “Dalle indagini medesime – aggiunge il cronista – “è stato rilevato che il motivo che spinse la D’Avanzo a far uccidere il marito fu determinato da un avido desiderio di venire presto in possesso della sua parte di eredità”. La “brillante” operazione si è conclusa con il sequestro del fucile da caccia che il 17 dicembre del 1958 freddò Arturo Noviello nella sua abitazione.
     Ma che senso aveva ipotizzare un movente “per eredità”  e uccidere un uomo quasi settantenne? La D’Avanzo era la moglie e quindi erede legittima. Che ne avrebbe potuto farne,  di un grosso patrimonio,  tutti terreni e fabbricati? Ma si sa,  la mente ( perversa )  di un investigatore, pur di dimostrare la fondatezza delle sue tesi  oltrepassa ogni logica… deduzione! 
     A conclusione dell’indagine furono tratti in arresto la D’Avanzo, Fargnoli e Grieco e denunciati per omicidio aggravato dalla premeditazione. Mentre Vincenza Borrozzino,   una donna amica della D’Avanzo,  per complicità nel delitto,  e invece,  gli assessori  Michele Piazza e  Adolfo  Morrone per favoreggiamento.
     Rinviati a giudizio della Corte di Assise del Tribunale di S. Maria C.V.,   Chiarina D’Avanzo e Antonio Fargnoli  furono condannati all’ergastolo. Il  Grieco, Piazza, Borrozzino e Morrone,  tutti  assolti per insufficienza  di prove.  Nel processo furono impegnati gli avvocati Giuseppe Marrocco ( parte civile )  Ciro Maffuccini, Alfonso Martucci, Francesco Lugnano e Giuseppe Garofalo.
     Celebratosi il processo d’appello fu totalmente ribaltata la situazione ( come del resto per il processo agli assassini del sindacalista Salvatore Carnevale: 4 campieri siciliani condannati all’ergastolo a S. Maria C.V. furono assolti a Napoli ).   I giudici della Corte d'Assise d'Appello, dopo  sei ore in camera di consiglio,  assolsero, per insufficienza di prove, Chiara D'Avanzo e Antonio Fargnoli, entrambi condannati alla pena dell'ergastolo in primo grado,  per l'uccisione di Arturo  Noviello, marito della donna, ex-sindaco di Castelvolturno.
     I giudici di appello confermarono inoltre  l'assoluzione per insufficienza di prove di  Nicola Grieco, Vincenza Barrozzino e Andolfo Morrone, per non aver commesso il fatto. Nel giudizio d'appello, il P. M. aveva chiesto l'ergastolo per la D'Avanzo, per il Fargnoli e per il Grieco; per la Barrozzino, 22 anni di reclusione, per il Morrone due anni di reclusione. Ma nell’aula della Corte di Assise,  sia di Napoli che di S. Maria aleggiava il sospetto che ad uccidere Arturo Noviello,  con una schioppettata partita dalla finestra della cucina,  era stato un famigliare… si disse un figlio!



     



martedì 13 settembre 2011




 NELLA MASSERIA “PIGLIALARMI” DI VITULAZIO NEL  1952

ASSASSINATO IL DR.  ENRICO GALLOZZI POSSIDENTE SAMMARITANO,  NIPOTE DEL SEN.  CARLO GALLOZZI E IL SUO FATTORE VINCENZO MONTESANO  DA GRAZZANISE


L’omicida, Pasquale Raimondo,  fu ritenuto totalmente infermo di mente  e condannato a 10 anni di manicomio criminale -  Angelina Fusaro da Grazzanise,  accusata di istigazione a duplice omicidio, di essere  una lesbica e autrice delle lettere anonime… fu assolta.  Un storia di corna, di lettere anonime, di amori saffici, di suore in convento e di follia omicida.

        Vitulazio – Spesso la realtà supera la fantasia. E questa storia lo conferma. Un aggrovigliarsi di eventi satanici  e diabolici che sembrano usciti dalla mente di Satana… ma  che  invece,  sono purtroppo, cruda realtà. Correva il mese di luglio del 1952, da dietro un cespuglio  della tenuta “Piglialarmi” in tenimento di Vitulazio,   esce un individuo che con un fucile da caccia,  caricato a pallettoni,  uccide il Dr. Enrico Gallozzi, chirurgo,  61 anni, latifondista, nipote del Sen. Carlo Gallozzi  (deputato del Regno d’Italia, insigne professore universitario, che succedette al chirurgo Ferdinando Palasciano; a lui sono intitolati una strada e  una scuola nella sua città natale) da S. Maria C.V.,  giunto sul posto a bordo della sua auto condotta dall’autista Vito Di Lillo,  anche lui sammaritano e il suo fattore Vincenzo Montesano,  di anni 52 da Grazzanise.
     A scoprire i cadaveri fu il contadino Antonio Mercone da Pastorano il quale avvisò i carabinieri e sul posto convennero il mar. Giovanni Pautasso e il Brig. Raffaele D’Alessadro con il medico di turno Dr. Raffaele Cuccari. Il primo  ad essere  sospettato è il guardiano  dell’azienda agricola Pasquale Raimondo, 49 anni da Grazzanise. Perché?
     Le prime indagini sulla perizia medico-legale  eseguite dai periti dottori Michele Sanvitale, Pasquale Tagliacozzi e Mario Pugliese,  retrodatarono la morte alle 24 ore precedenti ed accertarono che il Gallozzi  era stato attinto ai polmoni il Montesano agli organi interni ma era stato finito con un colpo alla testa. 
     Per prima cosa destò sospetto il fatto che il guardiano   si diede alla macchia, poi,  in seguito ad  una perquisizione effettuata dopo il delitto,  dal maresciallo Luigi Bruno,  comandante la Stazione dei Carabinieri di Vitulazio,  fu rinvenuto l’arma del delitto e si consolidò il sospetto che lui fosse l’assassino anche  perché vi erano stati numerosi episodi venuti alla luce nel corso delle indagini.
     Costituitosi al direttore delle carceri Enrico Matano  confessò: “Ho ucciso Gallozzi perché aveva sedotto mia figlia ed era l’amante di mia moglie e Montesano perché, pur sapendo la cosa, ed essendo mio compaesano,  non mi aveva riferito della tresca”.  Non mi sembra un ragionamento da pazzo… Infatti ciò non era vero. Ossia,  era la sua versione dei fatti,  instillatasi nella sua mente malata e perversa. Ma facciamo un passo indietro per meglio capire l’intrigata vicenda.
    I carabinieri accertarono,  anche in base a serrati interrogatori di Maria Petrella, moglie del fattore  ucciso Montesano,   che a Pasquale Raimondo, guardiano delle terre del Dr. Gallozzi,  da un poco di tempo arrivavano lettere anonime dalle quali  si evinceva che sua figlia Maria  Raimondo ( all’epoca dei fatti 16enne ) era stata deflorata  dal Dr. Galozzi, e che la madre  Giovannina Tessitore, 46 anni, moglie del Raimondo era l’amante del Gallozzi.  La teste precisava,  inoltre,  che in paese correva voce che la figlia del Raimondo  Maria era stata “deflorata” e “riparata” nella sua vergità dal Dr. Gallozzi ( egli infatti era un ottimo chirurgo ) ma la madre della ragazza sosteneva che era una calunnia.
   Inoltre un tale Enrico Parente da Grazzanise,  andava da tempo sparlando e sostenendo che Giovannina Tessitore,  moglie di Pasquale Raimondo faceva la puttana ed era amante del Dr. Gallozzi. Ciò precisava di aver appreso da Vincenzo Montesano fattore dei beni Gallozzi. Intanto continuavano ad arrivare lettere anonime ed una giunse addirittura alla moglie del Montesano con la quale si annunciava l’assassinio del marito per mano di Pasquale Raimondo da lui più volte calunniato.
      La moglie del Raimondo, informata dell’arrivo della lettera anonima che parlava del suo marito come probabile assassino dedusse che a Grazzanise vi erano  molte persone che erano invidiose delle famiglie  “Raimondo-Montesano” perché alcunini membri delle stesse  lavoravano presso il latifondo del Dr. Gallozzi. Allora si faceva veramente la fame poiché era da pochi anni terminata la guerra. Ecco il primo atto di pazzia. Venuto a conoscenza di questa circostanza,  Pasquale Raimondo prese un pugnale e lo consegnò alla moglie e le ordinò di uccidere Enrico Parente e chiunque avesse parlato male della figlia e della moglie. 
       Il Raimondo riteneva il Montesano un “traditore“ ed un “fetente”  perché  essendo paesano e conoscendo  dei fatti scabrosi  non glieli aveva riferito. Dal canto suo il Dr. Gallozzi,  che riteneva tutte le accuse infondate, essendo egli innocente degli addebiti,  si adoperò per una riconciliazione,  ma il Raimondo restò fermo sulla convinzione che a inviare le lettere  anonime  fosse stato il fattore Vincenzo Montesano.
    I carabinieri appurarono che il Raimondo,  da circa  tre anni aveva scacciato di casa la moglie e la figlia Maria perché alcune lettere anonime gli avevano comunicato che la figlia era stata sedotta e la moglie era l’amante di Gallozzi.
     A questo punto della vicenda il primo colpo di scena. Maria Raimondo, scacciata da casa, con un’accusa assurda e calunniosa, ( la madre addirittura l’aveva fatta controllare ad un professore di Napoli che la dichiarò “illibata”),  ma  presa dallo sconforto, e per sottrarsi ai continui maltrattamenti del padre ( pare che avesse tentato anche di violentarla )  si andò a fare suore presso il Convento di “Calvi dell’Umilia” in Terni. 
     Tra gli episodi “singolari” per non dire “strani” di queste vicissitudini è da inquadrare il rapporto di coppia tra la moglie e l’assassino. Lei, pur essendo divisa da oltre tre anni, il sabato sera andava a coricarsi con il marito, nella masseria “Piglialarmi” a Pastorano,  venendo apposta da Grazzanise. Perché lo faceva?  Per dimostrare che non aveva rapporti con altri uomini? Lei stessa raccontò agli inquirenti i risvolti dei bruschi colloqui amorosi. Pasquale Raimondo, infatti, mentre  sfogava i suoi istinti sessuali l’apostrofava con epiteti ( puttana, troia,  ) ed a fine rapporto  la picchiava selvaggiamente  con una frusta e poi le sputava in faccia. In una circostanza cercò addirittura di strangolarla. Ma subito dopo averle contestato che era l’amante del Gallozzi e che non aveva avuto cura della figlia,  scoppiava in dirotto pianto  Le ecchimosi, le ferite ai glutei e alle braccia della donna  furono riscontrate dal dr. Giovanni Izzo da Grazzanise che confermarono l’assunto della donna. Insomma Pasquale Raimondo era un pazzo, un feticista, un voyer   o un sadico sessuale?
     Ma chi continuava a far arrivare al Raimondo le missive anonime? Nell’ultima ( le lettere sono tutte allegate al processo ) veniva descritta tutta una circostanza precisa. La ragazza è stata deflorata. La mamma l’ha portata dal Dr. Gallozzi e questi l’ha “riparata” facendola ritornare vergine e lei… per ricompensarlo si era concessa. Non era  affatto vero,  ma nella mente del Raimondo si instillò il “tarlo del dubbio” e della veridicità dei fatti. E lui diventava sempre più violento e sadico contro le sue donne. Tanto è vero che la figlia Teresa di 21 anni,  fece la “fuitina” dopo essere stata sedotta,  e si sposò con Giuseppe Fusaro lontano da Grazzanise. 
     Ed inoltre si appurava che il  Raimondo nutriva dissapori contro il Vincenzo Montesano, una delle sue vittime ( nonostante che fosse stato il fratello di quest’ultimo,  il sacerdote Francesco Montesano,  a farlo assumere nell’azienda Gallozzi ) perché questi era riuscito ad emergere nel suo lavoro ed era nelle grazie del padrone.
     Ed eccoci al secondo colpo di scena. Angelo Parente,  ricevitore postale di Grazzanise,   rivelò che autrice delle lettere anonime che giungevano al Raimondo  era Angelina Fusaro, 32 anni, da Grazzanise,   una sarta “lesbica”,  presso la quale in passato aveva lavorato la figlia del Raimondo che poi si era fatta suora. Il perito calligrafico di ufficio,  Prof. Attilio D’Angelo,  da Caserta,  dopo la  comparazione con altri scritti attribuì le lettere anonime alla  sarta Angelina Fusaro.
     Intanto Pasquale Raimondo, detenuto nel carcere di S.Maria C.V.,   con la pesante accusa di duplice omicidio aggravato,  appariva depresso e malinconico ( un reo folle o un perfetto simulatore?), e per questo  fu sottoposto, su ordine degli inquirenti,   a perizia psichiatrica dai Prof. Pasquale Coppola, Primario del Manicomio di Aversa e dal Prof. Filippo Saporito ( il più noto psichiatra dell’epoca). Subito si scoprirono antenati pazzi ( è un classico nei processi penali ): Maria Raimondo, sua zia paterna era una psicopatica, altri antenati erano morti per lue e per mente debole.
     In 117 pagine,  i due periti di ufficio ( ai quali venne liquidata una parcella di lire 43mila quasi 600 euro di oggi ) conclusero che Pasquale Raimondo risultava già “costituzionalmente predisposto alle malattie mentali, per eredità psicopatica, e per precoce involuzione senile. Che, le lettere anonime a lui e ad altri pervenute intorno alla sua onorabilità di marito e di padre, con i relativi commenti corsi nel suo ambiante nei rapporti, soprattutto coi  suoi datori di lavoro agirono su di lui come altrettanti “traumi psichici” in tutto il loro valore clinico-psichiatrico”.
     “Che, sotto l’azione di tali traumi sommantisi, man  mano, nei loro effetti patogeni il Raimondo contrasse una vera e propria psicosi, in forma delirante paranoidea, a contenuto geloso, ammantate da taciturnità, ma a decorso continuo e progressivo, con rare episodiche manifestazioni esteriori espressive della loro morbosità”.  
     “Che, nella notte precedente al delitto, la psicosi ebbe una esplosione acuta, a forma di confabulazione rappresentativa della sua vicenda familiare quale gli era stata configurata dalla psicosi,  e dalla quale trasse il motivo morboso a delinquere. Che la sindrome psicopatica svelatasi nel corso della istruttoria, e tuttora in atto, a carattere confusionale, non è che una fase di collasso strettamente connessa con le sindromi precedenti e costituisce, insieme con esse, tutto un unico processo psicosico, ancora capace di non prevedibili sviluppi. Che, nell’atto dei commessi reati, il Raimondo trovavasi in tale stato di infermità di mente da escludere la capacità di intendere e volere e che l’imputato è persona socialmente pericolosa”. 
    Anche in questo processo,  come   del resto nel processo ad Aurelio Tafuri,  ho riscontrato una grande battaglia tra i periti. Una guerra fredda, calcolata, che spesso approda a risultati di ”parte”. Raimondo per i periti di ufficio è pazzo e non è punibile. Per quelli di parte ( Prof. Annibale Puca e Prof. Giacomo Cascella,   per conto della vedova Montesano ) è sano di mente ed è un simulatore. Alla fine chi ha vinto? Non certo la giustizia!
     Infatti i giudici, due anni dopo il delitto,  furono costretti a rivedere le cose ed ordinarono una perizia “suppletiva” che fu estesa al Prof. Vincenzo Barbuto oltre al Prof. Filippo Saporito. Ai quali fu chiesto espressamente: “Dite se le lettere anonime ricevute dall’imputato abbiano avuto efficienza causale scatenante il delirio di gelosia ovvero furono solo un fattore condizionante dello stesso, se il delitto si sarebbe verificato senza l’arrivo della lettere anonime”.
     Il loro responso fu che “le lettere anonime pervenute all’imputato non hanno avuto efficienza causale scatenante il delirio di gelosia del Raimondo accertato con la precedente perizia  giudiziale e che esse furono soltanto un fattore accessorio concomitante di un processo  psicopatologico a lungo decorso, dovuto a cause precedentemente intrinseche alla sua personalità e che avrebbe potuto insorgere anche senza di esse”. 
     Di parere diverso, il prof. Puca e il prof. Cascella, Direttore e Assistente dell’Ospedale S. Maria Maddalena di Aversa ( così si chiamava prima il manicomio )    per la parte civile. “E’ spiegabile, è possibile, che un uomo, fino a poche ore prima, si era dimostrato lucido, logico, coerente, consequenziale, senza deficienze psichiche e senza disturbi psico-sensoriali improvvisamente – con un trasformismo da palcoscenico – diventi dissociato e confuso al punto da non riuscire neppure a pronunciare  una frase sensata?  Vi è un capitolo in Psichiatria che contempla tale evenienza al di fuori della simulazione?  “Noi non lo crediamo – continuarono i consulenti di parte – ed abbiamo  dati a iosa, per sostenere, senza ricorrere alle fantasie ed al possibilismo, la tesi della volontarietà del Raimondo di recitare la parte dell’ammalato di mente. La goffaggine con cui recita la sua parte, la nessuna attendibilità di essa, il modo con cui è stato preordinato e portato a termine il delitto, la linea difensiva impostasi, la monotonia delle sue frasi, e dei suoi atteggiamenti e soprattutto un dato importante che è stato messo in risalto dagli stessi periti di ufficio, e che è comune a tutti i simulatori o pseudo dementi, e come tale facile a riscontrarsi, Raimondo si rifiuta di sottoporsi a visite e colloqui e bisogna portarcelo  con la forza, tipico dei criminali. Sottoposto a perizia, si rifiuta ed ha paura del confronto”.
      I due insigni psichiatri così conclusero – confutando le tesi dell’accusa – “Pasquale Raimondo attualmente presenta una sindrome reattiva facilmente inquadrabile in quella descritta da Ganser e che si riscontra in alcuni detenuti al carcere preventivo. ( La sindrome di Ganser, chiamata anche pseudodemenza, è una sindrome neurologica di origine isterica nella quale si verifica una produzione volontaria di sintomi psicologici che tende al peggioramento quando il paziente è consapevole di essere osservato. Questi sintomi sono frequenti soprattutto nelle prigioni, dove il soggetto può valutare più o meno inconsciamente e aver interesse a disconoscere alcune realtà. N.d.R. ). Tale sindrome è insorta in lui dopo il suo internamento al carcere ed è da mettere in rapporto al desiderio di trovare una scappatoia alle sue responsabilità ed alle sanzioni conseguenti al delitto.  Il movente che lo spinse ad uccidere va ricercato in un complesso di odio e rancore generatosi nel suo animo in quanto si sentiva esautorato dal rivale e soppiantato nei favori del padrone che negli ultimi tempi lo aveva messo da parte”. 
     “Le lettere anonime  furono il paravento – scrivono ancora i periti di parte  – dietro  cui mascherò il suo rancore per il Montesano, e gli servirono per giustificare  il proprio delitto. Per le ragioni sopra esposte il delitto fu premeditato ed eseguito con piena  e fredda determinazione. E quindi in assoluta capacità di intendere e di volere. La volontà di uccidere è ampiamente dimostrata dal mezzo usato e dalla localizzazione dei colpi che furono diretti tutti in parti vitali ed inoltre la freddezza emozionale del momento si evidenzia palesemente dal feroce gesto da lui compiuto quando fracassò il cranio del Montesano con il calcio del fucile onde essere sicuro che l’altro non potesse sopravvivere. Il carattere violento e spietato dell’individuo la ferocia del crimine commesso, la particolare concezione ed interpretazione dei propri diritti l’assoluto disprezzo per la legge e per le autorità costituite, la mancanza dell’istinto di gregarietà, le caratteristiche biofisiche comuni  e riscontrabili  in tutti i criminali lo fanno considerare individuo socialmente pericoloso”.
     Il terzo colpo di scena è consistito nella incriminazione della Fusaro.  Sulle risultanze peritali, infatti,  che avevano stabilito che le lettere anonime avevano determinato,  in un certo modo,  il duplice delitto,  Angelina Fusaro venne accusata di istigazione a duplice omicidio ed arrestata.
     Le contestarono “per avere mediante lettere anonime contenenti apprezzamenti diffamatori sulla condotta di Maria Raimondo e Giovannina Tessitore dirette a Pasquale Raimondo provocando nel medesimo la “slatentizzazione di una psicosi paranoidea, a tipo di delirio di gelosia che si andava man mano che gli anonimi pervenivano vieppiù aggravando, fino a diventare probabilmente insanabile pur sapendo che ogni lettera  prevedeva intenzioni omicide.     
     Nelle more pervenne ai giudici dalla Svizzera,  una lettera da parte del marito della donna,  che la accusava apertamente di essere una “lesbica” e di essere andata non pura alle nozze.  Questa circostanza aggravò ancora di più la posizione della donna.
     Ma un successivo  ulteriore intervento di altri periti calligrafici stabilirono che le lettere anonime, pervenute al Raimondo,  non erano state scritte di pugno da Angelina Fusaro.  A questo punto ci si domandava chi fu il demoniaco autore degli anonimi che istigava il padre contro la figlia Anna Maria ( sorella della ragazza che si era fatta suora )  denunziando che costei  fosse stata sedotta da Giuseppe Fusaro,  ( fratello di Angelina ) metre poi facilitava i  convegni tra quest’ultimo e Raimondo Teresa ( altra sorella di Maria ) della quale era l’amante che fece scappare di casa e successivamente sposandola?
     Il quarto colpo di scena venne fuori dalla deposizione di  Maria Raimondo interrogata nel Monastero dove aveva preso i voti. “Mio padre un giorno mi venne a trovare e mi consegnò un coltello con il quale mi disse che avrei dovuto uccidere il Montesano perché questi aveva sparlato di me. Io per fortuna ero in compagnia di una suora che può testimoniare sulla circostanza che lui minacciò di uccidermi se non avessi compiuto il delitto… poi scoppiò a piangere… Io ero e sono vergine ciò è stato anche constata da una perizia del prof. Antonio Piccoli da Napoli. Mio padre era posseduto dal Diavolo… perciò ha commesso il duplice delitto”. Sulla sua relazione saffica con la Fusaro non volle parlare.
      Tutte le indagini propendevano per l’accusa alla Angelina Fusaro quale autrice delle lettere anonime e addirittura il Giudice Istruttore lo scrisse nella sentenza di rinvio a giudizio: “La Fusaro invaghitasi di Maria Raimondo  con la quale aveva avuto  ed aveva pratiche lesbiche denunziava questa deficiente al padre Pasquale Raimondo,  facendola maltrattare per attrarla a sé e poi addebitandole come amante il proprio fratello Giuseppe,  favoriva invece effettivamente costui nei rapporti illeciti con Teresa”.
    Per quanto attiene invece al Raimondo  i giudici scrissero che lui era un pazzo  e che conduceva una vita sregolata e spesso aveva tentato di violentare la figlia Teresa mentre apostrofava con parole come “puttana” ed altre irripetibili la moglie specie quando giaceva con lei.
    Dopo due anni il processo in Corte di Assise ( Presidente Giovanni Morfino, a latere Guido Tavassi, pubblico Ministero, Gennaro Calabrese, cancelliere Domenico Aniello e Ufficiale giudiziario Giuseppe Girardi ). Il P.M. nella sua requisitoria  chiese 10 anni di manicomio criminale per Pasquale Raimondo ( che era difeso dall’avvocato Ciro Maffuccini ) e definì l’imputato “un criminale ed un rozzo mazzonaro.. non un assassino ma un pazzo omicida”.
     “Quando la notte – disse  tra l’altro il pubblico ministero nel corso della sua  requisitoria – ebbe l’ultimo convegno amoroso con la moglie e dalle innegabili confessioni della stessa sui consigli e sulle visite del Gallozzi ebbe l’allucinante ossessiva rivelazione nella sua mente ammalata che avesse ragione l’anonimo informatore a dirgli che la figlia come la madre si abbandonavano  ad orge con il Dr. Gallozzi e il guardiano Montesano  scambiandosi perfino senza ritegno  i soggetti degli accoppiamenti. Che la figlia avesse subito l’onta di inenarrabili impudicizie fino al punto di avere conseguito,  ad opera del Gallozzi,  la “ricostruzione”  apparente della propria verginità; che la madre si fosse accoppiata con Gallozzi mentre ella si accoppiava con Montesano”.
     “Allora sì che si spiega l’evolversi, la conclusione e l’esplosione dell’impressionante processo morboso che come l’accesso di fissazione nel processo  di degenerazione dei tessuti trova il suo momento generativo nell’unione del Raimondo  con la moglie perché nella mente sconvolta del soggetto era ferma l’idea ossessiva che soltanto in quel momento di abbandono fisico pel compimento dell’atto fisiologico la moglie Giovannina Tessitore potesse indursi a dire la verità”.
     “E’ stata l’ultima lettera  anonima – ha concluso  il Pubblico Ministero – a far scattare l’dea del delitto. In quella missiva Raimondo veniva accusato di rapporti incestuosi con la figlia che si era fatta suora e poi… vedi il caso, la Angelina Fusaro,  prima che fosse scoperta come autrice delle lettere anonime, si va a fare suora e capita nello stesso convento della novizia sua allieva”. 
     Insomma secondo il p.m. “in fica veritas”,  l’uomo si scopava la moglie per farla parlare… e poi alla fine dell’atto sessuale le sputava in faccia! La donna confessava tutto – anche quello che non era vero – come nella tortura – mentre aveva il rapporto sessuale col marito…
     La pubblica accusa riservò parole di fuoco per la sarta: “L’imputato fu prescelto dalla malvagità di Angelina Fusaro per esercitare la vendetta di una donna viziosa, spregiudicata, che aveva creato  un laboratorio di sartoria per circondarsi di fanciulle delle quali era gelosissima ( novella Saffo ) che spesse volte di notte teneva nel proprio letto e come è ovvio spesso corrompeva con le sue pratiche libidinose. L’amore prediletto di questa  autentica maestra  di depravazione  e di concupiscenza omosessuale era però Maria Raimondo -  e come fu accertato – aveva elaborato  sapienti anonimi anche ai danni del proprio fratello a carico del quale Raimondo aveva incominciato a concepire i primi suoi folli propositi di soppressione”.
     Angelina Fusaro si difesa da par sua: Io non ho scritto nessuna delle lettere che mi vengono attribuite, io ero amica di famiglia del Raimondo e la figlia veniva a cucire a casa mia. Non ho mai conosciuto Gallozzi. Mio marito nella lettera dalla Svizzera dice calunnie, io ero vergine al matrimonio. Entrai nel monastero della Orsoline non per seguire la Raimondo ma per vocazione. In precedenza  avevo chiesto al prete del paese qual era il monastero migliore. Non è vero che Angelo Parente mi ha visto imbucare la lettre lui mi odia ed è un pessimo soggetto”. Poi scoppiando a piangere:” Non è  vero che me la intendessi con le mie apprendiste… perché sono una persona seria. Nel mio matrimonio ho avuto un a bambina che è morta dopo 45 giorni”.      
     Fu creduta,  nonostante che il piemme al  termine della sua requisitoria avesse chiesto 23 anni di reclusione, la Angelina Fusaro, difesa dall’avvocato Giuseppe Garofalo fu assolta “per non aver commesso il fatto”. La parte civile era rappresentata dagli avvocati Vittorio e Michele Verzillo,  per la vedova Montesano e da Enrico Altavilla per Flavia Bozza moglie del Dr. Gallozzi. In appello subentrò anche Giovanni Leone.

   

    
    
    

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lunedì 5 settembre 2011

Il delitto avvenne nei pressi di Caiazzo nel 1960




Aurelio Tafuri medico di S. Maria C.V. fu condannato a 26 anni per omicidio e occultamento di cadavere – Uccise il rivale in amore – Gli diede un colpo alla testa, gli conficcò un punteruolo nel cuore, gli legò 2 mattoni ai piedi e lo getto nel Fiume Volturno dalla scafa di Caiazzo. - Un cast di avvocati di primo piano – Fu definito dai periti uno “schizofrenico”. Scrisse in carcere uno scottante memoriale accusando la madre di avergli negato di sposare una ballerina di cui era innamorato e di avergli proibito di fare il pittore invece che il medico . Era un uomo normale?- Dalla sua vicenda è stato tratto il libro “Il delitto di un uomo normale”… eticamente deviato da una passione ignominiosa”… Il movente? Gelosia? Il Mistero permane…



S. Maria C.V. – Il delitto del dottor Aurelio Tafuri, il medico sammaritano, che confessò di aver ucciso lo studente napoletano Gianni De Luca, che insidiava la sua amante, la ballerina del “Trocadero”, il locale notturno di Napoli, Anna Maria Novi, che ha riempito le prime pagine dei giornali, ci invita a parlare, ancora una volta, del tema, sempre avvincente, della “passionalità” del Sud”. Intendiamoci, il caso del medico di Santa Maria Capua Vetere, non è affatto un delitto passionale classico del Meridione, anzi esso nasconde, nel suo retroscena, moventi che sono perfettamente contrari a quelli che di solito armano la mano ai meridionali: è un delitto capovolto. Mentre l'uomo meridionale, di solito, uccide perché scopre un tradimento, una relazione della moglie al di fuori del matrimonio, qui, ha armato la mano del dottor Tafuri il risentimento che l'indossatrice e il giovane De Luca volessero portare la loro relazione al di fuori del rapporto che essi avevano con lui. Era un perfetto “mènage a trois” che si era improvvisamente frantumato? E’ stata questa la causa del delitto?

Se nel tenebroso caso Tafuri affiorano meccanismi inconsueti ed anomali, vi si rintraccia tuttavia il tratto comune al delitto passionale del Sud: la freddezza. Nelle terre del Mezzogiorno, niente più di un delitto passionale assomiglia ad un meccanismo scientifico, costruito pezzo per pezzo, preordinato nei minimi particolari, eseguito con precisione meticolosa: ciò che rivela un perfetto dominio, un'inesorabile manifestazione di quel controllo che di solito si attribuisce alla educazione nordica (non si usa forse la dizione inglese self control?). E che self control… Durante lo studio e la preparazione del delitto, che può durare dei mesi, se non degli anni, e fino all'istante dell'esecuzione, non un trasalimento, non un passo falso, non un riflesso, negli occhi impenetrabili, della frigida collera che si annida nel petto. Al Sud saranno approssimativi gli orari, gli impegni, gli appuntamenti, gli uffici tecnici, ma non i “delitti d'onore” , veri e propri congegni di precisione.

Il delitto di Aurelio Tafuri è solo l'ultimo d'una serie interminabile in cui balena la fiamma della passione fredda. Le confessioni dell'omicida, le scoperte degli investigatori, rivelano che l'uccisione del giovane Gianni De Luca fu ordita con una meticolosa premeditazione, che seppe nascondere lungamente nel segreto impenetrabile del suo cuore. Quando l'innamorato della sua donna abboccò alla trappola mortale, non ebbe alcun sospetto: si trovò dinanzi un uomo affabile, premuroso; come avrebbe immaginato che Tafuri portava nella macchina il bisturi con il filo di ferro, i mattoni, la sbarra ( era il bracciolo di una sedia che si era procurato un mese addietro da un vagone ferroviario ), l'arsenale della sua distruzione? Del resto il medico di Santa Maria, con un tratto dell'orgoglio spettrale, che spesso affiora in simili circostanze, non rivelò di aver architettato un “delitto perfetto”… non si costruiscono delitti perfetti se non si è lucidi, se non si controllano le passioni.

Nel 1963, a tre anni dal delitto, il processo ebbe inizio presso la Corte di Assise di S. Maria C. .V. Furono impegnati i più grandi avvocati dell’epoca. Per la famiglia Tafuri: Giuseppe Marrocco, Ciro Maffuccini, Alfonso Martucci, Enrico Altavilla e Giuseppe Garofalo. In appello Giovanni Leone. Per la parte civile Alfredo De Marsico, Guido Cortese, Luigi Bagnulo, Luigi Cariota Ferrara e Michele Verzillo. Fu un processo clamoroso. Inviati speciali da ogni dove. Un duello non solo di oratoria, ma anche psichiatrico, con i più importanti professori di psichiatria dell’epoca. Era un delitto dove aleggiava la follia…strano, con un movente singolare: un delitto altruistico.

Aurelio Tafuri, fu accusato d'avere ucciso con “crudeltà” e “premeditazione” , scagliandone il cadavere nel torbido Volturno, il giovanissimo Gianni De Luca, cui egli non poteva perdonare di avergli tolto la bruna e bella indossatrice Annamaria Novi, nota come “Nanà” nell'ambiente della “haute couture” napoletano.

In questo dramma uno dei personaggi principali è la madre del giovane professionista (Tafuri, che nel periodo del processo aveva 32 anni, commise l'atroce delitto a Caiazzo il 9 marzo del 1960), Maria Merola nativa di Curti. Lei – nel corso del processo - ha narrato la lotta combattuta per anni sperando di strappare il figlio a quella torbida passione. Il tutto comincia con un colloquio “nel cuore della notte”, quello della Pasqua 1959. “Ma mio figlio è stato sempre sordo ad ogni mia invocazione e preghiera. Mi diceva che la sua professione non aveva nulla a che vedere con quella donna e che l'amore redime ogni passato. Naturalmente mantenni fermo l'atteggiamento di ostilità assoluta al matrimonio”.

“Il 10 marzo del 1959 – continuò la madre dell’assassino - lo affrontai con energia perché quattro suoi clienti erano stati costretti ad andar via per la terza volta. Volevo richiamarlo all'osservanza dei suoi doveri professionali. E una sera lei, che avverte nel suo istinto come il figlio stia per sprofondare in un baratro in cui lo perderà per sempre, si decide, vincendo il suo pudore di donna, a rivelare al medico un geloso segreto: pochi anni dopo le nozze, quando era nella più ardente età, il marito ( Don Manlio Tafuri un onesto farmacista ) subì una malattia che la rese come vedova. Alludendo al sacrificio sopportato in silenzio, domanda al figlio se crede che un'altra donna potrebbe tenere simile condotta qualora a lui toccasse una disgrazia simile a quella di suo padre?”.

Ignorava, la poveretta, che il figlio soffriva di impotenza, era un voyer, gli piacevano più i ragazzi che le donne, gli piaceva farsi raccontare gli incontri amorosi della “sua”… donna, quella puttana di Annamaria Novi, ballerina a tempo perso della compagnia di Macario… e prostituta ed amante a tempo pieno. Un vero letamaio napoletano quello frequentato da Tafuri, pieno di lenoni, di ruffiani, di omosessuali e di strozzini. Ma lui era “particolare”, pittore di buona levatura, dermatologo affermato, un giorno, ad un suo cliente che si era recato presso il suo studio preoccupato di aver contratto una malattia essendosi fatto sodomizzare dal suo cane, dopo averlo assicurato sul contagio venereo gli disse: “Fai quello che più ti piace fare… tanto il cane non ti giudica”.

E la tragedia si concluse. E' il 10 marzo '60, la mattina dopo il delitto. Tormentata da quella vita, la madre ha uno scatto. ”Basta! Sono stanca! La vogliamo finire!. E lui: “Che sai tu... “. “So che sei pieno di debiti fino alla cima dei capelli”. Il figlio rispose: “Fosse solo questo... ed incalzò: “Pensa ad una cosa più orrenda”. Finché arriva la rivelazione. “Ho ucciso, ma pagherò. Già' questa mattina mi sono recato alle carceri per costituirmi e se il direttore fosse stato libero glielo avrei detto subito”. Infatti il direttore “incaricato”, Alfredo Grieco — che sostituiva il titolare Enrico Matano - credendo che il Tafuri - sanitario della prigione, dovesse parlargli per motivi di servizio, gli aveva chiesto di ritornare.. e lui ritornò e si costituì. .

Le cronache dell’epoca raccontano che “poco prima che fosse annunciata la Corte, l'imputato era stato trasferito nella gabbia. I familiari gli avevano mandato degli abiti stirati di fresco ed egli, con un “completo” grigio azzurro e una cravatta granata, appariva particolarmente elegante. Calmo, ingrassato, con un viso roseo e uno sguardo lievemente ironico mascherato appena dagli occhiali, il dott. Tafuri sembrava del tutto indifferente a quanto si svolgeva intorno a lui. Ignaro che di li a poco sarebbero stati sviscerati fatti scabrosi della sua vita e della sua famiglia. Sarebbe riaffiorato il tentato suicidio della madre, il suo mancato avvelenamento di un altro amante della ballerina, lo sperpero di denaro (si parla di centinaia di milioni degli anni Sessanta ) che buttò sul lastrico la famiglia che fu costretta a cedere l’avviata farmacia di Piazza Mazzini.

La Corte avrebbe dovuto essere presieduta dal consigliere Giovanni Cammarota, dopo la rinuncia fatta dall'abituale presidente Prisco Palmieri, amico della famiglia Tafuri. Ma a causa di un grave lutto del dottor Cammarota, che perse la madre, il processo fu diretto da Giuseppe Sant'Elia. Le funzioni di pubblico ministero non furono svolte — come di regola — da uno dei ”sostituti” della locale Procura, ma da un alto magistrato, Federico Putaturo. Aleggiava lo spettro della legittima suspicione data la notorietà della famiglia Tafuri.

Si aprì il sipario del “Teatro di Giustizia” e il presidente ordinò a “don Peppino” Girardi, il vecchio ufficiale giudiziario, di far venire avanti tutti i 28 testimoni citati dal P.M. Erano assenti il padre del medico, Manlio (il vecchio farmacista) e la madre Maria ed il fratello Mario. Quasi tutti presenti gli altri, fra cui i genitori della vittima, due degli ex amanti di Nanà (l'ing. Egano Lambertini e il direttore di una elegante boutique di fiori, Antonio Delle Cave), due domestici di casa Tafuri, Vincenzina Califano e Lucia Testa, e l'ex amante del medico Anna Maria Novi.



Un grave incidente accadde quando l'ex amante del medico uscì dal palazzo di giustizia. La folla commossa dallo strazio, sia dei genitori della vittima, che di quelli del medico, dal crollo fisico del padre del Tafuri e dalla volontaria clausura di sua madre - la signora Maria Merola Tafuri non usciva più di casa da oltre tre anni - esasperarono la gente contro Nanà. La vettura della “mannequin” venne circondata da una massa che urlava e l'insultava. Il pronto intervento dei carabinieri scongiurò un grave pericolo per la giovane salvandola da un vero tentativo di linciaggio, l'indossatrice salì impassibile su un'auto che si allontanò velocissimamente… La giornata che vide cominciare il processo al medico omicida fu grigia, piovosa, invernale, eppure infuocata per l'ansia con cui la cittadinanza di Santa Maria Capua Vetere visse l'inizio di questa tormentosa vicenda giudiziaria, in cui tutto lo scontro degli avvocati della difesa e della “parte civile” si impernia su un unico punto essenziale: Aurelio Tafuri è un criminale che ha ucciso per passione o un malato di mente travolto da un’antica tara?

Le perizie psichiatriche furono quattro. La prima, ”di ufficio” fu svolta dai professori Cesare Gerin, Mario Gozzano e Lucio Bini, il primo direttore dell'Istituto di medicina legole, il secondo della clinica di malattie mentali c nervose e il terzo primario neurologo degli Ospedali riuniti: tutti della capitale. Essi, analogamente ad altri due professori universitari, Rinaldo Pellegrino da Roma c Pasquale Penta da Napoli (consulenti della “parte civile”) conclusero per la “perfetta capacità di intendere e di volere” del Tafuri. I due consulenti chiamati dalla difesa (Benigno di Tullio e Annibale Puca) lo definirono invece uno ”schizofrenico incapsulato”.

In una “memoria”, che è un “classico” nei processi penali, il Prof. Avv. Enrico Altavilla ( uno dei difensore di Aurelio Tafuri), ricostruì, con la sua eccezionale esperienza nel campo dell'antropologia e della psicopatologia forense, attraverso un'indagine nella parentela, i precedenti ereditari dell'imputato. Nel ramo materno un fratello del bisnonno (Vincenzo Salzillo) e una cugina, Giuseppina Carla De Lconardis, erano morti negli ospedali psichiatrici di Aversa e di Torino. Nel ramo paterno si trovavano altri infermi di mente come gli zii Gaetano e Maria e la cugina Livia. La zia Maria, vivente all’epoca dei fatti, vedova di un possidente di Portici, Andrea Martone, soffriva di cleptomania. Una volta ritirò da una cassetta di sicurezza della banca presso cui erano custoditi dei titoli e dell'argenteria di sua proprietà e fattone un pacco li calò con una corda in un pozzo. Al marito disse che erano stati rubati. Il Martone fece una denunzia ma la banca rivelò che fu la signora a prendere quei valori e venne così scoperta la verità.

Se Aurelio Tafuri ha ucciso e due famiglie ora piangono per due vite distrutte, una fisicamente e l'altra moralmente, ciò lo si deve anche alla ottusa, tenace, colpevole ignoranza ed alla benda di pregiudizi con cui ci si vuol fasciare gli occhi innanzi alla realtà anziché vederla con coraggio morale, battendosi per migliorarla. Il confronto dunque fra la fatale mannequin dai dolcissimi, micidiali occhi e il medico ha questo primo scopo: tentare di stabilire se Aurelio Tafuri è o no sessualmente normale. Perché? Perché una delle tre causali, quella del delitto sessuale (le altre sono l'infermità di mente, totale o parziale, e la gelosia, ipotesi quest'ultima decisamente demolita da una onesta valutazione dei risultati istruttori, pienamente confermati dalle testimonianze di questa prima parte del processo) può essere la chiave della tragedia.

Nelle ultime udienze Aurelio Tafuri preferì rimanersene tranquillo in carcere, curando Gelsomino, un micetto bianco come la neve. “Fra il mìo processo ed il mio gatto preferisco pensare a quest'ultimo”, mandò a dire alla madre tramite l'avv. Giuseppe Marrocco. Un tipo strano, quantomeno singolare… oppure uno “normale”?... come ho scritto nel mio libro: ”Il delitto di un uomo normale”…eticamente deviato da una passione ignominiosa! Questo resterà sempre un mistero che Tafuri porterà nella tomba.

Basterà uno sguardo al fascio delle sue lettere inviate ai familiari dalle varie carceri dove va compiendo quello che egli dice “il giro dell'Italia galeotta” per capire il suo carattere. Oppure leggere i suoi memoriali, per capire la sua “versione” dei fatti e farsi un’idea della sua contorta personalità. E' un diario epistolare del più vivo interesse anche perché offre un quadro profondo e umano dell'ambiente delle nostre prigioni. In una del 10 giugno I960 alla zia Marta, vedova Martone (abita a Portico, nella provincia di Caserta) scriveva: “Anche a te ripeto la solita predica che sto ripetendo da tre mesi: non vi preoccupate, non esagerate, non vi date pensiero, non fate scene-madri, non vi muovete, non vi affannate Sto bene, sono tranquillissimo, vengo trattato bene, la mia salute è ottima, non mi manca niente. Mangio, bevo, leggo e dipingo. Meglio di cosi non si può stare in carcere”. 7 luglio (dello stesso anno), rivolgendosi ai genitori e al fratello: “In effetti, ho esaurito da qualche giorno alcuni tubetti di colore ma non ve li avevo richiesti pensando ad imminenti sviluppi della "la posizione nell'Istruttoria. Sennonché, avendo qualche lavoretto avviato, penso che avrò forse il tempo di terminarlo e vi chiedo un paio di tubetti anzi più di un palo e precisamente uno di bianco zinco, uno di verde smeraldo, un terzo di blu oltremare, un quarto di giallo cromo e un quinto di verde veronese. Niente altro”.

E ancora da Rebibbia (13 aprile '61): “Rebibbia, quarta tappa del mio giro d'Italia galeotta. Cambiamento In meglio: vita semilibera. La perìzia sì farà qui. Niente dì nuovo”. Ancora da Rebibbia (8 dicembre '61): ”Converrete con me, ripensando al motivo per cui sono In carcere, che è giusto che io sia in carcere. Circa poi il periodo di tempo che dovrò rimanervi non vedo proprio come voi possiate preoccuparvi tanto di fronte alla prospettiva che so sia lungo o lunghissimo o senza fine. Per farvi capire meglio con un esempio vi dirò che voi mi sembrate come un pilota che precipita da un aereo ad altissima quota e, nel precipitare si domanda ansiosamente: “Sto precipitando da 5000 o da 2000 metri?”. A me pare una domanda priva di senso perché per quel pilota è sempre lo stesso, che precipiti da dieci mila metri oppure da cento... Io vi dico semplicemente che voi state guardando la mia vicenda da un angolo visuale errato, cioè dall'angolo di chi è trascinato dalla forza tenace del vincolo di sangue e non sente altre ragioni che queste. Viceversa io che mi trovo in una specie di congelamento psico-affettivo sono in grado di guardare la mia storia dall'alto e di valutare bene le dimensioni e le prospettive del tutto, senza che la mia vista venga appannata dalla nebbia degli interessi personali... Perciò: attesa ragionata e fredda. Lasciate che il fiume se ne vada al mare”…

Il medico Aurelio Tafuri raccontò alle Assise di Santa Maria Capua Vetere come egli, la notte del 9 marzo I960, attirò in un tranello il giovanissimo rivale in amore Gianni De Luca, e Io uccise, ponendone poi il corpo nel portabagagli e tenendolo nella vettura finché, dopo aver attraversato città e paesi addormentati nelle province di Napoli e Caserta, lo lanciò nel fiume Volturno, Nell'aula, i volti più pallidi per l'angoscia erano quelli di Vittorio e Guglielma De Luca, i genitori della vittima. Per la prima volta, essi udivano, con particolari finora sconosciuti alla stessa magistratura, come il loro figlio diciottenne venne assassinato. Cominciò dall'appuntamento con Gianni De Luca al bar delle Luci, in piazza Medaglie d'oro, a Napoli. “Malgrado la sua idea di voler sposare Nanà, la mia amica, i nostri rapporti erano ottimi, tanto è vero che egli aderì all'incontro e al viaggio in auto, di sera e in campagna”. E osserva con voce gelida: “Non sospettò nulla”.

“Il motivo apparente della gita - continuò il medico - era di procurare al De Luca a Santa Maria Capua Vetere un appartamentino di cui il giovane aveva urgente bisogno per stabilirvisi con Nana, quando fossero divenuti marito e moglie”. Il dott. Tafuri spiegò che una volta giunti in un posto solitario, egli riuscì a far scendere il De Luca con il pretesto di riparare una gomma. “E' stato detto che era quella destra anteriore. Si trattava invece della posteriore. Quando egli abbassò il capo, essendo sceso anch'io, gli vibrai subito un formidabile colpo al cranio e poi altri due ed altri ancora, con una sbarra di ferro che avevo tenuto pronta per quello scopo, come i mattoni e il filo di ferro già messi nell'auto”. La perizia anatomica chiarì che aveva fatto anche uso di un punteruolo, e che tutte le ferite al torace vennero inflitte dopo gli altri colpi.

“Infatti quando mi accostai al corpo di Gianni per sollevarlo vidi che egli respirava ancora. Fu allora che afferrai il punteruolo e lo colpii. Ma solo per accelerarne la fine. Mi si è rimproverato perché, come medico, avrei dovuto rendermi conto di un fatto: egli aveva già riportato lesioni mortali, con le tempie fracassate. Con quale scopo - mi si è chiesto - insistetti nel pugnalarlo ancora? Ma io agii proprio perché come medico mi rendevo perfettamente conto che le ferite al capo possono determinare una sopravvivenza per un tempo piuttosto notevole. Perché dunque farlo soffrire ancora?”.

Nel silenzio sgomento, l'imputato rievoca la sua corsa in auto con il morto. Si fermò presso il cimitero di Santa Maria Capua Vetere. Là stette un poco innanzi al cancello, guardando le tombe di marmo bianche sotto la luna, nascosto nel cono d'ombra di un cipresso. Poi udì delle voci di soldati da una vicina polveriera e andò via. Passò per Casaluce e si fermò una seconda volta, presso un cantiere edile fra Sant'Antimo ed Aversa. Quindi pensò di liberarsi del cadavere lasciandolo tra i castagneti sulla collina dei Camaldoli, in una stradicciola frequentata da coppiette. Ma non si sentì abbastanza sicuro e abbandonò soltanto la sbarra, che in seguito verrà ritrovata dai carabinieri in una pozzanghera, su sua indicazione.

Durante il ritorno, passando per il quadrivio di Secondigliano, il Tafuri venne fermato dalla polizia stradale. Gli agenti proiettarono i fari delle torce elettriche sul viso del medico e dentro la sua “Giulietta”. Mentre attendeva, pallido, essi gli dissero: ”Lei ha una gomma a terra”. Tafuri ringraziò e assicurò che l'avrebbe fatta riparare subito, all'officina più vicina. Non si accorsero del cadavere di De Luca nel bagagliaio.

Dopo aver confermato la autenticità di un diario che scrisse nel carcere di Poggioreale e in quello di Rebibbia, il dott Tafuri affermò: “Insisto nel dire che Annamaria Novi è estranea alla attuazione e alla premeditazione del delitto. Non gliene parlai mai”. Il Presidente a questo punto chiese “E' vero quello che la Novi ha. détto circa i rapporti avuti con lei? ( la donna aveva dichiarato che Tafuri era un guardone e che non si era mai accoppiato con lei… ma si era solo più volte masturbato, guardando nello specchio il suo culo ). Lui rispose: “Essa mentì nel definirmi solo un protettore. Ne fui anch'io l'amante. Ritengo solo di doverle attribuire in certo modo la responsabilità morale di quanto io ho commesso. Ciò perché tutti i fatti, cioè il suo comportamento, mi convinsero che volesse liberarsi del De Luca. Se invece avesse parlato diversamente, se mi avesse espresso un proposito contrario, ebbene io non avrei compiuto il delitto”.

I periti d'ufficio affermarono che il medico era del tutto normale. Quelli della difesa sostennero il contrario e lo definirono uno “schizofrenico”. Uno di essi, il direttore del manicomio civile di Aversa, disse: “L'imputato non ha mai avuto rapporti con una donna. Per paura di apparire ridicolo, si era inventato due amanti, oltre Nanà”.

La requisitoria del pubblico ministero fu spietata: Ergastolo senza pietà. “Egli – disse tra l’ltro – Tafuri è una specie di ”dottor Jekyll”, un uomo dai due volti e dalle due vite che è vissuto in un ambiente familiare strano, con un padre “abulico, indifferente, chiuso alle confidenze del figlio”, ed una madre “imperiosa”. Secondo il P. M., il responsabile del crimine non fu travolto dalla fatalità, ma volle quello che gli accadde. A questo punto, l'accusatore lesse un breve squarcio del diario in cui il Tafuri, dopo il delitto, ricorda il primo fatale incontro con Nanà: “Tutto era scritto, tutto. Sono stato sempre un fatalista, ma ora sono solo un fatalista. Quella sera, qualcuno, già conscio, avrebbe potuto dirmi: “Ti piace la cenetta? ti piacciono gli amici? ti piace la ragazza? Bene, mangia pure e bevi e corteggia la donna e canta insieme ai posteggiatori'. Vuoi sapere come andrà a finire? Fra due anni, nella squallida stanza di una procura della Repubblica, uno scocciato impiegato riempirà, a macchina, un modulo:“Tafuri Aurelio, imputato di omicidio volontario premeditato aggravato per motivi abietti e per occultamento del cadavere".

Ebbe 4 processi. La Cassazione rinviò alla Corte di Appello di Napoli il quarto giudizio. Difeso da Giovanni Leone fu definitivamente condannato a 22 anni, ma ne scontò meno di 14. Vive a S. Maria ed ha 82 anni. Nonostante la sua cagionevole salute ( una affezione agli occhi) è ancora il più stimato dermatologo della Provincia, con una invidiabile clientela che continua a visitare senza percepire onorari… ma, purtroppo non può più dipingere.